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Manovra economica Il dogma liberista e i suoi disastri

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 66 del 17/09/2011

«Nave sanza nocchiere in gran tempesta»: il dolorante grido dantesco è diventato di impressionante attualità in un momento nel quale la crisi economico-finanziaria, che scuote l'intero Occidente, si abbatte sul nostro Paese con particolare durezza: permanente sfiducia dei mercati finanziari che penalizzano in maniera assai pesante la Borsa di Milano, piccole e medie aziende che chiudono o sono in serie difficoltà, licenziamenti che gettano nella disperazione numerose famiglie, sospensioni dal lavoro con periodi di cassa integrazione destinate spesso a sfociare nella disoccupazione, allargamento dell'area del lavoro nero, commissariamento del nostro governo in materia economica da parte dell'Europa per scelte franco-tedesche non in grado di valutare adeguatamente il complesso caso italiano. Una preoccupante situazione che certo si inserisce nel quadro della congiuntura economica internazionale ma che sicuramente chiama in causa le gravi responsabilità di un governo che si esibisce in un susseguirsi di manovre economiche inique e segnate, fra di esse e all'interno di ciascuna di esse, da elementi contraddittori e da scelte mutevoli che aggravano la sfiducia dei cittadini e colpiscono ulteriormente l'immagine e la credibilità del nostro Paese sul versante internazionale.

Manovre di “lacrime e sangue” varate con decreti-legge (provvedimenti quindi che entrano in vigore immediatamente per essere poi convertiti in leggi) da un governo che subito dopo si divide su tutte le misure adottate con duri contrasti e con minacce di dissociazione che si ripercuotono all'interno di una rabberciata e traballante maggioranza. E ciò fino al punto che il presidente del Consiglio diviene dall'oggi al domani, come è accaduto per la manovra di agosto, un accanito oppositore di decisioni assunte dall'esecutivo da lui presieduto e da lui stesso presentate come necessarie per mettere il Paese al riparo da rischi di fallimento. E non basta perché il recente vertice di Arcore ha stravolto la manovra cancellando il contributo di solidarietà confermato chissà perché (la Corte costituzionale sarà probabilmente chiamata a verificare se è stato violato il principio di uguaglianza) solo nei confronti dei dipendenti pubblici e dei pensionati e rendendo inefficace il riscatto del servizio militare e degli anni universitari ai fini dell’età pensionabile per poi fare su quest’ultimo punto un immediato dietro-front. Il tutto con un incredibile andirivieni, tuttora in corso, sull’aumento del gettito di Iva e senza misure adeguate seriamente rivolte a favorire la crescita e a contrastare l’evasione fiscale.

C'è allora da chiedersi se il premier e il suo governo si rendano conto di quanta confusione e di quali reazioni negative provoca fra la gente questo saltellare dall'una all'altra ipotesi di intervento senza alcuna seria analisi e senza alcun organico progetto. Siamo davvero di fronte ad uno stato di sbandamento e di disordine che nella citata invettiva il sommo poeta definiva «bordello». Ha ragione il presidente Napolitano quando invita tutte le forze politiche ad accantonare gli interessi di parte per fronteggiare con spirito di coesione la difficile congiuntura. Ma questo governo rende arduo il compito delle opposizioni dal momento che sui provvedimenti da adottare per fronteggiare la crisi i componenti dell'esecutivo e gli esponenti della maggioranza dicono e disdicono, affermano e negano, fanno e disfano, in tutto divisi tranne che sulla “filosofia” che guida le loro scelte, quella logica per la quale il prezzo delle crisi deve essere sempre pagato dai disoccupati, dai giovani in cerca di occupazione, dai lavoratori dipendenti a reddito fisso e dalle fasce sociali più deboli. E ciò in ossequio al “dogma” ultraliberista per il quale le congiunture economiche che il sistema sempre più frequentemente provoca vanno affrontate socializzando le perdite e privatizzando i profitti.

Ne discende che il contributo che le opposizioni politiche e le forze sociali sono chiamate a dare in questo momento al governo è quello di pretendere da esso un cambiamento di linea in modo che i sacrifici imposti dalla crisi vengano ripartiti a misura di quanto prescrive l'art. 53 della Costituzione per il quale il pagamento dei tributi, e quindi il peso di qualsiasi necessaria contribuzione, costituisce un dovere inderogabile di solidarietà sociale rivolto a favorire la costruzione di quello Stato sociale delineato dall'art. 3 dello Statuto che proclama il principio di uguaglianza e fa carico alla politica di adoperarsi concretamente per farlo vivere nella nostra democrazia. Vale allora la pena ricordare il contenuto letterale del citato articolo 53 per il quale «tutti i cittadini sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» con la specificazione che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività». La capacità contributiva dei cittadini e la progressività dei pesi da imporre in rapporto ai diversi redditi dovrebbero allora essere i punti fondamentali di riferimento di ogni politica fiscale e di ogni manovra economica. Ma questo è un discorso che non sembra trovare ascolto nei palazzi del governo.

A fronte delle ingiuste e pasticciate manovre economiche che questo governo va elaborando per arginare la crisi, non sembri vano il richiamo ai grandi valori di giustizia e di solidarietà che all'indomani dell'ultimo conflitto mondiale hanno trovato consacrazione nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, nella nostra Costituzione e in altri avanzati Statuti. Valori che sono alla base del messaggio di civiltà per il quale occorre costruire, nel nostro Paese e a livello globale, un'economia libera ma adeguatamente regolata dai poteri pubblici con interventi di coordinamento e di indirizzo a fini sociali per impedire eccessi ed abusi. Proprio ciò che prescrive l'art. 41 della nostra Costituzione che l'attuale governo vuole riformare per cancellare ogni riferimento all'esigenza che l'iniziativa economica privata non si svolga in contrasto con «la utilità sociale» e all'opportunità che essa sia in qualche modo orientata a soddisfare anche gli interessi generali. Un progetto, quello di snaturare l'art. 41 della Costituzione, la cui gravità sembra essere largamente sottovalutata. Non è vero che la riforma del citato art. 41 sia priva di concrete incidenze sul futuro del nostro Paese. L'art. 41 è una norma programmatica di grande valore politico ed è perciò auspicabile che tutti coloro che si riconoscono nel nostro Statuto se ne rendano conto e la difendano con ogni determinazione. Illuminante risulta al riguardo l'autorevole pensiero del teologo e filosofo svizzero Hans Kung (Onestà. Perché l'economia ha bisogno di un'etica, Rizzoli, 2011): «La fede nel libero mercato ci ha portato al disastro», sicché «occorre confutarne i dogmi e riscoprire un'economia più equa e più efficace».

* Presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione

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