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Umano, troppo umano? Il papato e l’opinione pubblica

Umano, troppo umano? Il papato e l’opinione pubblica

Tratto da: Adista Documenti n° 22 del 24/06/2023

Una riflessione su come sia cambiato negli ultimi decenni il rapporto tra il papa, meglio – l’istituto stesso del pontificato – e l’opinione pubblica laica e cattolica non può che cominciare dalla partecipazione del pontefice regnante, Francesco, al programma televisivo “A sua immagine”, il format religioso della Rai che va in onda il sabato pomeriggio e la domenica mattina.

Nella puntata del 4 giugno scorso, non solo per la prima volta un papa metteva piede in uno studio Rai, ma lo faceva anche attraverso una formula inedita: non un’intervista “one to one”, ma un dialogo con diversi testimoni che hanno rappresentato al papa le loro difficoltà di vita. Seduto su una poltrona bianca, il papa ha discusso del senso della vita con alcune persone, giovani e adulti. È vero che il papa aveva già fatto una esperienza simile: da Santa Marta, dove Francesco ha scelto di abitare e lavorare, il 19 dicembre 2021 era andato in onda uno Speciale Tg5 “Francesco e gli Invisibili”, curato dal vaticanista Mediaset Fabio Marchese Ragona, durante il quale il Papa aveva risposto alle domande di quattro persone che avevano perso tutto nella vita, tranne la speranza di riscattarsi. Ma in quel caso la trasmissione era registrata e montata. Sempre nel 2021, a gennaio, il papa aveva rilasciato una intervista, ancora a Marchese Ragona, sempre da Santa Marta, per parlare di pandemia, vaccini, aborto, politica e società. Senza contare la celebre intervista concessa a Fabio Fazio il 6 febbraio 2022 nel corso della trasmissione “Che tempo che fa”. In quell’occasione però l’intervista era col “trucco”. Sembrava cioè fatta in diretta, con Fazio che faceva le domande e il papa che rispondeva, ma in realtà il papa aveva registrato le risposte alle domande che Fazio poneva invece in diretta e che – con tutta evidenza – la Rai aveva fatto avere in anticipo al Vaticano.

Insomma, dallo ieratico Pio XII che si faceva riprendere solo dopo aver attentamente studiato pose, gesti, espressioni e aver preparato attentamente il testo da pronunciare e che mai rispondeva alle domande, men che meno dei giornalisti (e che sembrò a molti incredibile vedere che si potesse mischiare alla folla degli sfollati, dopo il bombardamento di S. Lorenzo, nel luglio del 1943), si è passati al papa che risponde in diretta e si cimenta anche a trattare questioni personali (ad esempio da Fazio il papa ha rivelato che da piccolo desiderava fare il macellaio).

Certo, il lungo percorso che dal modello di pontefice incarnato da Pio XII ha portato, nel volgere di “soli” 70 anni (che per i tempi della Chiesa cattolica sono uno spazio relativamente breve) alla informalità di Francesco, deve almeno considerare un paio di tappe intermedie. Già Giovanni XXIII, successore di Pio XII, aveva dato di sè l’impressione di un “papa buono” che conferiva ai genitori l’incarico di dare una carezza ai bambini a nome del papa, un vecchio e saggio nonno più che una figura distante e sacrale. Ma Giovanni XXIII aveva ancora la corte pontificia, il camauro, la mozzetta, l’ermellino e la portantina (cui rinunciò il suo successore, Paolo VI). Insomma, si trattava di un compromesso tra tradizione delle forme e modernità degli atteggiamenti e delle scelte.

Paolo VI fu certamente un papa attento a calare l’istituzione ecclesiastica dentro il mondo che cambiava. Ha inaugurato l’idea di un papa che va in visita ai fedeli di altri Paesi, anche molto lontani, ha parlato all’Onu, ha incontrato leader religiosi diversi dai cattolici (celebre il suo incontro con il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora, nel 1964). Ma era misurato e prudente, pensoso e mediato, nelle parole e nei gesti. E quando fu operato alla prostata (1967) preferì far allestire una sala operatoria in Vaticano che andare in ospedale e mostrare la fragilità del suo corpo al mondo.

Ad aprire davvero la strada verso un nuovo rapporto tra papato e opinione pubblica è stato più propriamente Giovanni Paolo II, che faceva le vacanze estive in montagna, andava a sciare di inverno, si intratteneva in aereo a parlare coi giornalisti, incontrava le rock star (nel 1999 ad esempio si fece fotografare con indosso gli occhiali di Bono Vox degli U2), partecipava a incontri negli stadi e nelle piazze, a kermesse musicali e cerimonie religiose inusuali, indossava cappelli e copricapi che gli venivano offerti in dono (aprendo la strada a un altro modo di concepire il potere, religioso o laico che sia, dal “presidente operaio” alle felpe di Salvini).

Questo processo di secolarizzazione e di mondanizzazione dell’istituzione papale ha creato indubbiamente un effetto di straniamento tra chi, guardando la tv, può oggi vedere il papa, il “Santo Padre” il “Vicario di Cristo”, partecipare a un dibattito televisivo, come un opinionista qualsiasi, per quanto autorevole e senza (ancora) un vero contraddittorio. D’altra parte, la puntata di “A Sua immagine” è la conferma dell’idea di normalità e quotidianità che papa Francesco (sin da quando era vescovo di Buenos Aires) cerca costantemente di trasmettere.

Resta da capire se questa “normalità” del papa giovi davvero all’immagine della Chiesa oppure no. Certamente, nel breve periodo, conferisce all’istituzione un’aurea di modernità, la sensazione di una leadership capace di stare al passo coi tempi; che però non è assolutamente detto corrisponda poi a una reale capacità di aggiornamento, in termini teologici e pastorali. L’esempio lampante è proprio quello di Giovanni Paolo II, abilissimo nell’utilizzare tutti i mezzi che la comunicazione di massa gli offriva occultando dietro l’immagine pubblica sorridente e dimessa una strategia pastorale e una linea teologica di stampo nettamente conservatore.

Anche con Francesco si ripete, sotto altre forme, la stessa contraddizione del pontificato di Giovanni Paolo II. Francesco è certamente più aperto, dal punto di vista ecclesiale e pastorale, di Wojtyla, anche perché i tempi sono cambiati e difficilmente la Chiesa avrebbe potuto mantenere quella linea (il naufragio di Benedetto XVI dimostra che senza aggiornare e rinnovare almeno le forme la Chiesa rischia l’irrilevanza). Però teologicamente il papa resta ancorato a una rappresentazione di sé e della Chiesa molto tradizionale. Al papa resta il dogma dell’“infallibilità”, la prerogativa di capo di uno Stato teocratico, la guida assoluta di una istituzione che, per quanto promuova la collegialità, resta di fatto verticistica e gerarchica. Il papa crede nel demonio, consacra Russia e Ucraina al cuore immacolato di Maria, difende il matrimonio tra uomo e donna, si scaglia continuamente contro l’aborto, ribadisce il divieto di contraccezione anche alle coppie sposate, ecc. Eppure, viene percepito come innovatore, moderno, addirittura “rivoluzionario”.

Certo, per molti cattolici è inevitabile che sia così: i tempi della Chiesa sono talmente lunghi che i cambiamenti innescati da Francesco non potranno che realizzarsi negli anni a venire e sotto altri pontificati. Resta però il fatto che il mondo da almeno 150 anni, si trasforma e si evolve in tempi molto più rapidi di quelli della Chiesa, che dal Sillabo in poi non fa che arrancare per stargli dietro, talvolta con le condanne, talvolta con le aperture. Il card. Martini, nella sua ultima intervista al Corriere della Sera, si rammaricava che la Chiesa fosse indietro addirittura di 200 anni. Forse ora ne ha recuperati un po’, ma ne restano tanti.

Questa è la stagione delle aperture, non c’è dubbio. Ma sono aperture caute che, passato l’effetto sorpresa di un papa che dice “buonasera” dal balcone del Palazzo Apostolico, va in Tv e vive in una pensione (seppure piuttosto lussuosa), potrebbero portare l’opinione pubblica all’assuefazione. Con il rischio connesso che una eccessiva informalità del papa possa indurre sia i credenti che i non credenti, a considerare il pontefice alla stregua di qualsiasi altro personaggio pubblico, minandone l’autorevolezza, prima ancora che la sacralità che ha sempre circondato la figura del papa, fino a comprometterla irrimediabilmente. Forse il papa che manda il suo messaggio di augurio al Super Bowl (l’evento principale della liturgia laica e secolarizzata degli Usa; è accaduto nel 2017) è un necessario prezzo da pagare per traghettare la Chiesa in questi tempi di crisi e di scristianizzazione della società. Ma lo scenario di una eccessiva omologazione del papato a ogni altro potere, del papa a qualsiasi celebrità dello star system è evidente. E i pericoli conseguenti inevitabili. Basti pensare all’episodio in cui Francesco, sull’aereo che nel 2015 lo stava portando a Manila, affermava, parlando della libertà di espressione dopo i fatti di Charlie Hebdo: «Se il mio amico Gasbarri dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno», agitando contemporaneamente la mano destra e dando avvio a una serie di “meme” sui telefonini e battute seconde solo a quelle che circolano su Berlusconi; oppure a un altro episodio, quello in cui il papa, la sera del 31 dicembre 2020, dopo la solenne celebrazione del Te Deum nella basilica vaticana il papa mentre era in piazza San Pietro per ammirare il grande presepe donato dal Trentino, venne afferrato per il braccio con decisione da una donna e costretto a tornare indietro. Un gesto irrispettoso che innervosì Francesco al punto di farlo reagire colpendo la mano della fedele con uno schiaffo per liberarsi dalla presa. L'espressione irritata di Francesco non sfuggì ai presenti e sui social non mancarono reazioni virali sia allo schiaffo che alla faccia arrabbiata del pontefice.

Se il papa resterà nella percezione dell’opinione pubblica anzitutto il papa e solo dopo un uomo comune sarà però solo il tempo a dircelo. Ma lo scenario di un talk show nel quale il papa alza la voce o viene redarguito con espressioni tipiche dei salotti televisivi (“si vergogni”, “è mai andato a farsi un giro al mercato?”, “lei non sa cosa vuol dire non arrivare a fine mese”, “la gente è stanca di queste cose”), è dietro l’angolo.

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