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Al Cantiere Cipax. Guerra è patriarcato

Al Cantiere Cipax. Guerra è patriarcato

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 20 del 01/06/2024

Scriveva Dorothee Sölle: «Venga il tuo regno, Signore, ma come? È un regno che tu porti da solo, un regno lontano che riguarda l'aldilà, non noi e il nostro agire? La tua Parola ci dice che ci si può trovare in questo regno già qui, che ha cominciato a venire. In questo che cos'è il tuo agire, e che cosa il nostro?»

La teologa tedesca D. Sölle, attivista nei movimenti nonviolenti degli anni ‘70 e ‘80, ha insistito sul fatto che fede e salvezza hanno a che vedere con l’aldiqua, e ha riflettuto sulla perdita di empatia della società contemporanea. Sia lei che J. Moltmann hanno combattuto l’idea di un Dio apatico, non interessato alla sofferenza del mondo. Addirittura Sölle ha iniziato il suo lavoro con una analisi del tema della sofferenza, in cui ha incluso le sofferenze provocate dalle guerre (allora era il Vietnam), dal lavoro alienato, dalla violenza domestica.

L’alienazione della sofferenza produce isolamento e apatia; e il sistema di sfruttamento capitalistico e consumistico ha proprio bisogno di questa apatia per potersi svolgere senza ostacoli. Scrive Sölle:

«Nel periodo nazista in Germania Dio era piccolo e debole. Dio era infatti impotente perché non aveva amici, né maschi né femmine. Lo spirito di Dio non aveva un posto dove vivere. Il sole di Dio, il sole della giustizia, non splendeva. Il Dio che ha bisogno delle persone per nascere non era nessuno».

Dio prende parte, e ha bisogno anche di noi per prendere parte. Ma Dio prende parte come chi soffre, non come chi infligge la sofferenza, e apprezza la rivolta di Giobbe contro una immagine divina sadica, crudelmente presentata dai suoi amici.

Liberati dalla rassegnazione, anche noi con Dio possiamo dire no al mondo come esiste: qualcosa che per Sölle è espresso al meglio dai mistici e dalle mistiche. Rumi, ad esempio, che offre un’immagine potente parlando della rassegnazione del presente come di un addormentamento nella prigione dell’indifferenza al mondo. La spiritualità mistica esprime una dinamica di resistenza e trasformazione.

Sölle nella sua teologia cerca una genealogia nonviolenta attraverso le religioni. Tra gli altri si rifà al predicatore quacchero John Woolman che rifiuta di vestire con abiti neri perché il colore viene dal lavoro degli schiavi, rifiuta di mangiare con posate d’argento, un minerale scavato dagli indiani in condizioni di miseria, ecc.

Sölle ci invita quindi a superare l’apatia e la mancanza di empatia ri-affinando la nostra capacità di ascolto dell’altro.

L’assalto feroce del 7 ottobre ha fatto riemergere un fatto che stava davanti agli occhi di tutti e di tutte: che lo stupro è un’arma di guerra e non è mai stato risparmiato nelle situazioni in cui l’altro/a viene disumanizzato fino a divenire un oggetto.

Per umiliare e distruggere le donne si usa lo stupro. Per distruggere le reti sociali di reciprocità e complementarità in cui sono inserite; lo si usa nelle guerre etniche, come in Sud Sudan o nella guerra in Bosnia. Per sottomettere gli uomini nemici, considerati sub-umani, e far sentire loro che non possono proteggere neppure le “loro” donne.

Il capitalismo sfrenato che ha trasformato ogni cosa in un oggetto da consumare, consuma anche i corpi. Unito alla logica coloniale che separa chi è umano e degno di considerazione e empatia e chi è al livello delle bestie non umane, il capitalismo porta il patriarcato ai suoi limiti estremi di gerarchia crudele e violenta. Il capitalismo radicato nel colonialismo ha bisogno di un ceto subumano da cui estrarre lavoro forzato e da considerare come la condizione naturale abietta dei subalterni.

In una specie di continuum della violenza il capitalismo patriarcale determina i tempi della guerra all’altro, disumanizzandolo prima nell’immaginario e poi nella realtà. La guerra di sterminio che si accompagna allo stupro vuole cancellare i luoghi fisici di vita dei popoli aggrediti, i loro legami sociali e la memoria collettiva che li costituisce come società. La strage di intere famiglie palestinesi e la creazione di molte decine di migliaia di orfani senza memoria della propria famiglia significa voler impedire di costruire un futuro e una pace a questo popolo (secondo l'Unicef si stimano in 19mila i bambini rimasti orfani o soli, senza alcun adulto che si prenda cura di loro).

La distruzione totale delle città fa parte del nuovo modo di fare la guerra, da Aleppo fino alle città ucraine, è distruzione di radici per non permettere uno sviluppo futuro.

Secondo Rita Laura Segato, antropologa argentina che ha analizzato i femminicidi di Ciudad Juarez in Messico e altrove, siamo in una fase apocalittica del capitale.

Mentre il patriarcato classico aveva bisogno della gerarchia di genere e di classe per mantenere il proprio privilegio, l’assetto proprietario del mondo attuale, che lei chiama “padronità”, arroganza di controllo sulla vita e la morte del pianeta, si sfila dalla dipendenza dai subordinati. Il patriarcato costruito sulle relazioni di potere coloniale è convinto oggi di poter vivere nel proprio isolamento privilegiato e identitario. È una forma di aparheid che esclude anche i membri non considerati onorevoli della propria comunità: le persone di colore, i poveri, quelli privati della cittadinanza, le minoranze sessuali, e trasversalmente le donne non subordinate al potere.

Scrive Rita Segato (La guerra contro le donne, 2023 p.151):

«La conquista non è mai stata completata, è un processo continuo ancora in corso. In questo contesto storico la compassione, l’empatia, i legami, il radicamento locale e comunitario, così come tutte le devozioni a forme del sacro in grado di sostenere delle reti collettive solide, operano in disfunzionalità con il progetto storico del capitale. Progetto che sradica, globalizza i mercati, strappa e sfilaccia i tessuti comunitari, laddove ancora esistono, si accanisce sui brandelli che resistono, annulla i segni spaziali e i punti di riferimento sacri e tradizionali che ostacolano il sequestro dei terreni da parte del referente universale monetario e mercantile, impone la trasformazione di “oikonomie” di produzione domestica e dei circuiti di mercato locale e regionale in un’unica economia globale, introduce il consumo come meta conflittuale per eccellenza, distruttiva rispetto alle forme di felicità relazionale segnate dalla reciprocità della vita comunitaria…».

«Depredare, trasferire in maniera coatta, sradicare, schiavizzare e sfruttare il più possibile;… ridurre l’empatia umana e addestrare le persone affinche riescano a praticare, tollerare e convivere con atti di crudeltà quotidiani… è una strategia di profanazione!» (p. 162).

Negli Stati Uniti si è sviluppato un campo di sostegno pastorale e psicologico rispetto alla Moral Injury, la “ferita morale” che rende insopportabile ai veterani il rientro nella vita civile con le sue regole, provocando anche la cosiddetta Sindrome Post Traumatica.

In realtà la “ferita morale” mostra che qualcosa della comune umanità è rimasta nei militari, donne e uomini, che hanno vissuto e agito atti di estrema violenza e crudeltà.

Il disegno del capitalismo che combina sottomissioni patriarcali e gerarchie coloniali, è di ridurre al minimo il sussulto di umanità. Prima di tutto in chi guarda da lontano, come noi occidentali davanti all’informazione che non ci fa mai entrare in empatia con le vittime. Potremmo decidere di agire al loro fianco.

Poi in chi partecipa alle azioni come corpo militare, di leva e riservisti, che non trovino in questa empatia umana ragioni per disertare e disobbedire.

E poi nelle vittime stesse, infliggendo un senso di rassegnazione e sottomissione alla crudeltà per poter almeno sopravvivere. L’atteggiamento predatorio tipico del capitalismo consumista lascia indietro solo resti inutilizzabili.

Negli ultimi anni noi abbiamo provato a ripensare cosa è importante oggi nel pensiero teologico e abbiamo valorizzato alcuni elementi:

• la vulnerabilità come possibilità di esporsi con fiducia reciproca gli uni alle altre. Già Albert Schweitzer invitava a sviluppare la fiducia tra i popoli all’epoca della guerra fredda, come fondamento per la costruzione della pace;

• i corpi che resistono ai principi ideologici che li rinchiudono e li fissano nelle gabbie razzializzate, del genere, del colore della pelle, dell’orientamento o identità sessuale. I corpi nella loro fragilità sono da porre come il criterio ultimo della giustizia;

• l’interconnessione che ci rende empatici non solo nei confronti dell’umanità ma del pianeta intero. Cito ancora Rita Segato (p.162) “scegliere il cammino relazionale significa optare per il progetto storico di essere comunità” si tratta di scegliere di difendere il cammino relazionale che ci radica, di difendere “forme comunitarie di felicità”. È una forma di resistenza e una strategia di relazioni femminista;

• una economia di cura e di attenzione da contrapporre a questa economia estrattiva in cui viviamo e da cui dobbiamo allontanarci per permettere che prevalga la vita e non il consumo e la distruzione.

I corpi, le relazioni, la dignità dell’altro e l’eliminazione di ogni disprezzo per l’altra, devono guidarci anche in questa fase come luci che ci fanno intravvedere una modalità non patriarcale e non gerarchica di costruire mondi e società.

Letizia Tomassone, pastora valdese a Napoli, teologa, docente e coordinatrice degli “Studi femministi e di genere” nella Facoltà valdese di teologia di Roma. Moltissime le pubblicazioni, tra cui “Le forme dell’amore. Un confronto teologico tra le varie confessioni cristiane” (ed. San Paolo, 2023), “Per amore del mondo. La teologia della croce e la violenza ingiustificabile” (Claudiana, 2013), cura della raccolta di saggi “Figlie di Agar. All’origine del monoteismo due madri”. Il presente intervento è stato pronunciato all’incontro del Cantiere CIPAX 2023/2024 il 9 maggio scorso

*Foto presa da Unsplash, immagine orginale e licenza 

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