
L’utopia di un’ecologia della cura
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 43 del 14/12/2024
Il tema della crisi ecologica intreccia prima di tutto una domanda dirimente, una domanda di carattere etico che investe soprattutto il ruolo delle grandi religioni nella modernità: occorre che ci chiediamo quale è il tipo di mondo in cui noi vogliamo vivere e che tipo di società desideriamo, possiamo e soprattutto dobbiamo costruire. Ma, ancora di più, se siamo ancora in grado come esseri umani e come comunità umana nel suo complesso di rispondere alle grandi sfide globali che noi ci troviamo di fronte oggi. Sfide, in un certo senso molto più critiche rispetto al passato perché mettono in discussione non solo i valori, le tradizioni e la memoria, ma i fondamenti stessi che ci definiscono come esseri umani. Se è vero che solo le religioni sono in grado di fondare una civiltà è altrettanto vero che queste possono e devono giocare un ruolo fondamentale anche nella trasformazione in senso ecologico del nostro sistema di vita e il tema centrale è puntare sulla comunità della cura, capace di superare allarmismo e propaganda e offrire un paradigma credibile e sostenibile.
Se provassimo per un istante a fissare in una fotografia il procedere del dibattito pubblico sui media e sul web, potremmo dargli come titolo provocatorio “L’ideologia del catastrofismo”. Questo, infatti è il tenore che emerge dalle conversazioni sui social, dalle letture degli articoli dei quotidiani, dalle conversazioni tra semplici cittadini. E questo tono allarmato domina anche i nostri comportamenti quotidiani e le scelte che compiamo sul piano individuale e politico. A questa propensione alla sfiducia verso il domani, le confessioni religiose in primo luogo sono chiamate a contrapporre non tanto uno spirito di positività generica ma un approccio al mondo che torni alla radicalità dell’esperienza sacra del vivere.
All’umanità frammentata contemporanea, orfana di un senso più profondo della vita, della comunità, della politica, ossia della possibilità di una partecipazione attiva alla costruzione del proprio destino, rimane forzatamente come unica prospettiva la rinuncia. Il mistero del domani, privato di un radicamento in una possibile verità percepita e fondante, diviene solo muto senso di impotenza, ansia per la propria stessa sopravvivenza. Nella solitudine purtroppo si coltivano i pensieri peggiori e questi stessi atteggiamenti sono alimentati da meccanismi di propaganda a scopo di controllo delle menti e degli eventi. È un sistema di alienazione dalla dimensione pubblica, confinata in una narrazione apocalittica che promuove strategie normative e il confinamento dell’individuo, della sua creatività, della sua libertà a un conformismo che non ammette deriva o critica, pena la repressione o l’esclusione dal dibattito.
Più si confina l’individuo nella realizzazione interiore e personale, più si restringe la sua possibile partecipazione libera alla dimensione pubblica, sociale, culturale. Questi ambiti sono lasciati alle forze che dispensano categorie, illusioni, sogni e dimensioni entro le quali seguire rigorosamente il piano prestabilito. Ogni volta che si prospetta una qualche possibile autonomia ecco che entra in campo lo strumento dell’ansia, della paura, del controllo. È successo con la pandemia, poi con la guerra in Ucraina e poi con quella in Medio Oriente, con la questione ecologica e poi con l’intelligenza artificiale. Il meccanismo narrativo che lega questi elementi è lo stesso: la percezione di una minaccia talmente grande di fronte a cui il singolo uomo si rivela impotente e la relazione sociale comunque insufficiente e utopistica.
La prospettiva della fine possibile e prossima dell’umanità, a prescindere da quale sia la nuova causa, rinchiude l’uomo in se stesso, nel suo terrore primordiale, lo rende diffidente, aggressivo, alienato. La strategia del terrore è la strategia dell’alienazione dell’uomo dalla propria stessa umanità e dalla sacralità della propria interiorità ridotta a spazio occupato solo dagli istinti. L’unica dimensione che gli resta da elaborare, in una autonomia negativa, dato che quella più complessa è già normata oltre il suo perimetro. Ma lo scontento che emerge trova anche altro sfogo in manifestazioni di rivolta altrettanto parcellizzata perché ideologiche, escatologiche e altrettanto millenariste, quindi ancora strumentale a questa psicologia generalizzata del controllo. Una rabbia ansiogena e identitaria, che esplode nei movimenti sovranisti o in alcune forme di attivismo ecologista, incapaci di dialogare, di costituire una piattaforma in cui si riconoscano le diversità, di diventare sintesi e dunque programma politico. Anche qui resta solo il carattere dell’alienazione di un attivismo o di un ideologismo esasperato che parla a sé stesso.
Mi piace citare un filosofo inglese, Roger Scruton, che era solito dire che «È sempre giusto mantenere le cose come sono, quando si propongono al loro posto cose peggiori». Le sfide che abbiamo di fronte sembrano presentarci di giorno in giorno prospettive non migliorative della comunità europea e umana. Chiaramente la trasformazione della società negli ultimi trent'anni è stata veramente imponente sotto tanti aspetti: l'ondata migratoria di cittadini giunti da altri Paesi, tra cui proprio molti provenienti dai Paesi asiatici di fede buddhista, che oggi rappresentano parte integrante della nostra comunità continentale; assistiamo ogni giorno alle emergenze legate all’ambiente che ci impongono di agire in modo repentino per far fronte a situazioni per le quali non siamo preparati e che ci infondono un senso di fragilità profonda; non ultima, la grande sfida delle nuove tecnologie che stanno radicalmente cambiando la relazione che abbiamo con il mondo e con gli altri. E, inoltre, condizionano anche il nostro stesso senso di appartenenza a una collettività e, in particolare a una collettività politica o religiosa; infine, il tema della globalizzazione economica con l’incremento costante delle disuguaglianze, della marginalizzazione capace di mettere in crisi i fondamenti dell’idea stessa di umanità, di etica, di relazione.
In gioco, prima ancora di una visione di ecologia e delle relative trasformazioni della nostra società europea, c’è dunque un’idea di essere umano nel suo complesso e la possibilità di una convivenza tra cittadini. Tutte queste istanze che stanno rendendo il mondo sempre più secolarizzato e interconnesso si pongono come sfida globale anche per le grandi tradizioni religiose. La domanda, dunque, è se oggi le grandi confessioni religiose sono ancora in grado di offrire all’individuo e alla società un modello alternativo di relazione, di presenza, di senso ultimo della vita. In breve, se all'interno di una società così modernizzata, globalizzata, secolarizzata possono ancora ambire a essere il fondamento per la costruzione di una civiltà.
Oggi sta emergendo in modo deciso la preoccupazione da parte di molti riguardo al ruolo che queste tecnologie stanno svolgendo nei processi decisionali, politici e persino riguardo alle ricadute che hanno sulla nostra vita quotidiana e sulla salute e non ultimo proprio sull’ambiente. È di pochi mesi fa l'appello da parte di alcuni scienziati, grandi imprenditori, politici e anche di esponenti di grandi confessioni religiose per la riscoperta di fondamenti, prospettive etiche in grado di regolamentare il ruolo dell'intelligenza artificiale e delle tecnologiche all'interno della società di mercato.
Ora, la domanda è appunto se le grandi religioni possono ancora portare un contributo di idee e di senso in questo tipo di sfida globale, etica, esistenziale. La risposta, a mio parere è positiva, purché siano in grado di riportare al centro della riflessione comune perlomeno tre elementi: la cura, intesa non semplicemente come spirito solidale ma come capacità di intervenire e di farsi carico integralmente dell'altro nel momento in cui lo incontriamo; il dialogo, elemento fondamentale per riportare la centralità della relazione autentica e aperta nel confronto democratico; infine l'amicizia, intesa in senso etico, come modello di cittadinanza e di immagine di ciò che l’essere umano è. In questo senso anche l'amicizia diventa sinonimo di partecipazione al tentativo di fondare un nuovo modo di vedere il mondo, di quella che io chiamo la società della cura. Questa è la strada che può essere percorsa dalle grandi tradizioni spirituali per ritornare a delle priorità su cui ridare forza a una comunità e dunque una nuova civiltà europea, nel rispetto dell’individuo, dell’ambiente e delle identità.
Stefano Davide Bettera è Filosofo, scrittore e giornalista, presidente Unione Buddhista Europea. Affianca il suo lavoro di autore con l’attività di docenza e di divulgazione.
*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza
Adista rende disponibile per tutti i suoi lettori l'articolo del sito che hai appena letto.
Adista è una piccola coop. di giornalisti che dal 1967 vive solo del sostegno di chi la legge e ne apprezza la libertà da ogni potere - ecclesiastico, politico o economico-finanziario - e l'autonomia informativa.
Un contributo, anche solo di un euro, può aiutare a mantenere viva questa originale e pressoché unica finestra di informazione, dialogo, democrazia, partecipazione.
Puoi pagare con paypal o carta di credito, in modo rapido e facilissimo. Basta cliccare qui!