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UMANO, POCO UMANO

Tratto da: Adista Contesti n° 28 del 08/04/2006

Nella tradizionale lettera a mons. Romero, il teologo jon sobrino ripercorre l’insegnamento umanizzante del vescovo martire

QUESTA LETTERA DEL TEOLOGO DELLA LIBERAZIONE JON SOBRINO È STATA PUBBLICATA SUL MENSILE SALVADOREGNO “CARTA A LAS IGLESIAS” (N. 551).

TITOLO ORIGINALE: “CARTA A MONSEÑOR ROMERO, ‘no se olviden que somos hombres’

Caro Monsignore,

pochi giorni prima del tuo martirio, così hai risposto a un giornalista che ti chiedeva come essere solidali con il popolo salvadoregno: “non dimenticate che siamo uomini, e che qui si sta morendo, fuggendo, trovando rifugio sulle montagne”. Ricordo bene queste parole, perché mi sembrano sempre più necessarie.

Il valore ultimo della sofferenza

Sono state di una genialità che non è dato più ascoltare. La si trova solo in quanti non si accontentano di ripetere ovvietà, in chi è lucido, in chi è misericordioso, in chi si lascia toccare nelle viscere dalla sofferenza di questi popoli, nei veri credenti, in quelli che vedono nei corpi fatti a pezzi il corpo di Dio stesso.

Monsignore, hai toccato ciò che vi è di più profondo. Con buon senso, hai detto cose concrete: “chi ha fede nella preghiera, sappia che è una forza di cui ora qui si ha molto bisogno… E nell’aspetto materiale qui c’è tanto in cui impiegare denaro”. Ma la cosa fondamentale è che ci hai rimandato “a quello che è ultimo”, a quello che tocca un punto al di là del quale non si può andare. E questo non è frequente. La cosa normale è restare nel “penultimo”, in ciò che possiamo controllare senza essere controllati.

Non so se il giornalista rimase soddisfatto. Ma senza dire nulla, hai detto tutto; e senza pretendere nulla, hai preteso tutto. “Non dimenticate che siamo esseri umani. Non stiamo alla larga dalla sofferenza degli esseri umani”. A modo tuo, e senza saperlo, andavi oltre l’intuizione di un grande teologo dei nostri giorni, Johann Baptist Metz. Pensando a come è cambiato il cristianesimo e a come bisogna tornare a ciò che è fondamentale, diceva: “Il cristianesimo, da religione sensibile alla sofferenza, è diventato sempre più una religione sensibile al peccato. Il suo sguardo non si è diretto per prima cosa alla sofferenza della creatura, ma alla sua colpa. Questo ha intorpidito la sensibilità per la sofferenza altrui e oscurato la visione biblica della giustizia di Dio che, dopo Gesù, doveva valere per ogni fame e sete”. Le parole possono meravigliare, ma ci ricordano il messaggio fondamentale di Gesù, ed evidenziano con grande forza quello che tu dicevi: “una cosa vi chiedo: non vi dimenticate degli uomini e delle donne sofferenti del nostro popolo”.

Oggi, anni dopo, continuiamo a sentire la tua mancanza, Monsignore, per molte cose. Io, personalmente, per la tua chiaroveggenza e l’audacia nel dire cose ultime come questa. Come leader, politici, professionisti, ideologi, diciamo e analizziamo moltissime cose, ma costa fare il passo e arrivare a ciò che è ultimo: come sta l’umano tra di noi, e chiederci se andiamo bene o andiamo male nell’umano. Sembra una velleità superflua dedicare tempo a pensare e a costruire “l’umano”, mentre dedichiamo tempi e risorse infiniti ad altre cose. Ne cito alcune che possono essere necessarie e buone: come produrre di più ed essere competitivi, come facilitare divertimento e svago, e altre non tanto buone: come avvicinarci alle meraviglie che vengono dal Nord, come se queste già fossero una garanzia per vivere, ciascuno e gli uni con gli altri, “umanamente”. Porre l’umano al centro dell’interesse continuerebbe ad essere una ridicolaggine, tollerabile in ambito privato, ma risibile in ambito pubblico e di potere.

E il peggio è che, scomparendo l’umano, si dimenticano, come dicevi tu, Monsignore, i poveri di questo mondo. E che in nessun modo li poniamo al centro. Non ci domandiamo cosa bisogna fare per loro, e meno ancora ci domandiamo che salvezza essi possono dare a noi. La civiltà della povertà di cui parlava Ellacuría, tante volte citata, e altrettante ignorata e disprezzata, è quello che in definitiva ci salverà. Ma non ci facciamo caso. Cerchiamo la salvezza in beni e risorse, ma non nell’umano, e meno ancora nell’umano dei poveri. E così va. Se ignoriamo l’umano, presto o tardi tutto crollerà e anche le cose buone si rovineranno.

Umanizzare l’umanità

Il giornalista, per esempio, ti chiedeva quale solidarietà avrebbe potuto essere di aiuto, e citava l’aiuto economico e la preghiera, cose buone entrambe, naturalmente. Ma se ci dimentichiamo che sono esseri umani sofferenti quelli che ne hanno bisogno, la solidarietà degenera, l’aiuto langue e la cooperazione internazionale finisce per essere pensata e portata avanti a proprio vantaggio, quando non diventa addirittura uno strumento di dominazione, come avviene frequentemente. Senza porre gli “esseri umani al centro”, la solidarietà non umanizza coloro che “danno”. Suole, piuttosto, disumanizzarli, facendo sì che si sentano buoni, superiori, maestri provenienti dal mondo civilizzato. E senza porre gli “esseri umani al centro”, essi non si rendono conto di quanto possono ricevere dai poveri, dai loro valori, dal loro dolore, dalla loro speranza, persino dalla loro gioia. “Santità primordiale”, l’abbiamo chiamata. Parlare di aiuto che disumanizza può sembrare ingratitudine o cattivo gusto, ma succede sempre che si dimentica che “sono uomini”. Bisogna pianificarlo, sì, ma soprattutto bisogna umanizzarlo.

E la preghiera di cui parla il giornalista e che tanto ci viene ripetuta da molte istanze? Evidentemente è cosa buona, ma può degenerare nel chiacchiericcio, nel fatigare deos dei romani e in un alibi per non lottare contro gli dei che generano le vittime a cui la solidarietà dovrebbe prestare aiuto. Senza tenere in conto queste vittime, quanto dice il Magnificat, “ro-vesciò i potenti dal trono e innalzò gli umili”, lo cantiamo al suono delle chitarre o in splendida polifonia, ma non esce dal cuore e non arriva al cuore di Dio.

Lo sai bene e ce lo hai detto bene, Monsignore. Anche la religiosità può pervertirsi. Ora ci avverte di ciò il tuo fratello Casaldáliga: “Della stessa fede cristiana si sta facendo un ricettario di miracoli e prosperità, un rifugio spiritualista di fronte al male e alla sofferenza e un sostituto della corresponsabilità, personale e comunitaria, nella trasformazione della società”. E questo, Monsignore, non si aggiusta solo con migliori piani pastorali o lezioni di teologia. Vi si pone rimedio tornando ai clamori dell’umano, come quelli che ascoltava Dio in Egitto per la liberazione degli schiavi. E tornando alla bontà e alla fede degli umani, come quelle della siro-fenicia che conquistò Gesù.

E voglio menzionare una terza cosa: la democrazia. È meglio delle dittature e della dottrina della sicurezza nazionale che abbiamo sofferto, evidentemente. Ma necessita anche di guarigione, e urgentemente. Se consiste nell’an-dare alle urne, e dopo le urne non ci sono cambiamenti di vita per i poveri di sempre - e non parliamo di quando ci sono frodi -; se consiste nel proclamare i diritti umani, senza che i poveri abbiano accesso a giustizia e dignità; se consiste nel gloriarsi della libertà di espressione, senza che i poveri possano farne uso, peggio se non è accompagnata dalla volontà di verità, e ancora peggio se quella serve per nascondere la negazione di questa; se si riduce a proclami di uguaglianza davanti alla legge, senza creare le condizioni materiali minime perché ciò sia possibile… Se nel concerto delle nazioni veneriamo e serviamo gli imperi - oggi, la democrazia degli Stati Uniti -, che impongono guerre, controllano il commercio a proprio vantaggio e contro i poveri, gestiscono una globalizzazione che non è tale, poiché li esclude e li allontana sempre più dai Paesi dell’abbondanza… Allora la democrazia può essere flatus vocis o sarcasmo. Per le maggioranze, “uguaglianza, libertà, fraternità” sono carta straccia. La conclusione è che non basta democratizzare la democrazia, ma bisogna umanizzarla. E questo inizia attribuendo non ad essa il valore “più ultimo”, certamente non nella pratica, ma neppure nella teoria, bensì agli esseri umani.

Vedi, Monsignore, che parlo di cose buone, di solidarietà, di religiosità, di democrazia, cose buone che però molte volte non funzionano e generano mali. Non bisogna sorprendersi, poiché sono un prodotto delle nostre mani. Ma penso debba interessarci che funzionino bene, poiché non consideriamo seriamente quello che c’è dietro a tutte queste cose, quello che ne costituisce il fondamento e che le pone nella giusta direzione: “gli esseri umani”, soprattutto “quelli che stanno morendo, fuggendo, trovando rifugio sulle montagne”.

Quello che succede, Monsignore, è che poniamo barriere per non affrontarli. A volte le innalziamo in mala fede, ma altre volte usiamo cose buone e necessarie, però in definitiva per difenderci da loro. Buona è l’economia, buona la democrazia, buone molte forme di religione, ma quante volte servono per dimenticare e occultare milioni di uomini e donne che sono realmente la cosa ultima! Questo oblio dell’u-mano è principio fondamentale di disumanizzazione.

Il Dio garante dell’umano

Monsignore, sai bene come diceva Gesù: “il sabato è per l’uomo, e non l’uomo per il sabato”. Oggi bisogna tradurlo: la democrazia e la religione, la solidarietà e la cooperazione internazionale, i mezzi di comunicazione e le istituzioni del sapere sono per l’uomo, e non il contrario. Sono soprattutto per questi 800 milioni che soffrono crudelmente la fame e per i 2 miliardi e 300 milioni che devono vivere con due dollari al giorno. E non avviene facilmente.

Non bisogna dare per scontato che i nostri “sabati” non sono barriere che ci impediscono di vedere gli esseri umani nella loro realtà concreta. Investiamo somme di denaro che sfidano l’imma-ginazione nel buon vivere e nel successo; investiamo anche nel mentire e nel nascondere, in armi, guerre, distruzione e morte. Ma se mi permetti una parola che suona ridicola, l’impero e “la comunità internazionale” non investono in bontà, compassione, verità – per quanto dedichino alcune risorse, e alcuni lo facciano con buona volontà, a cose buone. Non investiamo in etica, in speranza, nella gioia di essere famiglia umana – e parlo di investire perché è il linguaggio che oggi si intende meglio. E l’umano ci sfugge come acqua tra le dita.

C’è molto di umano in questo mondo, Monsignore? Sì, c’è. Non abbonda tra i responsabili che dovrebbero creare un mondo più umano. Ma, come il seme del Vangelo, vive e cresce in molta gente semplice, che lavora e lotta per vivere, che mantiene la speranza e la gioia della vita. Anche tra persone solidali e volontari, intellettuali e professionisti onorati che pongono la scienza al servizio della vita, e non al contrario. Tutti loro, anche senza saperlo, riproducono molte delle cose che ci chiedeva Paolo e che tu hai esemplificato: onoratezza senza compromessi, verità senza convenienze, fermezza senza prepotenza, amore senza finzioni, e “comportarsi gli uni con gli altri”, combattendo il male con il bene. È l’umano.

Monsignore, tu non hai solo parlato dell’u-mano, ma lo hai vissuto. Per questo, i nostri fratelli anglicani ti hanno posto sulla facciata della cattedrale di Westminster, a Londra. Nel vederti, molti possono trovare sollievo e speranza, possono mostrare gratitudine e possono avere il coraggio per la conversione. Stai bene a Westminster, guardandoci tutti. Con te Cristo è tornato a “porre la sua tenda tra di noi”.

Una breve parola finale. Il tuo invito e la tua esigenza a “non dimenticare gli esseri umani” è come il riverbero di quest’altra, che ti è uscita dal più profondo del tuo essere: “Nessun uomo si conosce se non si è incontrato con Dio… Magari mi si dicesse, cari fratelli, che il frutto di questa predicazione sarà che ciascuno di noi incontrerà Dio e vivrà la gioia della sua maestà e della nostra piccolezza!”.

Due riferimenti ultimi hai avuto, Monsignore: i poveri e Dio. L’uno rimanda all’altro e questo lo hai elevato a teologia. Diceva bene sant’Ireneo: “la gloria di Dio è l’uomo che vive”. Tra i poveri tu lo hai detto in forma ancora più cristiana: “la gloria di Dio è il povero che vive”.

Ti chiediamo, Monsignore, che non dimentichiamo l’umano, gli uomini e le donne, e soprattutto i poveri che sono il cammino verso Dio. E che non dimentichiamo Dio, difesa del povero e garanzia dell’umano.

Così contribuiremo, per quanto poco, a umanizzare l’umanità. E termino con alcune parole di Casaldáliga di questi giorni:

“Il compito più essenziale dell’Umanità è quello di umanizzarsi. Umanizzare l’Umanità è la missione di tutti, di tutte, di ciascuno e ciascuna di noi. La scienza, la tecnica, il progresso sono degni del nostro pensiero e delle nostre mani solamente se ci rendono più umani. Di fronte a certi baldanzosi progressi, le statistiche annuali di questo profeta laico che è il Pnud (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, ndt) dovrebbero provocarci una indignata vergogna… Non si umanizza l’umanità con macchine e formule (utili a tempo e a modo debiti), ma con l’avvicinamento umano di ciascuno e ciascuna, di ogni persona e di ogni popolo. Umanizzare l’Umanità praticando la prossimità”.

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