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“QUANDO DUE ELEFANTI LOTTANO, È L’ERBA CHE SOFFRE”. LEZIONI DI PACE DAI TESTIMONI DEI GRANDI LAGHI

Tratto da: Adista Notizie n° 108 del 31/10/2009

35256. ROMA-ADISTA. Identificare gli sviluppi e le ragioni del profondo radicamento della crisi umanitaria che da oltre venti anni imperversa nella regione africana dei Grandi Laghi, a partire da alcune testimonianze dirette. Ma anche e soprattutto promuovere “un grande appello a non dimenticare” e ribadire l’impegno a proseguire sulla via africana alla riconciliazione e alla nonviolenza. Questi gli obiettivi del quinto incontro dell’Osservatorio sul Secondo Sinodo africano (v. Adista nn. 102, 103 e 105/09), dal titolo “Prospettive di Giustizia, Pace e Riconciliazione per la regione dei Grandi Laghi”, che si è svolto presso la libreria delle Paoline, alle spalle della basilica romana di San Pietro, lo scorso 20 ottobre. Hanno partecipato alcuni rappresentanti delle diocesi della regione, presenti in questi giorni nella capitale per seguire i lavori della II Assemblea Speciale per l’Africa: p. Joseph Mumbere, comboniano a Kisangani (Repubblica Democratica del Congo), mons. Giuseppe Franzelli, comboniano e vescovo di Lira (Uganda del Nord), mons. Edward Hiiboro Kussala, vescovo di Tombura-Yambio (Sud Sudan) e mons. John Baptist Odama, arcivescovo di Gulu (Uganda del Nord).

Secondo i relatori, la ricorrente banalizzazione mediatica, che separa buoni e cattivi con un colpo d’ascia, scaricando sul leader del Lord’s Resistance Army (Lra) Joseph Kony ogni responsabilità dei mali della regione, non rende giustizia alla complessa situazione che, a partire dalla rivolta Acholi dopo il colpo di Stato del 1986, ha ormai destabilizzato la vasta area di confine tra Nord Uganda, Sud Sudan, Est del Congo e Repubblica Centrafricana. I testimoni raccontano che l’instabilità nell’area si caratterizza paradossalmente come un equilibrio di poteri interni ed esterni: e così, nel grande calderone degli interessi e delle incapacità, la pace sembra sempre più lontana. I vescovi denunciano le multinazionali estrattive che continuano a rapinare una delle aree più ricche del pianeta, il commercio di armi alimentato dal conflitto, l’impotenza delle Nazioni Unite, l’arroganza giudiziaria dell’Aja, che si ostina a chiedere la testa di Kony senza valutare la possibilità di una via africana alla riconciliazione. In tutto questo complesso gioco di pesi e contrappesi, chi ne fa le spese è sempre la popolazione civile, costretta ad emigrare da un campo profughi all’altro, spiega mons. Odama, ricorrendo al proverbio africano che recita: “Quando due elefanti lottano, è l’erba che soffre”.


Non c’è riconciliazione senza perdono…

Mons. Franzelli, missionario di lunga data e vescovo da quattro anni, si è scoperto “evangelizzato” dall’esperienza concreta del perdono nelle zone di guerra che ha visitato. Le vittime delle razzie dei ribelli, ha ricordato, hanno perso la casa, i figli e i parenti, uomini e donne sono stati violentati e torturati, molti bambini strappati all’infanzia per diventare a loro volta assassini. Eppure, ha spiegato, sono proprio loro che pongono all’attenzione dell’Occidente una nuova idea di giustizia, “diversa, che non butta per sempre le persone in prigione ma che escogita riti di recupero e di restituzione alla relazione comunitaria”. Nel pensiero africano, i buoni e i cattivi sono uniti da un comune destino, vittime entrambi del male che se ne è impadronito. La peggiore condanna per l’africano, ha poi aggiunto mons. Franzelli, è l’esclusione dalla comunità: fuori dal gruppo, l’individuo perde ogni riferimento di senso e raggiunge livelli di follia tali da poter commettere qualsiasi atto, anche il più efferato.

Sulla stessa lunghezza d’onda mons. Hiiboro Kussala: il ribelle Joseph Kony, prima leader e poi carnefice del suo stesso popolo Acholi, e per questo allontanato, “è un nostro fratello come gli altri”, ha detto, e gli africani sono pronti a perdonarlo e riaccoglierlo in vista di un reale pentimento e conversione. Il vescovo ha poi chiesto di pregare “per cambiare il cuore delle persone” come Kony, senza serbare odio e senza auspicare inutili ritorsioni, perché la violenza è una spirale da cui non si può uscire. Questo l’Occidente proprio non vuole capirlo, ha aggiunto il vescovo, assurto agli onori della cronaca in questi giorni per aver denunciato le crocifissioni, nella foresta sudanese, di alcuni gruppi di cristiani rapiti dalla parrocchia in cui erano riuniti.

L’uomo africano può cogliere il punto di vista cristiano della giustizia e del perdono meglio di un occidentale, ha spiegato in seguito mons. Odama: “Paolo, da persecutore, è diventato santo. Gesù ha fatto un miracolo con Paolo e lo può fare anche con Kony. L’obiettivo, per un africano ma anche per un cristiano, non può essere la sua eliminazione ma la sua conversione”.

La logica della pace e della riconciliazione in Africa travalica le frontiere regionali, tanto che mons. Odama ha dichiarato: “My tribu is humanity”. E così ha consigliato un approccio alla crisi più sistemico e meno regionalista: “Occorre che tutti i potenti si chiedano qual è il futuro dell’umanità. La guerra o la pace?”. Secondo il vescovo, la crisi dei Grandi Laghi ci insegna che molti dei mali di quelle terre vengono da fuori e sicuramente anche le potenze straniere (Europa e Usa in testa) hanno grandissime responsabilità nei confronti dell’umanità intera. “Occorre sedersi tutti intorno ad un tavolo, ammettere le proprie colpe e chiederne il perdono”: la pace si fa così in Africa, e questa, ha detto con fermezza, “è realtà e non un’illogica utopia”.

 

… e senza la responsabilità della memoria

Eppure, la riconciliazione e il perdono non possono comportare una cancellazione indolore delle colpe commesse, ha affermato il sacerdote congolese Joseph Mumbere, che poi ha ricordato: “Giovedì 6 agosto 2009, per la prima volta, il presidente del Ruanda Paul Kagame è stato in visita ufficiale a Goma su invito di Joseph Kabila, presidente della Repubblica democratica del Congo. Alla domanda sul perché il Ruanda abbia fatto la guerra contro il Congo, egli ha risposto: ‘Se sono venuto nella Repubblica democratica del Congo non è per parlare del passato, ma per costruire il futuro’”. Poi, “lunedì 10 agosto 2009, Hillary Clinton segretario di Stato degli Stati Uniti, rispondendo alla domanda di uno studente sul coinvolgimento delle potenze straniere nelle guerre che hanno causato più di 5 milioni di morti, ha risposto così: ‘Noi vogliamo lavorare con persone che credono in un futuro migliore e non con delle persone troppo legate al passato’”.

Certo, è importante costruire il futuro, ha detto con ironia, ma sarebbe altrettanto interessante proporre alla Clinton e a Kagame di “andare a New York a chiedere agli americani di dimenticare l’11 settembre 2001”, o “in Israele a chiedere agli ebrei di dimenticare la Shoah”. “Paul Kagame che strumentalizza il genocidio del 1994 per mantenersi al potere, come osa insieme alla Clinton chiedere a noi congolesi di dimenticare il passato  e  più di 5 milioni di morti?”.

Il passato non si può cancellare con un colpo di spugna. Secondo il comboniano, infatti, per costruire un futuro di pace occorre innanzitutto “costruirsi una memoria collettiva, facendo i conti con il proprio passato”. La tragedia congolese è “frutto del fatto che, da quando esistiamo come popolo nei confini attuali del Congo, ci hanno sempre chiesto di non tentare nemmeno di capire il nostro passato di schiavi e di oppressi durante la colonizzazione e la dittatura, di uccisi, di torturati, di massacrati durante le guerre dal ‘96 ad oggi”.

Ma la denuncia del comboniano è andata ben oltre: “Con le parole di Hillary Clinton a Kinshasa e con le parole di Paul Kagame a Goma, ho capito che tutti i potenti sono venuti, vengono e verranno sempre nel Congo, ma mai per aiutare il popolo congolese a ritrovare la sua dignità, i suoi diritti alla vita tramite la giustizia, la pace e la riconciliazione. Il popolo congolese non gli è mai interessato. Sono le risorse del Congo che sono interessanti per loro. Noi congolesi moriamo ogni anno a migliaia a causa della guerra e lor signori vengono a dirci: ‘Dimenticate i vostri morti, dimenticate le vostre sofferenze, perché non contate nulla’”. “Noi ovviamente – ha concluso il comboniano – non possiamo accettare questa proposta”. (giampaolo petrucci)

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