CON L'OLIGARCHIA, CONTRO IL POPOLO. LA COERENZA DELLE GERARCHIE ECCLESIASTICHE LATINOAMERICANE
Tratto da: Adista Documenti n° 83 del 25/07/2009
DOC-2169. TEGUCIGALPA-ADISTA. Ci è rimasto male, il card. Oscar Rodríguez Maradiaga, a sentirsi chiamare golpista (v. Adista n. 79/09). È un’accusa ingiusta, spiega lui alla stampa internazionale, visto che il golpe in Honduras non c’è stato. E precisa: "Abbiamo spiegato quanto è successo e non abbiamo legittimato nessuno" (Clarín, 12/7), come se il fatto di ripetere continuamente che "non è un colpo di Stato" e che "i passi compiuti sono quelli previsti dalla Costituzione" (El Mundo, 12/7) non significhi legittimare il governo de facto di Roberto Micheletti.
Per il cardinale, a violare la Costituzione è stato invece Manuel Zelaya, il quale aveva sì cominciato a fare "cose molto buone", come combattere, "con grande fermezza", le multinazionali petrolifere, ma poi aveva preso a "costruire sull’odio" e a farsi sostenere dal "denaro di Chávez", puntando sull’Alba (il modello di integrazione bolivariano centrato sulla cooperazione e la solidarietà) e mirando ad una riforma della Costituzione: "Siamo vissuti 20 anni sotto regimi dittatoriali e quello che si andava ora preparando era un’altra dittatura" (El Mundo, 12/7). Accusa, questa, che non impedisce all’arcivescovo di ricordare come la missione della Chiesa non sia "quella di optare per una posizione concreta ma di cercare la riconciliazione e la pace". Ed è in quest’ottica che, a giudizio del cardinale, sarebbe "più prudente" e "più patriottico" che Zelaya rinunciasse a tornare immediatamente: "La polarizzazione è grande - ha spiegato al Clarín - e vi sono armi nelle mani di civili" (ma sono altre le armi che uccidono, come indica l’assassinio del dirigente operaio Roger Ivan Bados). "Neppure ai tempi delle guerre centroamericane – spiega a El Mundo – in Honduras c’era l’odio che c’è ora, un odio di classe". Meglio allora che Zelaya si faccia da parte, e pazienza per "le classi più povere" a cui, per ammissione dello stesso arcivescovo, egli "ha dato speranza".
Per quanto vi sia chi, a cominciare proprio dal Clarín, sottolinei come Maradiaga si sia giocato le sue chance di diventare papa, da Roma non giungono segnali di disagio nei confronti del cardinale. Se, come evidenzia Avvenire (14/7), L’Osservatore Romano ha dato ampio risalto al comunicato filogolpista della Conferenza episcopale, stilato dopo una riunione plenaria a cui ha partecipato anche il nunzio apostolico, è lo stesso Benedetto XVI, all’Angelus del 12 luglio, a scegliere di non contraddire l’episcopato. "Vorrei oggi invitarvi a pregare per quel caro Paese – ha detto il papa – affinché (...) tutti i suoi abitanti percorrano pazientemente la via del dialogo, della comprensione reciproca e della riconciliazione". "Ciò è possibile – ha concluso – se, superando le tendenze particolaristiche, ognuno si sforza di cercare la verità e di perseguire con tenacia il bene comune: è questa la condizione per assicurare una convivenza pacifica e un’autentica vita democratica". Una posizione di perfetta equidistanza, dunque, senza alcuna distinzione tra governo legittimo e governo de facto.
Ma che sia o meno sostenuto dal Vaticano, è un fatto che il card. Maradiaga, appoggiando i golpisti, ha provocato una spaccatura nella Chiesa. Se infatti i vescovi sono con lui - con l’eccezione di mons. Luis Alfonso Santos, vescovo di Santa Rosa de Copán, che ha condannato chiaramente il golpe - lo stesso non si può dire dei religiosi e delle religiose, dei preti, dei fedeli.
Netta è infatti la condanna del colpo di Stato da parte dalla Conferenza dei religiosi e delle religiose, che, in un comunicato emesso il 9 luglio, respinge "la rottura dell’ordine costituzionale e la limitazione delle garanzie costituzionali del popolo", come pure la repressione e il controllo dell’informazione. E la stessa condanna viene dalla Commissione Provinciale di Apostolato Sociale della Provincia Centroamericana della Compagnia di Gesù, secondo cui "la dirigenza del Partido Liberal ha chiamato in soccorso del suo progetto socialmente elitario le forze armate, per realizzare e mantenere un autogolpe che impone al Paese, attraverso procedimenti anticostituzionali, un regime autoritario e repressivo che non garantisce la celebrazione e la limpidezza delle elezioni del prossimo novembre"; dai domenicani della Provincia centroamericana, che chiedono "a tutti i religiosi e i membri della Famiglia domenicana di rifiutare in maniera categorica il golpe inflitto all’istituzionalità democratica honduregna e di sollecitare l’appoggio nazionale e internazionale per la restaurazione della stessa nel più breve arco di tempo"; ancora dai domenicani, ma insieme a suore claretiane e sorelle della Misericordia, che, oltre a condannare il colpo di Stato, chiedono - e sono i soli a farlo esplicitamente - che Zelaya, "di cui con il colpo di Stato sono stati violati tutti i diritti, venga reintegrato nella sua carica costituzionale come presidente della Repubblica dell’Honduras".
Non tutti concordano sull’operato di Zelaya: "La società civile – scrive ad esempio la Commissione di Apostolato Sociale dei gesuiti – ha diritto a scendere in strada e a far sentire la propria voce non perché il governo del presidente Manuel Zelaya Rosales sia stato un buon governo, ma perché il rimedio del colpo di Stato ci porta una malattia politica e sociale ben peggiore di quella che avevamo con l’improvvisata e caotica amministrazione di Zelaya e del suo gruppo". Mentre, al contrario, la famiglia domenicana in Centroamerica evidenzia, come risultati dell’amministrazione Zelaya, i tagli ai profitti delle transnazionali petrolifere, "l’importazione di farmaci generici da Cuba a prezzi molti più vantaggiosi di quelli offerti dalle imprese farmaceutiche nazionali e internazionali", "la decisione di elevare il salario minimo, uno dei più bassi dell’Istmo, da 182 a 291 dollari", le misure a favore dell’ambiente e contro le compagnie minerarie: provvedimenti, tutti, che "hanno generato profondo malessere in diversi gruppi dell’impresa privata".
Ma al di là del giudizio più o meno positivo sul governo del presidente Zelaya, e anche al di là dell’ambiguo richiamo comune al dialogo "tra tutti i settori", resta il fatto che, di fronte al colpo di Stato, la posizione dei religiosi si pone in netto contrasto con quella dei vescovi, tanto da indurre i domenicani a considerare "di grande importanza" il compito, certamente tutt’altro che semplice, di "riannodare il dialogo intraecclesiale per precisare i punti comuni che portino a un’azione di impegno congiunto per la pace, la giustizia e la solidarietà con i più poveri".
Se i vescovi dell’Honduras, esattamente come i loro colleghi del Venezuela, della Bolivia e dell’Ecuador, si sono schierati con i golpisti e contro il popolo, da alcuni vescovi latinoamericani giunge, al contrario, un messaggio di condanna inequivocabile del governo de facto. "Con spirito fraterno e nella passione per la Nostra America, libera e unita – scrive per esempio dom Pedro Casaldáliga -, vogliamo esprimere la nostra totale solidarietà al popolo dell’Honduras in questa ora di tensione e di violenza. Che si rispetti la democrazia, che è rispettare la volontà del popolo". Solidarietà "a tutti coloro che vogliono un Honduras democratico" esprime anche dom Demétrio Valentini, vescovo di Jales e presidente della Caritas brasiliana, invitando la popolazione a restare "salda e unita", e ad evitare derive violente. E di ritorno del "‘gorillismo’, che distrugge libertà e perseguita indifesi" ma che "non metterà mai a tacere i clamori di libertà e di dignità della popolazione", parla mons. Mario Moronta, vescovo di San Cristóbal, in Venezuela (tra i pochi non schierati contro Hugo Chávez). "Abbiamo visto con stupore ed impotenza - denuncia il vescovo - come ancora vi sia chi giustifica quello che sta succedendo. Sottolineano che non si tratta di un golpe ma di una successione costituzionale... Si ripete così tanto la menzogna che alla fine si arriva a considerarla una verità accettata da tutti". "Come uomo che cerca di crescere nella fede, come uomo che cerca di camminare insieme al suo popolo, come pastore e interprete dei clamori della sua gente, mi sento colpito da quello che sta avvenendo in Honduras. Abbiamo già avuto la triste esperienza dell’11-12 aprile del 2002 (il tentato golpe in Venezuela, ndr). Si ripete lo stesso schema...".
E mentre l’attuale fase di stallo (a cui sicuramente contribuisce l’iniziativa, promossa da Hillary Clinton, di avviare un dialogo con la mediazione del presidente del Costa Rica Oscar Arias) gioca tutta a favore del governo de facto, diventa sempre più chiaro che il golpe in Honduras, come ha evidenziato da subito il Premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel, rappresenta una minaccia per tutta l’America Latina. "Se il presidente Manuel Zelaya – scrive il 10 luglio Fidel Castro – non viene reintegrato nel suo incarico, un’ondata di colpi di Stato rischia di rovesciare molti governi dell’America Latina", o, quanto meno, i militari di estrema destra, "educati nella dottrina della sicurezza della Scuola delle Americhe", rialzeranno la testa indebolendo l’autorità di molti governi latinoamericani.
Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, il comunicato congiunto di domenicani, suore claretiane e sorelle della Misericordia e i commenti di Juan Almendares, difensore dei diritti umani, già rettore dell’Università Autonoma dell’Honduras (Alai, 25/6/09); del teologo Alejandro Dausá, del Centro Martin Luther King a L’Avana (Tribuna popular, 9/7/09); del teologo argentino Rubén Dri (Página 12, 6/7/09). (claudia fanti)
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