Allarme rosso per il cambiamento climatico. E il mondo resta a guardare
Tratto da: Adista Documenti n° 17 del 10/05/2014
DOC-2614. ROMA-ADISTA. Considerando la gravità del cambiamento climatico, quasi ci si aspetterebbe che i leader mondiali non si occupassero d’altro. E, invece, a quanto sembra, per nessuno – autorità politiche, leader religiosi, rappresentanti dei mezzi di comunicazione, imprenditori e dirigenti sociali – il riscaldamento del pianeta rappresenta davvero la priorità delle priorità. Eppure il quadro non potrebbe risultare più chiaro: secondo l’Ipcc (Intergovernamental Panel on Climate Change), la task force delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici vincitrice nel 2007 del Premio Nobel per la Pace (v. Adista Documenti n. 35/13), abbiamo appena 16 anni di tempo per impedire che la temperatura del pianeta salga di oltre due gradi rispetto ai livelli pre-industriali. E anche così non sarebbe certo una passeggiata, se con l’attuale aumento di 0,8 gradi già non si contano gli eventi climatici estremi, cresciuti del 100% nell’ultimo decennio, dai fenomeni di siccità in Australia, in Africa, in Brasile al freddo polare negli Stati Uniti, passando per le sempre più frequenti alluvioni.
Riuniti a Berlino dal 7 al 13 aprile scorso per presentare, dinanzi ai rappresentanti di 195 governi, la terza parte del V Rapporto di Valutazione sui Cambiamenti Climatici (quella sulla mitigazione, cioè sulle soluzioni per ridurre le emissioni di gas climalteranti), gli scienziati dell’Ipcc non hanno lasciato scelta: le emissioni, cresciute a livelli record tra il 2000 e il 2010 - ogni anno un miliardo di tonnellate di gas serra in più nell'atmosfera - vanno tagliate tra il 40 e il 70% entro il 2050, per arrivare a un valore prossimo allo zero entro la fine del secolo. Un impegno che richiederebbe, tra l’altro, un deciso passaggio dall’uso intensivo dei combustibili fossili a quello delle energie rinnovabili (a fronte della caduta di investimenti nelle energie pulite registrata lo scorso anno in tutto il mondo, inclusa l’Europa, finora leader mondiale del settore), oltre che un’immediata sostituzione del carbone (il cui uso sta, al contrario, crescendo) con il gas nella produzione di energia elettrica. Il tutto con un costo - tutt’altro che insostenibile - di non più dello 0,06% del Pil l'anno, senza considerare i benefici derivanti dal contenimento di fenomeni atmosferici estremi e dell’inquinamento dell’aria. E, soprattutto, tenendo ben presente che non esiste alternativa, a meno di considerare tale una crescita della temperatura media globale tra i 3,7 e i 4,8 gradi entro la fine del secolo, che è quella che si registrerebbe in mancanza di interventi drastici.
Scenari apocalittici
Il quadro, tuttavia, potrebbe risultare ancora più drammatico di quello dipinto dall’Ipcc. Come sottolinea infatti il sudafricano Kumi Naidoo, direttore esecutivo di Greenpeace International, in un’intervista rilasciata al quotidiano brasiliano Valor (10/4), «l’Ipcc è, fondamentalmente, un’organizzazione conservatrice»: gli scenari delineati nel suo rapporto «non sono i peggiori possibili». Vale a dire che «qualunque cosa dica, è necessario moltiplicarla per quattro per avere un quadro genuino delle minacce climatiche». Tra i peggiori scenari peggiori, per esempio, c’è sicuramente quello tracciato dal noto graphic designer slovacco Martin Vargic, il quale, in una serie di accuratissime mappe, riproduce gli effetti sulle zone costiere di un innalzamento dei mari di 260 piedi, pari a 79 metri, in conseguenza dello scioglimento dei ghiacci ai poli. Così, l’Italia perderebbe, per esempio, la Puglia e l’intera Pianura Padana, ma anche Roma, Napoli, Pisa, Venezia, Cagliari e Palermo. E finirebbero sotto l’acqua, tra molte altre regioni, l’Olanda, la Danimarca, la Florida, le capitali di Cina e Giappone, le città costiere dell’Australia e anche la Foresta Amazzonica (le mappe di Vargic possono essere consultate su www.repubblica.it/ambiente/2014/03/08/foto/scioglimento_dei_ghiacciai_l_atlante_che_mostra_il_futuro-80523009/1/#1).
Arriva intanto l’ennesima cattiva notizia: l’ultima parte stabile del manto di ghiaccio della Groenlandia (che ha perso 10 miliardi di tonnellate di ghiaccio tra il 2003 e il 2013) non può più essere ritenuta tale (Deutsche Welle, 17/03). Ed è proprio il disgelo nella regione artica, molto più rapido di quanto era stato previsto, a preoccupare particolarmente gli scienziati: lo scioglimento innescherà un incontrollabile circolo vizioso, liberando enormi quantità di metano con conseguenze incalcolabili sul riscaldamento globale, ma anche producendo catastrofici effetti sull’albedo del pianeta (la frazione di luce riflessa da una certa superficie: in presenza di ghiaccio, la radiazione solare viene riflessa per l’80% nello spazio). E come se non bastasse, la sparizione dei ghiacci sta già rendendo più accessibili le abbondanti riserve di petrolio, di gas e di minerali preziosi dell’Artico, su cui si stanno affrettando a mettere le mani Stati Uniti, Russia, Canada e Danimarca.
Ma tutto questo sembra non essere ancora sufficiente. In molti, infatti, continuano a pensare, come denuncia l’ambientalista inglese George Monbiot (The Guardian, 31/3), che sia più facile adattarsi al cambiamento climatico che combatterne le cause: «Quando il nostro segretario di Stato per il Ministero dell’Ambiente, Owen Paterson, assicura che il cambiamento climatico “è qualcosa a cui possiamo adattarci nel corso degli anni” o quando Simon Jenkins afferma sul Guardian che dobbiamo orientarci a “pensare in modo intelligente a come il mondo dovrebbe adattarsi a quanto sta avvenendo”, cos’è che immaginano? Città trasferite in luoghi più alti? Strade e ferrovie spostate verso l’interno? Fiumi deviati? Terre arabili abbandonate? Regioni spopolate? Hanno un’idea di quanto verrebbe a costare?». Conclude Monbiot: «Non sanno quello che dicono quando parlano di adattamento. Se hanno pensato una cosa del genere, probabilmente hanno immaginato un aumento costante delle temperature, seguito da un aumento costante degli impatti a cui bisognerebbe adattarsi». Ma non è così che succede: «Il cambiamento climatico avviene a intermittenza, con mutamenti repentini a cui è assai difficile prepararsi, come abbiamo scoperto su piccola scala» con le pioggie eccezionali dello scorso gennaio.
La reazione delle Chiese
Di fronte a questo quadro, diverse - benché non ancora all’altezza della gravità della sfida - sono le iniziative messe a punto, già da anni, dalle Chiese. La questione del cambiamento climatico, per esempio, è considerata fra le priorità del piano strategico 2012-2017 della Federazione mondiale luterana, la quale, a dicembre, ha lanciato l’iniziativa di una giornata di digiuno in difesa del clima ogni primo giorno del mese, fino al 1° dicembre 2014, quando avrà inizio a Lima la Cop 20 (Conferenza delle parti della Convenzione quadro sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite). E quello del riscaldamento globale è uno dei temi di cui si occuperà il “Progetto Ecologico Internazionale” della Compagnia di Gesù, già da tempo impegnata sul versante dell’ecologia: una collaborazione di tre anni tra la Loyola University di Chicago e gli studiosi delle istituzioni dei gesuiti nel mondo al fine di creare un Living Textbook (una sorta di libro di testo) online attorno alle principali sfide ambientali (in una prospettiva scientifica, morale e spirituale), per metterlo a disposizione dei professori e degli studenti degli istituti di educazione superiore e delle scuole secondarie dirette dai gesuiti nel mondo. Non potrà infine non occuparsi della questione climatica la già annunciata enciclica di papa Francesco sui poveri e sulla custiodia del creato, alla cui stesura è stato chiamato a collaborare mons. Erwin Kräutler, vescovo di Xingu e grande difensore dei popoli indigeni (v. Adista Notizie n. 16/14).
Di seguito, in una nostra traduzione dal portoghese, l’articolo di Waldemar Boff, animatore del Seop (Servizio di Educazione e di Organizzazione Popolare) nella bassa fluminense, nonché fratello dei teologi Leonardo e Clodovis, pubblicato sul blog di Leonardo Boff (http://leonardoboff.wordpress.com, 21/03) e, in una nostra traduzione dall’inglese, gli interventi di Desmond Tutu, arcivescovo anglicano e Premio Nobel per la Pace (The Guardian, 14/4) e di Rowan Williams, arcivescovo emerito di Canterbury e presidente di Christian Aid (The Telegraph, 29/3). (claudia fanti)
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