PERÙ: VINCE CHI AVEVA PERSO. IL VOLTAFACCIA DEL PRESIDENTE HUMALA
Tratto da: Adista Notizie n° 24 del 23/06/2012
36754. LIMA-ADISTA. Che le promesse della campagna elettorale restino sulla carta non è certo una novità. Ma, pur considerando i numerosi precedenti, il voltafaccia del presidente del Perù Ollanta Humala non può comunque passare inosservato. Impegnatosi a difendere i diritti dell’ambiente e dei popoli indigeni dall’espansione dell’attività mineraria, come pure a combattere i privilegi tributari delle transnazionali, Humala è capitolato senza se e senza ma, finendo anche per criminalizzare le proteste sociali contro la megaminería, da Cajamarca a Cusco. Vero è che alla trappola del modello estrattivista, basato sull’esportazione di materie prime non lavorate e su ampie concessioni minerarie a società transnazionali, non è sfuggito praticamente nessun Paese latinoamericano, che sia governato dalla sinistra o dalla destra (v. Adista n. 11/12). Ma se l’estrattivismo si è rivelato la fonte principale dello scontento nei confronti anche dei governi “progressisti”, il discorso appare tanto più grave in Perù, dove le esportazioni minerarie (in massima parte di oro, di cui il Perù è il primo produttore latinoamericano e il sesto mondiale, e di rame) hanno rappresentato nel 2011 quasi il 60% del valore totale delle esportazioni; e dove l’attività mineraria è concentrata nelle mani di neppure venti imprese, le quali riescono in media a raddoppiare tutto il loro patrimonio in un periodo che va dai due ai quattro anni.
Al centro del conflitto per la difesa della sovranità del popolo peruviano sulle risorse naturali del Paese c’è indubbiamente il progetto minerario Conga, in Cajamarca, promosso dalla Minera Yanacocha, sussidiaria della transnazionale Newmont Mining Corporation (la prima impresa di estrazione dell’oro in Sudamerica e la seconda nel mondo). Un progetto contro cui è in corso dal 31 maggio uno sciopero a tempo indeterminato, con una massiccia partecipazione popolare – a cui ha preso parte addirittura il padre del presidente, Isaac Humala – malgrado la militarizzazione ordinata dal governo, la persecuzione nei confronti dei leader della protesta, il bombardamento mediatico contro i manifestanti, descritti come nemici del progresso, estremisti, violenti e addirittura terroristi. Bocciato dallo stesso governo regionale di Cajamarca, il progetto Conga minaccia di distruggere le riserve d’acqua dolce della regione – riserve che Humala si era impegnato a difendere, prima di passare a considerare il progetto utile e necessario per il Paese –, producendo, secondo gli studi di impatto ambientale dello stesso Ministero dell’Ambiente, danni irreversibili all’ecosistema e contaminando il bacino del fiume Marañón, un importante affluente del Rio delle Amazzoni.
E violentissima è stata la risposta del governo ad un’altra mobilitazione popolare, quella a Espinar, in Cusco (dove il 76% della popolazione ha votato per Humala), contro l’impresa mineraria svizzera Xstrata Tintaya, per sedare la quale sono stati mandati ben 1.500 tra poliziotti e militari: due morti e centinaia di feriti il bilancio della repressione – con cui sale a 14 il conto delle vittime di conflitti ambientali nei primi 10 mesi della presidenza Humala –, oltre alla dichiarazione dello stato d’emergenza per trenta giorni e all’arresto, il 30 maggio, del sindaco di Espinar, Oscar Mollohuanca, scarcerato solo dieci giorni più tardi, e persino, il 28 maggio, di due difensori dei diritti umani della Vicaría de la Solidaridad della Prelatura di Sicuani, Jaime Cesar Borda Pari e Romualdo Ttito Pinto, poi rimessi in libertà. Era stata proprio la Vicaría, peraltro, a denunciare, sulla base di uno studio del “Centro nazionale di salute del lavoro e di protezione dell’ambiente”, l’inquinamento da metalli pesanti nelle acque dei fiumi Cañipía e Salado e la contaminazione da mercurio, arsenico e cadmio tra gli abitanti della zona circostante alla miniera. Sulle «legittime preoccupazioni» della popolazione di Espinar «riguardo alla qualità della vita e alla contaminazione dell’ambiente» si è pronunciata la stessa Prelatura di Sicuani, guidata dal vescovo carmelitano Miguel La Fay Bardi, che, in un comunicato, ha espresso indignazione per l’arresto dei due rappresentanti della Vicaría de la Solidaridad e ha respinto con forza l’accusa della polizia riguardo alla presunta presenza di munizioni dall’interno del veicolo della prelatura.
Quale trasformazione?
È così, a colpi di repressione contro chi ha votato per lui, che è finita la “grande trasformazione” evocata da Humala durante la campagna elettorale: «Ieri con la gente, oggi contro la gente», come ha sintetizzato l’economista peruviano Oscar Ugarteche (Alai, 8/6). È stato del resto lo stesso primo ministro Oscar Valdés a consigliare al presidente di dimenticare le promesse della campagna elettorale per poter così «governare per tutti i peruviani». Un consiglio, tuttavia, che non piace per nulla ad altri rappresentanti della maggioranza di governo, tra le cui fila si contano già quattro defezioni. Tant’è che il pericolo, evidenzia Ugarteche, è il ritorno in grande stile dei fujimoristi, a cui il presidente finirà per ricorrere se non potrà più contare, dopo gli abbandoni, sulla maggioranza al Congresso: «Humala – afferma l’economista - non può governare per i prossimi quattro anni senza la maggioranza parlamentare e questa la potrà garantire solo un’alleanza con il Fujimorismo». Humala, tuttavia, al suo slogan della campagna elettorale non intende rinunciare affatto, limitandosi a stravolgerne lo spirito: «La Grande Trasformazione – ha assicurato – la porteremo avanti ad ogni costo, che piaccia o meno agli estremisti. La compiremo con fermezza, senza scosse, senza paura, senza violenza, ma uniti, lavorando insieme, lavorando per il popolo e non interpretando quello che il popolo vuole».
Una deriva conservatrice, quella di Humala, che ha investito anche la politica estera, grazie alla decisione di sposare la proposta del suo predecessore Alan García di dar vita a una nuova area di libero scambio, l’Alleanza del Pacifico, tra i Paesi più ostinatamente filo statunitensi del subcontinente latinoamericano: dopo aver subito in passato i feroci attacchi delle destre come “candidato di Chávez”, e dopo aver rivendicato invece nell’ultima campagna elettorale la sua amicizia con il più “affidabile” Lula, Humala ha finito dunque per allearsi con gli impresentabili presidenti del Cile, Sebastián Piñera, della Colombia, Juan Manuel Santos, e del Messico, Felipe Calderón, firmando il 5 giugno, ad Antofagasta, l’accordo per la nascita ufficiale del nuovo organismo. Come scrive ancora Oscar Ugarteche (Alai, 5/6), se all’indomani delle elezioni che hanno decretato la sua vittoria, la destra annunciava la necessità di una concertazione politica, tale concertazione, in realtà, non c’è mai stata: «Quello che ha fatto la destra è stato un assalto al potere»: «Hanno vinto quelli che hanno perso e hanno perso quelli che hanno vinto». (claudia fanti)
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