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SANTIFICARE ROMERO O SANTIFICARE LA LOTTA DEL SUO POPOLO? INCONTRO ALL’ISOLOTTO SUL LIBRO DI CLAUDIA FANTI

Tratto da: Adista Notizie n° 35 del 03/05/2008

34404. FIRENZE-ADISTA. “Sottraggono Romero al suo popolo, tolgono al popolo il suo santo”. Sta tutto in questa frase il senso del controverso processo di canonizzazione di mons. Oscar Arnulfo Romero. Del significato della possibile elevazione agli altari del vescovo di San Salvador si è parlato a Firenze, il 20 aprile scorso, alla Comunità dell’Isolotto, in un partecipato incontro con Claudia Fanti, della redazione di Adista. L’occasione, la presentazione del suo libro “Il Salvador, il Vangelo secondo gli insorti” (Sankara edizioni, 2007, pp. 144; euro 9: il libro può essere acquistato anche presso la nostra agenzia), un volume che ricostruisce le vicende del movimento rivoluzionario salvadoregno - e il ruolo che all’interno di esso ebbero il clero e le organizzazioni popolari cristiane - dagli anni ‘70 al 1992, anno della firma degli Accordi di Pace tra le forze governative e la guerriglia. Dentro questa parabola, l’intensa testimonianza umana e pastorale di mons. Romero. Lui a San Salvador era arrivato come vescovo conservatore, esponente di quella gerarchia che aveva sempre guardato con diffidenza ai movimenti popolari. In pochi anni il popolo salvadoregno lo convertì.

Proprio da questa profonda identificazione tra Romero ed il suo popolo ha preso avvio il dibattito. La Comunità dell’Isolotto si è chiesta se fosse più giusto santificare mons. Romero, o piuttosto valorizzare l’esperienza delle donne (come quella di Marianella Garcia Villas) e degli uomini che con lui si sono impegnati e s’impegnano per la liberazione del popolo salvadoregno. Il libro di Claudia Fanti, in questo senso, ha costituito un prezioso stimolo per la riflessione, perché la storia del processo rivoluzionario nel Salvador viene raccontata “dal basso”, attraverso le voci e le testimonianze dei suoi protagonisti, spesso sconosciuti, che si affiancano ai volti di figure più note come quella di Romero - appunto - ma anche di Rutilio Grande (gesuita assassinato nel 1977) e Rutilio Sanchez, parroco a S. Martin, piccolo paese a 2 chilometri da San Salvador e - dopo il 1992 - animatore di Sercoba, associazione che opera con le comunità di base salvadoregne.

Per Enzo Mazzi, intervenuto all’inizio dell’incontro, anche la “santificazione” popolare di Romero, avvenuta assai prima che iniziasse il processo di canonizzazione da parte dell’istituzione ecclesiastica, presenta aspetti insidiosi, per il pericolo di una reductio ad unum del valore di una lotta frutto dell’impegno di una intera comunità: esaltandone le virtù individuali insomma, secondo Mazzi, si trascurerebbe, fino a rimuoverla, la peculiare caratteristica di Romero, quella - appunto - di essersi fatto popolo.

Questa identificazione con le ragioni dei campesinos, Romero l’aveva conquistata attraverso un serrato, a volte aspro, progressivamente sempre più intenso, rapporto con le organizzazioni popolari. Claudia Fanti ha raccontato che in uno degli incontri con i dirigenti guerriglieri, a proposito dell’imminenza di una insurrezione popolare, Romero disse: “Quando verrà questa insurrezione, io non voglio stare né lontano né ai margini del mio popolo... Quando arriverà quest’ora io vorrei stare al lato del mio popolo. Chiaro, io non impugnerei mai un fucile, perché non servo a questo; però sì, posso curare i feriti, assistere moribondi... Posso raccogliere cadaveri. In tutto ciò posso essere di aiuto, vero?”. Qualcuno, poi, tra i preti del Salvador prese anche il fucile. Come Rutilio Sánchez, che nella sua comunità si occupava di educazione popolare e salute. Quando era andato tra i guerriglieri, aveva deciso di non usare armi. Gli avevano perciò assegnato cinque persone armate, perché lo proteggessero. “Cominciai a chiedermi – racconta nel libro – se era meglio che cinque morissero per salvare il prete o il prete morisse per difendere quei cinque. La scelta fu facile”.

Ma i leader del movimento rivoluzionario salvadoregno - e il libro di Claudia Fanti lo mette chiaramente in luce - erano soprattutto leader provenienti dal popolo. Come Apolinario Serrano, detto Polín, assassinato nel 1979. Una “figura quasi leggendaria” del processo rivoluzionario; aveva un “carisma eccezionale, un’intelligenza brillante, un’abnegazione assoluta, un’umanità fuori dal comune”. Aveva imparato a leggere con l’aiuto dei gesuiti, ma a scrivere no. Glielo impedivano mani troppo indurite a causa di una vita passata a fare il tagliatore di canna da zucchero. “La sua ispirazione fu e rimase sempre profondamente cristiana”. Ma ad essa si unì l’adesione al marxismo-leninismo. Un’adesione, più entusiastica che intellettuale, “mistica” per usare un termine caro (e senza connotazione religiosa) ai movimenti latinoamericani. Un divertente (ma significativo) aneddoto contenuto nel libro, racconta di quando Polín, leggendo Marx, provò un entusiasmo profondo. E, rivolto ai suoi compagni, disse: “Bisogna che questo vecchietto venga a parlare qui”.

Del resto, l’idea che le masse salvadoregne fossero vittime dell’ideologia fu una formidabile arma di propaganda utilizzata dai latifondisti e dal potere militare per screditare un’intera lotta di popolo. Il maggiore Roberto D’Aubuisson, il mandante dell’omicidio di mons. Romero e sanguinario leader della repressione, diceva sprezzante: “Questi comunisti vestiti da preti hanno organizzato una cosa che si chiama Chiesa popolare, che non è la nostra Chiesa del Vaticano, la Chiesa che è guidata dal papa, la Chiesa in cui noi crediamo”. Era una Chiesa diversa, infatti. Sicuramente più evangelica. Del resto, cosa significasse la scelta di classe, l’opzione per gli oppressi fatta da migliaia di credenti, è ben sintetizzato dalle parole pronunciate da Romero in un’intervista al Diario de Caracas del 19 marzo 1980 (cioè 5 giorni prima di morire). La stampa governativa del Salvador lo aveva ribattezzo “Marxnulfo”. Ma le parole di Romero restano limpide: “Destra significa ingiustizia sociale”. “Sinistra? Io non le chiamo forze di sinistra, ma forze del popolo. È l’organizzazione del popolo e sono le rivendicazioni del popolo”. Proprio per l’unicità e l’originalità dei processi popolari, diceva Romero, “non possiamo dire che c’è un cliché per passare dal capitalismo al socialismo. Se lo si vuole chiamare socialismo sarà questione di nome. Quello che cerchiamo è la giustizia sociale, una società più fraterna, una condivisione di beni. Questo è ciò che si persegue”.

Il dibattito all’Isolotto ha fatto così emergere – accanto ai pericoli di una santificazione che è funzionale alla riduzione di figure rivoluzionarie a santini tranquillizzanti, depontenziati di tutta la loro carica eversiva – anche una funzione positiva del “santo”, quando egli sia riconosciuto tale in virtù di un processo di investitura dal basso. Una funzione analoga a quella che avevano i miti nella tradizione religiosa antica. Del resto, la parola “mito”, in greco, significa “racconto”, narrazione che tenta di dare significato alla realtà, di indagarne le cause ultime. I miti popolari, insieme al pericolo di narcotizzare e addomesticare i processi di trasformazione della società possono quindi anche rivestire una funzione progressiva: quella di contribuire a formare l’identità di un popolo, di risignificarne le ragioni ideali, di indicare a chi lotta per la propria emancipazione che l’assalto al cielo è possibile. (valerio gigante)

 

 

 

 

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