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IL NEFASTO POTERE DELLA CHIESA A LATO DEI GOLPISTI

Tratto da: Adista Documenti n° 83 del 25/07/2009

Il documento "Edificare a partire dalla crisi", diffuso dalla Conferenza episcopale dell’Honduras, ha suscitato forti reazioni. La lettera sta a dimostrare fin dove può giungere la manipolazione dei concetti e lo stravolgimento della realtà.

Lo stesso titolo è un trucco con cui si tenta di mascherare il colpo di Stato, la soppressione della libertà e dei diritti fondamentali e l’attacco alla volontà popolare. E da lì sviluppa un grottesco esercizio pseudo-giuridico al fine di giustificare l’ingiustificabile.

Come se non bastasse, il cardinale honduregno, Oscar Rodríguez Maradiaga, ha terminato la lettura di questo aberrante documento indicando che il ritorno del presidente legittimo avrebbe potuto scatenare un bagno di sangue. Con ciò evidenziando la logica soggiacente: la vittima è il criminale, va colpevolizzata e criminalizzata per mali passati, presenti o futuri. L’avvertimento è rivolto a Manuel Zelaya, ma il suo obiettivo è indebolire la resistenza popolare, che in quest’ottica passa ad essere automaticamente responsabile di tutte le possibili disgrazie e morti.

Dinanzi a simili piroette, risulta difficile non evocare la figura di quel falegname galileo che affermava il primato dell’essere umano e la sua dignità al di sopra di qualunque legge, anche di quelle scritte nella pietra (chiaro che simile audacia gli costò cara di fronte ad acutissimi intellettuali, sempre disposti a manipolare o ad inventare giurisprudenza per sostenere un ordine socio-economico e religioso che dicevano fosse la volontà di Dio stesso...).

I vescovi honduregni si sommano così, con inusuale franchezza, a non poche conferenze episcopali latinoamericane che sono il prodotto del processo di restaurazione enfaticamente promosso da Giovanni Paolo II, grande nemico dei profeti, dichiarato sostenitore di burocrati ecclesiali e difensore di gruppi ultraconservatori, che sono quelli a cui appartiene oggi la voce dominante nella Chiesa cattolica, in accompagnamento a banchieri, finanzieri, latifondisti, grandi imprenditori, militari golpisti, all’apparenza fervidi cristiani.

Il 4 luglio, durante la prima grande marcia verso l’aero-porto di Tegucigalpa, una giornalista televisiva ha intervistato uno dei manifestanti. Piuttosto anziano, vestito da contadino, ha detto di essere un prete e di non curarsi di cosa avrebbero potuto dire i vescovi. Ha indicato la moltitudine e ha detto: "Questa è la Chiesa! Questa è un’insur-rezione popolare che dobbiamo appoggiare!".

Dimostrando buona memoria, ne ha approfittato per ricordare la compagnia di sinistri personaggi come Billy Joya o Ralph Nodarse, che oggi risorgono come consiglieri o funzionari del gruppo golpista.

Joya, con il soprannome di "Licenciado Arrázola", si distinse al comando di squadroni della morte sostenuti e addestrati da ufficiali del Battaglione 601 dell’Argentina negli anni ‘80. Perseguitato dalla giustizia del suo Paese, tentò di ottenere asilo in Spagna, dove l’unico impiego che trovò fu quello di catechista nel collegio San José di Siviglia.

Da parte sua, Nodarse ha offerto un efficace appoggio al terrorista fuggitivo Luis Posada Carriles, e ha fatto parte di quella lobby che premeva sul presidente Zelaya perché gli concedesse rifugio, cosa di cui il presidente si rifiutò.

Buona parte del popolo honduregno è impegnata in a-zioni di resistenza di un coraggio raramente visto, con straordinaria integrità e disciplina, con volontà di difendere il proprio diritto di costruire un altro Paese possibile.

Intanto, alieni alla prassi del falegname galileo che non dubitava di giocarsi la sorte e di camminare con la gente delle classi basse, i vescovi indicano nel paragrafo finale del loro funesto documento che è ora di "pregare e digiunare".

 

PAX ROMANA

Rubén Dri

 

 

La Chiesa cattolica honduregna, per mezzo del suo organismo superiore, la Conferenza episcopale, ha dato pieno appoggio al golpe militare che ha destituito l’autorità costituzionale e militarizzato il Paese. Nel comunicato in cui dà la sua approvazione al colpo di Stato, essa cita l’or-dine di cattura della Corte Suprema in cui si accusa il governo costituzionale di "tradimento della patria, abuso di autorità e usurpazione delle funzioni a danno dell’ammi-nistrazione pubblica e dello Stato honduregno". Ciò vuol dire che, in Honduras, tutto è stato fatto nel rispetto delle norme costituzionali.

Dopo questa chiara approvazione del golpe, la massima gerarchia ecclesiastica ripropone, in tono mieloso e ipocrita, gli inviti "al dialogo, al consenso e alla riconciliazione", che renderebbero possibile la pace in accordo alla raccomandazione di Gesù, contenuta nel Vangelo di Giovanni, citata al termine del documento ecclesiastico: "Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore".

Ebbene, qual è la pace che il mondo dà? Cosa si intende qui per "mondo"? "Il mio regno non proviene da questo mondo", è l’espressione tradotta normalmente con "il mio regno non è di questo mondo". "Questo mondo" è quello che si trova nelle mani di Satana, ossia dell’impero romano. Da questo, dai suoi valori, dai suoi principi, non proviene il regno di Gesù. Esso proviene da altri principi, con un’altra concezione di potere, il potere che è servizio, simboleggiato dalla lavanda dei piedi che Gesù ha realizzato con i suoi discepoli.

È questo nuovo mondo, quello di Gesù, che dà la vera pace, non come il mondo la dà. Chiaro e contundente è lo scontro tra queste due concezioni di pace: quella che dà il mondo, cioè l’impero, la pace del cimitero, quella proposta dalla gerarchia ecclesiastica honduregna; e quella che propone Gesù, la pace che è costruita tra fratelli, sfidando l’impero. Di fronte alla pax romana, basata sull’annien-tamento di quanti non si sottomettono, la pace che è costruita tra popoli fratelli.

Il fraintendimento della concezione di pace proposta da Gesù, interpretata come la pace che propone il potere di dominazione, ha la stessa lunga storia dei poteri dominatori. Già nel IV secolo Eusebio di Cesarea sintetizzava la visione teologica della Chiesa in tre principi - un solo Dio, una sola Chiesa, un solo Impero - che hanno costituito la base all’affermazione di Paolo Orosio, secondo cui "la pace di Cristo è la pace dell’impero", la celebre "pax romana".

La gerarchia ecclesiastica è coerente. È sempre contro i movimenti popolari e i governi che li rappresentano, quando questi propongono determinate riforme a cui le grandi imprese si oppongono. Così avviene in Venezuela, in Bolivia e in Ecuador, per citare i casi più significativi. Così avviene anche nel nostro Paese.

 

 

 

 

 

 

DOC-2170. CITTÀ DEL MESSICO-ADISTA. Il Partito Rivoluzionario Istituzionale (Pri), lo stesso che, nei sui 71 anni di ininterrotto potere, si era meritato il nome di partito della "dittatura perfetta" - fino a quando, nel 2000, i "moderni conservatori" del Partito di Azione Nazionale (Pan) non l’avevano scalzato portando alla presidenza prima Vicente Fox e poi, dal 2006, Felipe Calderón - non solo si riprende la maggioranza alla Camera dei deputati, vincendo le elezioni legislative del 5 luglio scorso (con il 36,6% dei voti contro il 27,9% del partito di governo), ma conquista anche 5 dei 6 Stati in cui si svolgevano le elezioni per il rinnovo della carica di governatore (perdendo solo a Sonora, a causa della tragedia avvenuta in un asilo nido il 5 giugno, quando hanno perso la vita in un incendio 48 bambini).

Crolla il Partito della Rivoluzione Democratica (Prd), di centro-sinistra - a cui solo i brogli, nel 2006, avevano impedito di portare alla presidenza Andrés Manuel López Obrador - sceso ad appena il 12,2% dei suffragi (con una caduta delle preferenze nella capitale, tradizionale bastione perredista, dal 51,4% del 2006 al 24,9% di oggi): un altro segnale, forse, dopo la sconfitta del kirchnerismo alle elezioni legislative in Argentina il 28 giugno scorso, di un possibile arretramento del centro-sinistra in America Latina. E di crisi del "progressismo" parla l’intellettuale uruguayano Raúl Zibechi, intendendo con esso "la corrente politica governativa che ha dato continuità al modello neoliberista facendo un discorso simile a quello delle sinistre", e dunque ben distinta dal processo bolivariano dell’Alba, che persegue invece "cambiamenti in una direzione opposta al neoliberismo".

Di certo, se le elezioni presidenziali che nei prossimi mesi si terranno in due dei Paesi retti da governi progressisti, l’Uruguay (in ottobre) e il Cile (in dicembre), dovessero confermare questo dato, l’America Latina si vedrebbe investita da un preoccupante ritorno della destra, con inevitabili conseguenze destabilizzanti sui Paesi dell’Alba (in uno dei quali, l’Honduras, l’oligarchia ha già realizzato un colpo di Stato). Un ritorno di cui, a giudizio di Zibechi, sarebbero responsabili proprio le politiche "progressiste" dei vari governi Lula, Kirchner, Bachelet e Vázquez, che, con le loro opzioni neoliberiste - che si tratti dell’attività mineraria a cielo aperto nella regione andina, delle monocolture di soia nelle pianure argentine e uruguayane o di quella di canna da zucchero per agrocombustibili in Brasile - hanno allargato "la base sociale conservatrice su cui si appoggia una destra sempre più impaziente di moltiplicare i profitti".

Quanto al Messico - rimasto escluso, per via della mancata vittoria di Andrés Manuel López Obrador, dal processo di rinnovamento che ha attraversato negli ultimi anni l’America Latina (processo a cui pure ha dato almeno in parte il via, con l’insurrezione zapatista dell’1 gennaio del 1994) - il risultato delle ultime elezioni legislative non aggiunge molto a un quadro già di per sé molto drammatico. È il quadro che dipinge, senza far sconti a nessuno, mons. Raúl Vera López, vescovo di Saltillo, nello Stato di Coahuila (dove il Pri ha incassato circa il 60% dei voti), una delle figure più profetiche (e sempre meno numerose) dell’episcopato latinoamericano. Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, il messaggio pastorale – ricco di spunti utili non solo per la situazione messicana – che mons. Vera López ha diffuso in occasione delle elezioni legislative. (claudia fanti)

 

UNA TERRA, UN PAESE, UNA PATRIA E UNA NAZIONE PER TUTTI

Raúl Vera López

 

 

Come vescovo della diocesi di Saltillo, nelle mie visite pastorali, negli incontri promossi dai laici, in quelli delle molte istanze pastorali che animano la vita della nostra Chiesa, nelle riunioni con il clero e con i religiosi e le religiose che generosamente prestano il loro servizio e anche nelle tante riunioni con gli organismi di difesa dei diritti umani e con le organizzazioni della società civile, mi è stato chiesto insistentemente di dire una parola di compassione, di solidarietà e di speranza per il nostro popolo credente e per tutte le persone di buona volontà dello Stato di Coahuila e del Messico.

Con tutti voi nel mio cuore, pieno di preoccupazione per tutto quello che state soffrendo, pongo nelle mie parole quello che voi mi avete affidato.

1. Nei documenti conclusivi della II e della III Conferenza Generale dei Vescovi latinoamericani (Medellín 1968 e Puebla 1979), i vescovi hanno espresso il modo in cui sperimentavano nel loro cuore la situazione del nostro popolo, dicendo: "Un sordo clamore sorge da milioni di persone che chiedono ai propri pastori una liberazione che non giunge loro da nessuna parte" (Medellín, Pobreza de la Iglesia, 2); "È il grido di un popolo che soffre e chiede giustizia, libertà, rispetto dei diritti umani fondamentali delle persone e dei popoli. Il clamore è chiaro, crescente, impetuoso e, in certe occasioni, minaccioso" (Puebla 87-89). Oggi, a quarant’anni da Medellín e a trenta da Puebla, ci indigna e ci addolora una realtà come quella del nostro Paese che attualizza questo vecchio clamore e questa riflessione dei vescovi di tanto tempo fa.

2. Siamo giunti ad una situazione critica e minacciosa perché il popolo si trova in uno stato di assoluta mancanza di protezione, senza nessuno a cui rivolgersi per esigere il rispetto della sua dignità. I nostri governanti non ascoltano e non si commuovono di fronte alla permanente e sistematica violenza che subisce la maggioranza.

La lista è interminabile: i padri, le mamme e i familiari delle persone percosse, violentate, sequestrate e/o fatte sparire da mafie, poliziotti e militari; i lavoratori e le lavoratrici ingiustamente licenziati o disoccupati; le famiglie di Pasta de Conchos (la miniera esplosa nel febbraio del 2006, dove 65 lavoratori hanno perso la vita per l’assenza delle necessarie misure di sicurezza, ndt; v. Adista n. 62/07); le migliaia di minatori in tutto il Paese che, come avviene per la maggioranza dei lavoratori, vengono soltanto usati dal proprio sindacato; le vittime di Orica (fabbrica di esplosivi in cui hanno perso la vita per un incidente avvenuto nel settembre del 2007 28 persone, ndt); le donne violentate da militari a Castaños, in Chiapas, a Oaxaca e in altri luoghi del Paese; le donne contro cui si esercita violenza psicologica, fisica e/o sessuale; le tante donne assassinate per il fatto di essere donne; i migranti sequestrati, derubati, violentati e torturati da bande di diverse denominazioni, con la complicità di autorità locali e federali; gli imprenditori aggrediti da politiche economiche che fanno naufragare il mercato interno; i milioni di giovani che si sentono dire di essere il futuro di un Paese che sembra non avere futuro; le famiglie dei morti nelle piattaforme petrolifere; le famiglie di tutti i bambini morti nell’asilo nido Abc di Hermosillo, a Sonora; i contadini indigeni e non indigeni espulsi e abbandonati di fronte all’offensiva di imprese transnazionali; i difensori dei diritti umani aggrediti, violentati, incarcerati e assassinati o costretti ad uscire dal Paese per sfuggire ad altra violenza; i tanti cittadini e cittadine che vengono repressi e puniti quando osano rivendicare un proprio diritto; e un lunghissimo e tristissimo eccetera.

3. Il tutto come risultato di uno Stato che, in maniera irrazionale e immorale, serve da baluardo a una minoranza che si impone violentemente sulla maggioranza dei cittadini e delle cittadine. E che, nei suoi tre livelli di governo, municipale, statale e federale, ha lasciato una scia di morte e di paura, in quanto, nella sua strategia di lotta contro il crimine organizzato e il narcotraffico, si trovano sempre funzionari, politici e militari coinvolti con la parte che si presume debba combattersi, in una guerra che è già persa, dal momento che non si tenta di bloccare il flusso di denaro né di impedire l’accesso alle armi.

4. Tutta questa drammatica situazione rischia di demoralizzare il popolo messicano che ha creduto, lottato e costruito con il sudore e con il sangue, distruggendo l’ideale di un Paese retto democraticamente, unica possibilità reale perché la voce del popolo risuoni nei cuori, nelle coscienze e nelle ragioni di quanti dicono di rappresentarci e si creino nuovi cammini e strumenti di partecipazione popolare, si giudichino i funzionari corrotti o incapaci di esercitare il proprio incarico, si esiga il rispetto dei diritti umani di tutti e tutte, al di sopra dei partiti, dei funzionari, delle congiunture e degli interessi; ecc.

Sappiamo che solo un Paese democratico può permettere a tutti e a tutte noi di esercitare il nostro diritto alla cittadinanza, e che in questo momento storico possiamo decidere di esercitarlo in maniera piena e responsabile o permettere che, con la nostra assenza, ci venga tolto persino questo.

5. Vale la pena soffermarci su uno dei passaggi più luminosi della vita del profeta Geremia, che nel VI secolo a.C. fu testimone dell’invasione, da parte dell’impero neobabilonese, della sua patria, la Giudea, e di un lungo periodo di sottomissione e di ribellione del suo popolo, che finirà tragicamente con la caduta di Gerusalemme e una seconda grande deportazione dei giudei in Babilonia.

In questo contesto, di fronte ad un finale che si annuncia tragico, il profeta Geremia narra che, mentre era in prigione, aveva comprato un campo nella terra che sarebbe stata devastata (cfr Ger, cap. 32). La cosa sorprendente di questo acquisto è che si realizza alla vigilia di una catastrofe ormai inevitabile, che a nessuno della famiglia di Geremia sarebbe restato questo campo e che egli stesso sarebbe dovuto andare in Egitto per salvarsi la vita. In senso stretto, era un acquisto inutile, perché era inevitabile che questo campo sarebbe andato perduto. E, tuttavia, egli lo compra.

6. Geremia chiede che il contratto di acquisto sigillato e la sua copia aperta vengano conservati in un vaso di terra – che avrebbe permesso la loro conservazione per lungo tempo – come un simbolo del compimento della promessa di Dio. Malgrado la tragedia imminente, la terra appartiene ai suoi antenati e, pertanto, al popolo. Con questo contratto di acquisto, Geremia riscatta un pezzo di futuro. L’acquisto di questo campo è un simbolo della speranza in Dio, che gli permette di vedere oltre la tragedia immediata e inevitabile. Per Geremia è fondamentale tenere la proprietà sulla terra, sulla sua terra, perché solo così il popolo potrà ricostruire la sua nazione.

7. Questo piccolo campo di Geremia è per tutti e tutte noi un appello alla speranza. E, con la stessa passione del profeta, tutti i cittadini e le cittadine sono chiamati a prendere possesso questo 5 luglio di questo nostro campo, che chiamiamo Patria, Paese e Nazione, perché esso appartiene ai messicani. Come il profeta Geremia, rivolgiamo il nostro sguardo all’amore di Dio e facciamo in modo che questa speranza appassionata guidi la nostra ragione così da poter sognare un nuovo inizio.

8. Il profeta Geremia sapeva che non si poteva confidare nel re e nei suoi consiglieri, perché i loro accordi stavano conducendo il popolo di Giuda e la sua amata Gerusalemme al disastro, come effettivamente avvenne. Sapeva anche che non era possibile una nuova riforma, perché il sistema era in decadenza.

È proprio quello che sta accadendo oggi: in termini moderni ed attuali, diremmo che non possiamo riporre la nostra speranza sul fatto che vecchi funzionari con una riverniciatura di novità risolvano il disastro di cui proprio loro sono responsabili, candidandosi un’altra volta solo per sostituire i guardiani della muraglia dell’impunità e del cinismo. Neppure possiamo riporre la nostra speranza sul fatto che basti votare un partito o annullare il proprio voto per ripulire un sistema democratico che si è corrotto. Il tempo è esaurito, è impossibile e irresponsabile sperare nella ricomposizione di uno Stato che è fallito, con funzionari falliti, con candidati sorti dallo stesso sistema.

9. Tuttavia, dobbiamo andare a votare coscienti che si tratta di un obbligo e di un diritto, se vogliamo recuperare a forza di passione e di speranza il nostro campo. Astenersi dal voto porta unicamente ad una maggiore paralisi sociale e ad una maggiore vulnerabilità di altri diritti. Dobbiamo scendere in strada a votare, per fare in modo che, malgrado i governanti presenti e futuri, malgrado i partiti politici, questo sia un nuovo inizio, motivo per cui è fondamentale e ineludibile stabilire due condizioni che ci permettano di sognare e di conquistare il Messico che tutte e tutti vogliamo:

- La prima condizione è che si stabilisca in maniera immediata il diritto al referendum deliberativo e vincolante, perché a partire da ora i tre livelli di governo, municipale, statale e federale, siano sottomessi a consultazione cittadina, perché siano unicamente i cittadini e le cittadine a decidere di ratificare o revocare il mandato di quanti ci governano, e in caso di corruzione di sottoporli a processo.

- La seconda condizione è quella di introdurre in breve tempo il diritto al plebiscito, perché siano i cittadini e le cittadine a decidere se accettare o respingere le proposte relative alla sovranità del nostro Paese.

10. Porre queste condizioni segnerà l’inizio di una nuova tappa della nostra vita politica, che ci permetterà di prendere nelle nostre mani questo campo che chiamiamo Patria, Paese e Nazione. Riponiamo la nostra speranza in Dio, che ci riunisce permanentemente per sognare la possibilità di "abitare tranquilli": "Essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio. Darò loro un solo cuore e un solo modo di comportarsi perché mi temano tutti i giorni per il loro bene e per quello dei loro figli dopo di essi" (Ger 32,38-39).

Facciamo in modo che sia Dio a stabilirci realmente su questo Paese, "con tutto il cuore e con tutta l'anima" (Ger 32,41), e spingiamoci a convocare un’Assemblea Costituente il prossimo 2010, in cui, per via pacifica, le cittadine e i cittadini nati in Messico e tutti quelli che hanno posto qui il loro cuore e la loro vita decidano le condizioni, le leggi, le norme e le regole per la creazione di uno Stato di cui facciano parte tutti, per far sorgere una Nazione che realizzi in pienezza la loro vita, all’interno della propria identità e cultura (cfr Dall’Incontro con Gesù Cristo alla Solidarietà con tutti. Lettera Pastorale dei vescovi del Messico, n. 244).

Saltillo, Coahuila, 26 giugno 2009

 

 

 

 

 

 

 

DOC-2171. HALIFAX-ADISTA. La teologia si trova di fronte, oggi, a tre problematiche di tipo cristologico che rischiano di diventare gravi motivi di stallo e di immobilizzare, quindi, la ricerca teologica, che altro non è se non il tentativo di attualizzare in un linguaggio comprensibile e moderno le verità di fede. Lo ha affermato il professor Terrence W. Tilley, docente e direttore del dipartimento di teologia della Fordham University, nella relazione che ha concluso il suo mandato di presidente della Catholic Theological Society of America (Ctsa), la più prestigiosa associazione di teologi statunitensi. La relazione, intitolata "Three Impasses in Theology", è stata pronunciata in occasione dell’assemblea annuale dell’associazione, svoltasi ad Halifax (Nuova Scozia, Canada) dal 4 al 7 giugno scorso, ed incentrata proprio sul tema delle impasse che oggi bloccano il dialogo teologico e sulle possibili vie d’uscita. Nel corso della convention è stato anche eletto il nuovo presidente nella persona di Bryan N. Massingale, docente presso la Marquette University di Milwaukee (Wisconsin) e prete nella stessa diocesi.

Di seguito pubblichiamo ampi stralci della relazione di Tilley, in una nostra traduzione dall’inglese. (ludovica eugenio)

 

 

LE TRE IMPASSE DELLA RICERCA TEOLOGICA

Terrence W. Tilley

 

 

 

(...) L’impasse è una cosa seria: è un conflitto o un problema che non può essere risolto con il ricorso a normali strategie. (...). Oltre alle impasse ci possono essere gli stalli. Lo stallo è il risultato di un gioco in cui nessuno vince. Lo stallo negli scacchi significa semplicemente che il gioco finisce pari. I giocatori iniziano un’altra partita e cambiano tattica, o cambiano gioco. Gli stalli in ambito accademico si risolvono più per logoramento che con la riflessione intellettuale; le teorie non vengono rifiutate ma passano di moda.

Gli stalli accademici possono essere benigni, quelli nella vita reale possono essere maligni. (...).

Le impasse nella vita reale della Chiesa possono diventare e sono diventate stalli. Gli stalli nella Chiesa hanno prodotto fratture nella comunità ecclesiale. Il grande scisma occidentale ha rappresentato uno stallo di questo genere. La Riforma protestante, per esempio, ha costituito uno stallo che le strategie della Riforma cattolica non hanno risolto, ma esacerbato. Questi stalli maligni hanno distrutto la possibilità di unità ecclesiale, e non verranno superati finché i pastori di un dato gregge continueranno a chiedere che i fratelli separati si pentano dei propri errori se vogliono essere accettati nuovamente nel loro ovile. Purtroppo, il reticolato di impasse che oggi vive la Chiesa degli Usa fa sospettare che la Chiesa sia in stallo. Almeno tre sono le grandi impasse ecclesiali: un clero in diminuzione e in alcuni luoghi demoralizzato, a cui le attuali regole impediscono di crescere in modo significativo; un laicato che ama la Chiesa ma ha smesso di ascoltare i vescovi; e un corpo fedele e tenace di religiose che sono disgustate e scoraggiate dalle continue investigazioni della vita religiosa e dagli attacchi al loro autogoverno.

Alcuni vescovi hanno cercato di studiare queste difficili impasse. Altri invece hanno tentato di "cambiare argomento" (...). L’abitudine di cambiare argomento è una strategia simile ad un gioco di prestigio: allontana l’attenzione dalle impasse che non si possono o non si vogliono affrontare. Può anche essere una strategia di negazione tale da condurre allo stallo (...).. Un indicatore di ciò è il recente sondaggio del Pew Forum, secondo cui per ogni persona che entra nella Chiesa, quattro la abbandonano. E se l’abbandono della scacchiera è la risposta allo stallo negli scacchi, l’ab-bandono del tavolo eucaristico può essere la risposta allo stallo nella Chiesa. Oggi in teologia almeno alcune delle grandi impasse sono di tipo cristologico. Concentro l’at-tenzione su tre di esse: una metodologica, una soteriologica e una propriamente cristologica.

 

 

 

 

L’impasse metodologica riguarda il punto di partenza della cristologia: si comincia dalla Scrittura e dalla tradizione o si comincia dalla situazione attuale? Anche se molti di noi mettono in discussione questa dicotomia, oggi si tratta di un dato di fatto. L’accusa di eccessivo "presentismo", infatti, si ritrova nelle notificazioni della Congregazione per la Dottrina della Fede sulle opere sia di Roger Haight che di Jon Sobrino, entrambi gesuiti. La Cdf giudica insufficiente il metodo della correlazione critica di Haight, che subordina "i contenuti della fede alla loro plausibilità ed intelligibilità nella cultura postmoderna". L’opera di Haight, si contesta, non trasmette "il senso immutabile dei dogmi così come sono intesi dalla fede della Chiesa, né li chiarisce, arricchendo la comprensione". Al contrario, l’opera di Haight viene percepita come opposta all’"autentico significato dei dogmi". L’autore "mina la base del dogma cristologico che, a partire dal Nuovo Testamento, proclama che Gesù di Nazareth è la persona del figlio/Verbo divino fatto uomo".

(...) La Cdf rileva che il metodo di Sobrino fonda la cristologia sulla "‘Chiesa dei poveri’... [vedendo in essa il luogo teologico fondamentale] che può essere invece solo la fede della Chiesa. In essa trova la giusta collocazione epistemologica qualunque altro luogo teologico". In altre parole, la Cdf definisce il metodo di Sobrino fondamentalmente non cattolico. Come dice correttamente la Cdf, "il luogo ecclesiale della Cristologia... è invece la fede apostolica trasmessa attraverso la Chiesa a tutte le generazioni".

Voglio sottolineare che per Sobrino la Chiesa dei poveri è il fondamento, ma più ancora la premessa del fare cristologia oggi. Se vi è una "opzione preferenziale per i poveri", un’opzione ritenuta importante sia dai teologi della liberazione che dal Vaticano, questa opzione non ha solo un peso morale ma anche epistemologico. La Chiesa dei poveri non è il luogo fondamentale per la teologia, ma una risorsa privilegiata per sviluppare il quadro relativo al modo di vivere oggi all’interno e all’esterno della tradizione.

La Cdf prosegue criticando il modo con cui Sobrino affronta le dottrine conciliari classiche. Essa afferma (...) che l’inculturazione del messaggio cristiano aveva trasformato i concetti filosofici greci. I teologi patristici adattarono i concetti in uso nella loro cultura per esprimere i concetti teologici validi per la tradizione. Così facendo, essi cambiarono il significato delle parole che esprimevano quei concetti. Vale a dire, essi usarono le stesse parole dei loro contemporanei ma con significati diversi. Non è forse ciò che Sobrino ed altri stanno cercando di fare oggi? Se si trattava del giusto approccio per inculturare il messaggio del Vangelo nel IV e nel V secolo, perché non dovrebbe esserlo anche nel XX e nel XXI? Come disse Giovanni Paolo II, "una fede non inculturata è una fede non pienamente ricevuta, non completamente meditata, non pienamente vissuta".

(...) Qui, dunque, è l’impasse metodologica: per esprimere la fede nel presente dobbiamo usare termini adatti al presente, mentre la Cdf chiede che la cristologia venga rappresentata nei termini usati per inculturare la fede in culture che non esistono più, termini come ipostasis, prosopon, persona, substantia o traslitterazioni moderne di questi termini. La fedeltà ai termini greci e latini della tarda antichità rischia realmente, oggi, di distorcere il significato della fede per le persone, e ciononostante essi sono considerati i termini giusti da usare. Impasse!

 

 

 

La seconda impasse cristologica riguarda il modo in cui attestare che la volontà salvifica di Dio è efficace anche oltre la comunità dei battezzati. Nessuno nega che Dio possa salvare chiunque voglia: negare questo vorrebbe dire negare l’onnipotenza divina. Il problema è dire come Dio può salvare gli altri. Sembra esservi un’impasse tra una posizione esclusivista che rivendica la salvezza solo per coloro che credono nel nome di Gesù Cristo, ed una posizione pluralista secondo cui le altre tradizioni religiose possono essere cammini efficaci e ricchi di grazia per la salvezza. Alcuni sostenitori del pluralismo usano la moderna divisione kantiana tra pluralità noumenica e fenomenica per spiegare la diversità religiosa. L’uno oltre i molti, il Dio oltre tutti gli dèi, è inconoscibile in sé, ma appare in maniera parziale sotto forma degli dèi delle numerose tradizioni religiose. Questa forma di pluralismo religioso, tuttavia, (...) tende a ignorare la particolarità e la specificità delle varie tradizioni di fede a favore di una immagine filosofica universale "corretta". Si suppone che le teorie inclusiviste, come la nozione di "cristiani anonimi" proposta da Karl Rahner, s.j., esprimano una mediazione soddisfacente. Tuttavia esse non solo non riescono a risolvere l’impasse, ma si rivelano anch’esse esclusivismi dal volto sorridente.

La forma reale dell’impasse, però, diventa chiara quando consideriamo l’ebraismo. Il cristianesimo può essere o meno supersessionista (il supersessionismo è la credenza che la Chiesa abbia preso il posto di Israele, ndt). Se lo è, l’antica alleanza è abrogata, sostituita dalla salvezza portata da Gesù Cristo, e a quel punto o dobbiamo cercare di convertire gli ebrei, come sostenuto dal card. Avery Dulles, s.j., e da altri, o dobbiamo cooptare l’ebraismo con tattiche e teorie inclusiviste che ne fanno un avamposto incompleto e inconsapevole della salvezza portata da Gesù Cristo. Se l’antica alleanza non è stata sostituita, allora essa è sufficiente e le rivendicazioni della mediazione salvifica universale di Gesù Cristo sono insostenibili (...).

Non possiamo rispondere teologicamente del giudaismo senza mancare di rispetto a quella fede-tradizione o senza mancare di rispetto alla fede-tradizione che ritiene Gesù Cristo tanto necessario e sufficiente per la salvezza di tutti, anche per coloro che non sanno nulla di lui o che esplicitamente rifiutano - per buone o deboli ragioni - la tradizione cristiana. Questa impasse in particolare è problematica, nel momento in cui ricordiamo le vittime della triste storia dell’antigiudaismo cristiano e dell’antisemitismo dei pagani. Un’altra impasse!

 

L’impasse cristologica

 

La terza impasse cristologica è antica: come poteva Gesù essere sia divino che umano? Il Concilio di Calcedonia elaborò il proprio simbolo per risolvere le caotiche controversie cristologiche dell’era patristica. (...). Dal dirompente saggio del 1951 di Karl Rahner, s.j., "Calcedonia: fine o inizio?", i teologi hanno accettato il simbolo calcedonese come opportuna risoluzione della storica impasse cristologica, ma non lo considerano più un archetipo intramontabile a cui tutta la teologia deve conformarsi, bensì un prototipo che i teologi possono utilizzare come modello o accettare nella sostanza, ma da chiarire (nella misura in cui la Cdf lo permette) per il presente.

La "soluzione" di Calcedonia, però, non è stata tale. Come Gerald Hall, s.m., ha detto sinteticamente, "la prima metà del quinto secolo fu un periodo molto turbolento e indecoroso della storia cristiana, più teso all’intrigo politico che all’argomentazione teologica. Vi furono concili manovrati, vescovi banditi, incarcerazioni, cacce alle streghe ecclesiastiche e persino combattimenti fisici che provocarono, in un caso, la morte di un vescovo (Flaviano, patriarca di Costantinopoli)". (...). L’unità della Chiesa era in frantumi. La risposta politica all’impasse fu il ricorso alla forza o al divorzio: l’impasse si trasformò in uno stallo.

(...). Che l’impasse fosse stata semplicemente nascosta sotto la sabbia è indicato ulteriormente dall’incapacità dei teologi, nel corso dei secoli, di risolvere in modo soddisfacente le impasse della volontà umana limitata e divina illimitata di Cristo (si veda oggi il filosofo William Lane Craig) e della conoscenza umana finita e divina infinita di Cristo (si veda in passato Tommaso d’Aquino). Il problema di come una persona possa avere qualità contemporaneamente umane e divine non era stato risolto. L’effetto teologico della strategia di Calcedonia di attribuire queste qualità a due nature piuttosto che alla persona di Cristo lasciò fondamentalmente intatto il problema. L’effetto concreto di questa strategia fu la legittimazione del docetismo (dottrina che assegna a Cristo la sola natura divina, ritenendo la sua umanità solo "apparente" e fittizia, ndt), condizione che Rahner correttamente diagnosticò 58 anni fa. Le recenti notificazioni della Cdf menzionate prima riguardo alla cristologia possono non essere docetiste. Ciononostante, nella loro lettura del simbolo di Calcedonia sembrano appoggiare un punto di vista globalmente alessandrino e declassare le preoccupazioni antiochene (relative cioè alla rivendicazione dell’umanità completa di Cristo, ndt). (...). Invece di ricorrere a concetti contemporanei dal significato più chiaro ed ampio - proprio come fecero i Padri - le notificazioni della Cdf insistono sull’uso di parole i cui significati sono sostanzialmente differenti da quelli che avevano nel quinto secolo. (...).

 

Non potete farci tacere

Sono state tentate e trovate molte strategie nel tentativo di risolvere questi problemi cristologici. Quella più importante, che però è fallita, è la chiusura del dialogo, spesso ottenuta mettendo a tacere i teologi. Le notificazioni e le istruzioni della Cdf spesso possono essere e sono utili pedagogicamente e teologicamente. Possono contribuire e contribuiscono alla continuazione del dialogo. Possono chiedere e meritano l’attenzione di altri teologi. Ma quando la Cdf ricorre a tattiche da Star Chamber (tribunale inglese preposto alla tutela degli interessi della corona, ndt) e a sanzioni politiche - alcune dirette, altre indirette - essa può ripetere le pericolose politiche della Chiesa primitiva. Se e quando agisce così, l’impasse teologica resta; e, nella misura in cui si impone con la forza una soluzione, si è cominciato a procedere in direzione di uno stallo.

La tattica di interrompere il dialogo non ci porta al di là dell’impasse. La tattica alternativa più adeguata è ciò che i miei amici marianisti mi hanno trasmesso quando insegnavo all’Università di Dayton: dobbiamo restare seduti al tavolo ad ogni costo finché non troviamo insieme una strada per superare l’ostacolo. Un esempio di ciò è dato dalla dichiarazione congiunta luterana-cattolica sulla giustificazione, a cui si è arrivati dopo decenni di serio lavoro teologico (...). Forse i vescovi e gli imperatori del V secolo dovevano trovare una soluzione rapida, ma forse non potevano o non volevano restare al tavolo.

E questo ci dà il primo suggerimento per una tattica più adeguata per la soluzione delle impasse. Le virtù della speranza, della costanza, della fedeltà, della tenacia e della solidarietà sono decisive. I vizi dell’inerzia, dell’opportunismo, dell’emarginazione dell’altro e del cambiare argomento sono mortali. Posso spingermi a dire che, senza una pazienza amorevole, riflessiva, attiva nella solidarietà, non possiamo superare alcuna impasse, ma saremo condannati allo stallo? Bloccare il dialogo mettendo a tacere i teologi non risolve l’im-passe. Si possono uccidere i teologi, ma non li si può far tacere, a meno di imbavagliarli e di legare loro le mani dietro la schiena.

I teologi continuano a scrivere e a parlare. L’habitus del-la loro vocazione è troppo forte per essere fermato da autorità umane. Non potete farci tacere. I progressisti francesi del primo terzo del XIX secolo - Lamennais, Lacordaire e Montalambert - facevano appello alla libertà di coscienza, alla stampa e ad una religione in una nuova era politica. Vennero condannati, ma continuarono a scrivere e a parlare ed alcune delle loro idee sopravvissero e diventarono - in versioni opportunamente corrette e sviluppate - testate d’angolo della Dottrina sociale cattolica e del Vaticano II. I modernisti europei dell’inizio del XX secolo - Loisy, Tyrrell, von Hugel e altri - fecero appello ad una seria ricerca storica, biblica e teologica - anche indagando, orrore!, l’esperienza umana - per fornire strumenti adatti a rivelare la bellezza e la verità della fede in una nuova era intellettuale che valorizzasse l’esperienza umana. Furono condannati, ma continuarono a scrivere e a parlare e le loro idee sopravvissero e diventarono - in versioni opportunamente corrette e sviluppate - testate d’angolo del Vaticano II. La nouvelle theologie che si sviluppò alla metà del XX secolo in risposta a nuove condizioni culturali e intellettuali fu soppressa, ma de Lubac, Congar e altri continuarono a scrivere e a parlare e le loro idee sopravvissero e influenzarono il Vaticano II. L’americano John Courtney Murray, s.j., venne messo a tacere, ma le sue idee divennero la base della Dichiarazione sulla libertà religiosa del Vaticano II.

(...) Interrompere il dialogo è una tattica inadeguata per risolvere l’impasse. In teologia le buone idee vivono nonostante la repressione autoritaria, perché attirano la fede antica nel mondo nuovo, usando un nuovo linguaggio per dare voce a nuovi modi in cui la fede antica può sopravvivere in un nuovo contesto. Non esistono nuove idee, né idee creative. Né si tratta delle idee di uno o due geni. No, se queste idee vivono, è perché consentono alle persone di pensiero di vivere la tradizione di fede in nuovi contesti.

Quando le formule antiche incontrano nuove formule, la strada da percorrere è un impegno intellettuale, ecclesiale e pratico permanente finché il nuovo non diventi una delle tante espressioni legittime dei credo antichi oppure scompaia. I guardiani dell’ortodossia che mobilitano i legionari della repressione fanno ben poco per risolvere le impasse teologiche. I teologi che ottusamente mantengono le proprie posizioni e, in realtà, rifiutano di ripensarle - non necessariamente di cambiarle - fanno ben poco per risolvere l’impasse teologica.

La strada per uscire dall’impasse è tenere viva la speranza. In teologia, dobbiamo impegnare le virtù intellettuali, sviluppare nuove soluzioni sperimentali con uno sforzo di fantasia, testarle nel fuoco incrociato della critica, finché non esprimono la fede come una campana perfettamente intonata, e confidare nel fuoco dello Spirito che non si spegne mai, ma che consuma ciò che è insignificante e ciò che è di moda, temprando il vero. E soprattutto, dobbiamo stare al tavolo del dialogo finché non riusciamo a sentire lo Spirito che ci fa uscire dall’impasse. La pazienza verso l’al-tro è decisiva.

 

Come uscire dalle impasse?

(...) Per arricchire questo tema, voglio visitare tre luoghi associati rispettivamente alle impasse cristologiche affrontate prima.

Primo, l’impasse lasciata da Calcedonia fu affrontata nel deserto egiziano del V secolo. William Harmless, s.j., ha evidenziato come alcuni monaci del deserto fossero calcedonesi e altri no. Lavorando sull’antica raccolta del V secolo dei Detti dei Padri del deserto (Apophthegmata Patrum), Harmless ha notato la presenza di detti tanto di monaci non calcedonesi quanto di monaci calcedonesi. (...).

Malgrado fossero in disaccordo sulla cristologia, gli autori dei Detti compresero che la pratica monastica, le pratiche ascetiche di una comunità di praticanti, potevano ancora compattare i monaci al di là della distanza ideologica. (...). Il mio punto di vista è questo: dove l’ideologia divide, la solidarietà nelle pratiche ascetiche condivise, tra cui specialmente la preghiera condivisa, unisce. L’autentica condivisione della preghiera e lo stare insieme a tavola nonostante l’impasse teologica è una pratica riconciliante. Le pratiche riconcilianti sono il segno distintivo del movimento di Gesù, passato e presente. La richiesta di una conformità teologica in un tempo di impasse è una pratica che divide. (...). La pratica, non la teoria, è il cuore della vita cristiana comunitaria; insistere sull’identità ideologica - un modo, un modello, una lingua, specialmente in un’epoca di impasse - è distruttivo e idolatrico.

Secondo, (...) l’impasse cristologica nella teologia delle religioni è analoga all’impasse nella teodicea. Costruire teodicee porta all’impasse: nessuna teoria può spiegare in modo soddisfacente perché Dio permetta il male nel mondo. Il tentativo in sé di costruire teodicee si rivela parte del problema, e non della soluzione. Ma possiamo ragionevolmente credere due cose apparentemente contraddittorie: che Dio è onnisciente, benevolo verso tutti e onnipotente e che vi è un profondo male nel mondo. (...) Se la via per uscire dall’impasse della teodicea consiste nell’abbandonare la teodicea e nel lavorare per la cura e la riconciliazione, così la via per uscire dall’impasse cristologica nella teologia delle religioni consiste nel lasciare da parte la teoria e nell’impegnarsi nelle pratiche raccomandate dal Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso nel 1991. Il dialogo tra tradizioni di fede e la proclamazione della nostra tradizione "sono entrambi orientati verso la comunicazione della verità salvifica" (Dialogo e Proclamazione § 3).

(...) Come non possiamo spiegare il mistero del rapporto tra Dio e il male, così non possiamo spiegare il mistero della volontà salvifica di Dio riguardo a tutte le tradizioni di fede. Possiamo, però, portare avanti il dialogo. Possiamo nutrire speranza. La forma più efficace di dialogo e di proclamazione è la testimonianza. Le nostre pratiche, compresa la pratica del credere, sono la nostra prima forma di testimonianza. Il detto attribuito a San Francesco d’Assisi "Predicate sempre il Vangelo; se necessario, usate le parole", è qui significativo. (...). Non abbiamo bisogno di teorie che spiegano "come agisce Dio" e "qual è il piano di Dio" per essere in dialogo e in solidarietà con coloro che sono diversi da noi.

E sulla questione di metodo? (...). Dobbiamo guardare a ciò che facciamo concretamente quando facciamo riflessione cristologica. Dobbiamo inevitabilmente cominciare dal punto in cui ci troviamo. Non possiamo cominciare dall’alto. Non siamo nei cieli. Non possiamo cominciare dal passato. Siamo qui ed ora. Non possiamo partire dal futuro. Non c’è ancora. Dobbiamo partire dal momento e dal luogo in cui ci troviamo. (...) Dobbiamo cominciare a raccontare storie, a condividere la nostra fede, a rivolgerci a coloro che, all’interno e all’esterno della tradizione, stanno soffrendo. (...).

Come discepoli, noi teologi siamo chiamati a impegnarci in pratiche di riconciliazione che costituiscono la basileia tou theou. Condividiamo le pratiche del curare le nostre rispettive ferite e le ferite del mondo; dell’insegnare come Gesù ha insegnato; del perdonare coloro che hanno peccato contro di noi, del pregare insieme; del condividere la convivialità, in particolare la convivialità della Cena eucaristica.

Ma la pratica fondamentale per noi teologi è la comunicazione. A differenza dei monaci del deserto del V secolo, noi raramente comunichiamo con il silenzio. Vogliamo immaginare come gridare la Buona Novella. Per farlo dobbiamo fare ricorso a concetti che siano significativi per i discepoli-compagni e per altri nell’oggi e che siano anche fedeli al passato, e non solo mere ripetizioni o traslitterazioni. (...).

Ma come possiamo mettere alla prova la fedeltà alla tradizione delle cristologie contemporanee? È un profondo errore testarle in base al loro uso o meno di una terminologia traslitterata. Spero che questo sia ormai ovvio. Piuttosto, riconosceremo i modelli relativamente adeguati dai loro frutti concreti. La nostra comunicazione teologica ci aiuta ad essere comunità di discepoli fedeli che ricordano il proprio passato, che lavorano per la giustizia all’interno della Chiesa e della società, che perseguono la riconciliazione in un mondo che non ha più speranza di guarigione, che si trattengono al tavolo del dialogo così da impedire all’im-passe di degenerare in uno stallo mortale?

(...) Se vogliamo comunicare la verità dobbiamo essere preparati a raccontare molte storie e a formulare molti modelli. Usare un unico modello è idolatria. (...) E come fecero i discepoli di Emmaus, così i discepoli di oggi lo riconosceranno allo spezzar del pane; come fece il centurione ai piedi della Croce, così oggi la gente lo riconoscerà nell’a-more sacrificale che rende possibile l’espiazione; come fecero gli scettici che contestavano il perdono dei peccati del paralitico, così i testimoni di oggi lo riconosceranno nella guarigione delle vite spezzate di uomini e donne e nell’e-sorcismo dei demoni della sfiducia, della discordia, della disperazione nelle nostre vite; e come fecero le folle del passato che riconoscevano l’autorità del suo insegnamento, che metteva in crisi chi si sentiva sicuro e confortava gli afflitti, così anche i nostri interlocutori lo riconosceranno quando comunicheremo fedelmente nella pratica ciò che significa vivere il regno di Dio. (...).

 

 

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