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Liberare l’8 marzo

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 18 del 05/03/2011

L’8 marzo richiede un po’ di quei “credo che” di solito giustamente aborriti ma che qui servono per mettere a tema un vissuto collettivo colto inevitabilmente attraverso le proprie “viscere di genere”. Non sono mai riuscita a fare mie le teorie su Dio madre (per un maschio degno di questo nome da rintracciare nell’universo mi è sempre sembrato uno spreco far fuori anche lui nel giro di due soli millenni e farlo diventare una lei), ma sfidando il rischio di pericolosi fraintendimenti oso ancora credere che l’essere donna sia essenzialmente grazia, intesa come il manifestarsi della sovrana gratuità del non dovuto e del non calcolato, oltre l’esistente in cerca del non prevedibile della vita.

Immaginare il domani oltre gli stereotipi del presente spesso tramutati in catene del destino: che altro hanno fatto nel corso di una lunga storia di liberazione le nostre sorelle sante, streghe, puttane e madonne se non tentare attraverso tale grazia di essere “semplicemente” donne?

Attraverso la ribellione ai ruoli imposti dalla grande macchina risultante da consenso, buon senso, saperi codificati, poteri e strapoteri, la consapevolezza sessuale di genere si è presa per mano con il genere umano nel suo insieme e ha cercato la strada di un’umanità liberata dalla violenza di un corpo imposto come maschera e liberata dallo stupro dell’anima costretta a dare corpo a quella stessa maschera.

Ma che ne è della liberazione della donna se perde la sua grazia “propulsiva” e diviene narcisistica e cinica omologazione? Dove gli effetti culturalmente percepibili di donne e uomini liberati in grado di dare ragione della speranza di un diverso domani?

Qui siamo ad Adista, quindi è chiaro il “no” alla congerie coagulata dal berlusconismo. Ma proprio qui credo che occorra sottolineare il “no” alla pervasiva “intelligenza col nemico” che vede protagonisti ovunque i tanti eredi di tante liberazioni, donne comprese: la libertà svilita nel trionfo del particulare; il progressismo inteso come spregiudicatezza; la laicità intesa contraddittoriamente come negazione del senso del limite e del mistero umano; una società incattivita misurata solo con parametri di mercato; figli “educati democraticamente”, nel senso di una totale ed entusiastica adesione al principio dell’ignoranza uguale per tutti, figli sconosciuti eppure sempre “compresi” (notoriamente la democrazia e ogni liberazione nascono invece da figli “incompresi”, educati a conoscere, pensare e lottare per ciò in cui si crede); l’assuefazione alla volgarità spacciata per disinibita modernità (ancora imperdonabile quel culo sezionato in mostra nella pubblicità fondativa della nuova Unità); visi e corpi “di plastica”, patinati e standardizzati (diffusissimi anche a sinistra perché «dopo l’emancipazione noi donne abbiamo riscoperto il piacere del corpo»: cosa sacrosanta se non si fosse tramutata in una sorta di mostruosa alienazione collettiva che nulla ha a che vedere con il fascino della sensualità), in una sequela dell’estetica di regime che fa rivoltare nella tomba non tanto Maria Goretti quanto Rosa Luxemburg o chi per lei; uomini e donne scesi in politica per una anodina amministrazione dell’esistente, nel migliore dei casi ovviamente, e che a sinistra fanno a gara per sembrare più “borghesi” e cinici degli altri per non passare per démodé; donne agghiaccianti, replicanti dei peggiori maschi, in ogni ambito del potere, che fanno rifuggire da ogni ipotesi, già di per sé bislacca, di “quote rosa”, ecc.

Sento già l’obiezione: ma la gente normale è quella sana, quella che fatica, quella della manifestazione del 13 febbraio per la dignità delle donne. Sicuri? Beh, allora i “normali” si interroghino sul “che fare”, perché in giro, “normali” compresi, ci sono più abitanti di facebook che cittadini in grado di una alternativa per questo Paese, e più telefonini che parole e storie dotate di senso da trasmettere. Contra spem, buon 8 marzo a tutte e a tutti.

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