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Dietro la caduta del prezzo del petrolio

Tratto da: Adista Documenti n° 18 del 16/05/2015

Molti sono i motivi presentati per spiegare la drastica caduta del prezzo del petrolio, fino a 60 dollari al barile (quasi la metà di quanto costava un anno fa): la diminuzione della domanda a causa della stagnazione globale; la sovrapproduzione delle riserve di scisto negli Stati Uniti; la decisione dell’Arabia Saudita e di altri produttori del Medio Oriente, membri dell’OPEC, di mantenere gli attuali livelli di produzione (probabilmente per punire i produttori con maggiori costi di produzione negli Stati Uniti e in altri luoghi); il rafforzamento del dollaro in relazione ad altre monete. Tuttavia, esiste una ragione di cui non si parla e che potrebbe essere la più importante di tutte: il collasso del modello delle grandi imprese petrolifere (…).

Fino all’autunno scorso, quando si è registrata la diminuzione del prezzo, i giganti dell’energia stavano operando a tutto gas, pompando più petrolio che mai. (…). Le grandi imprese petrolifere hanno adottato un modello di affari basato su una domanda sempre crescente, per quanto potessero risultare costose la produzione e la raffinazione. (…). 

Negli ultimi anni, questa strategia di massimizzazione della produzione ha assicurato una ricchezza straordinaria alle grandi imprese petrolifere. Solo nel 2013, la Exxon, la maggiore produttrice di petrolio statunitense, ha incassato l’impressionante cifra di 32,6 miliardi di dollari, più di qualunque altra compagnia Usa ad eccezione di Apple. (…). 

Tuttavia, quando nell’arco di qualche mese le cose sono cambiate, con la stagnazione della domanda e l’eccesso di produzione, la stessa strategia con cui le imprese avevano ottenuto profitti senza eguali è diventata, all’improvviso, totalmente disfunzionale.

Per comprendere la difficile situazione attraversata dall’industria energetica è necessario tornare al 2005, quando, per la prima volta, è stata utilizzata la strategia di massimizzazione della produzione. In quel momento, le grandi imprese petrolifere si trovavano in una congiuntura decisiva. Da un lato, molte delle riserve petrolifere esistenti si stavano esaurendo a un ritmo accelerato, tanto da indurre gli specialisti a pronosticare un imminente “picco” nella produzione mondiale di petrolio, seguito da un calo irreversibile; dall’altro, la rapida crescita economica della Cina, dell’India e di altri Paesi in via di sviluppo stava provocando un aumento stratosferico della domanda di combustibili fossili. In quegli stessi anni, la preoccupazione per il cambiamento climatico cominciava a prendere forza, minacciando il futuro delle grandi imprese petrolifere e premendo per investimenti nel settore delle energie alternative.


UN “MONDO FELICE” DI PETROLIO DIFFICILE

Nessuno aveva colto meglio il cambiamento di David O’Reilly, allora presidente e consigliere delegato di Chevron. «La nostra industria si trova in un punto di inflessione strategico (...)», aveva spiegato durante una riunione di direttori dell’industria petrolifera (…): «L’era del petrolio facile è terminata».

In questo quadro, secondo O’Reilly, le imprese petrolifere avrebbero dovuto adottare una nuova strategia, (…), realizzando enormi investimenti per estrarre ciò che l’industria definisce come “petrolio non convenzionale” (…): risorse localizzate molto lontano dalla costa, negli ambienti ostili dell’estremo nord, in luoghi politicamente pericolosi come l’Iraq o in formazioni rocciose di scisto. «La fornitura futura», insisteva O’Reilly, «dipenderà sempre più da (…) progetti di sviluppo che richiederanno nuove tecnologie e un investimento di miliardi di dollari in nuove infrastrutture».

Per i grandi direttori dell’industria come O’Reilly sembrava evidente che i giganti dell’energia non avessero alternativa. Sarebbe stato necessario investire questi miliardi in progetti di petrolio “difficile” o cedere il campo ad altre fonti di energia, interrompendo il flusso di profitti (…): «L'industria sta realizzando importanti investimenti per aumentare la capacità di produzione futura». In questa congiuntura, Chevron, Exxon, Royal Dutch Shell e altre grandi compagnie presero a investire enormi quantità di denaro e di risorse in una corsa al petrolio e al gas non convenzionali (...). Alcune, comprese la Chevron e la Shell, iniziarono le perforazioni nelle acque profonde del Golfo del Messico; altre, tra cui la Exxon, avviarono progetti nell'Artico e nella Siberia Orientale. Praticamente tutte cominciarono a sfruttare le riserve di scisto degli Stati Uniti, per mezzo della fratturazione idraulica.

Solo (…) John Browne, allora direttore esecutivo della BP (British Petroleum) (...), argomentò che i giganti dell'energia avrebbero dovuto guardare «oltre il petrolio» e investire importanti risorse nelle fonti di energia alternative. «Il cambiamento climatico è una questione che presenta interrogativi fondamentali riguardo alla relazione tra le compagnie e la società come un tutto, e tra una generazione e quella successiva», dichiarò nel 2002. (…). 

Ma Browne venne allontanato dalla BP nel 2007, proprio quando il modello di affari delle grandi imprese petrolifere basato sulla massimizzazione della produzione stava decollando, e il suo successore, Tony Hayward, abbandonò rapidamente la strategia che guarda «oltre il petrolio». (…). 

Sotto la direzione di Hayward, la BP sospese in gran misura le ricerche su forme alternative di energia e riaffermò il suo impegno nella produzione di petrolio e di gas (…). Seguendo i passi di altri giganti dell'energia, la BP iniziò la corsa ai giacimenti dell'Artico e delle acque profonde del Golfo del Messico e verso le sabbie bituminose del Canada, una forma di energia particolarmente sporca e assai difficile da produrre. Nella sua corsa per diventare la maggiore produttrice del Golfo, la BP perfezionò la perforazione di una riserva petrolifera nelle acque profonde, chiamata Macondo, provocando, nell'aprile del 2010, l'esplosione della piattaforma Deepwater Horizon, con una devastante fuoriuscita di enormi quantità di petrolio. 


SULLA SOGLIA DEL PRECIPIZIO

Alla fine del primo decennio di questo secolo, le grandi imprese petrolifere, insieme, hanno abbracciato la nuova strategia della massimizzazione della produzione (…). Hanno realizzato gli investimenti necessari, hanno perfezionato la tecnologia per estrarre il petrolio “difficile” e hanno fatto fronte al calo delle riserve di petrolio “facile” esistenti. In tal modo, hanno ottenuto un aumento notevole della produzione, incorporando riserve di petrolio di sempre più difficile accesso. 

Secondo l'EIA, l'Amministrazione per l'Informazione sull'Energia degli Stati Uniti, la produzione mondiale di petrolio è salita da 85,1 milioni di barili al giorno nel 2005 a 92,9 milioni nel 2014, malgrado il costante calo in molte riserve del Nordamerica e del Medio Oriente. Un anno fa, nel sostenere che gli investimenti dell'industria in nuove tecnologie di perforazione avevano allontanato il fantasma della scarsità di petrolio, l'ultimo direttore esecutivo della BP, Bod Dudley, dichiarava al mondo che le grandi imprese petrolifere si stavano espandendo e che l'unica cosa che aveva toccato il limite era «la teoria del picco del petrolio».

Questo, è chiaro, avveniva prima che il prezzo del petrolio crollasse, ponendo immediatamente in discussione l'opportunità di continuare a estrarre petrolio a livelli record. La strategia della massimizzazione della produzione, sostenuta da O’Reilly e da altri dirigenti, si basava su tre premesse fondamentali: che di anno in anno la domanda continuasse ad aumentare; che questa domanda crescente assicurasse prezzi sufficientemente alti da giustificare i costosi investimenti nel petrolio non convenzionale; e che la preoccupazione relativa al cambiamento climatico non alterasse l'equazione in maniera significativa. Oggi, nessuno di questi presupposti è valido.

La domanda continuerà ad aumentare – questo è innegabile, considerando la crescita prevista della popolazione e delle entrate mondiali –, ma non al ritmo a cui le grandi imprese petrolifere erano abituate. È necessario considerare quanto segue: nel 2005, quando molti degli investimenti più importanti nel petrolio non convenzionale erano in una fase iniziale, l'EIA aveva previsto che nel 2015 la domanda di petrolio avrebbe raggiunto i 103,2 milioni di barili al giorno; attualmente, ha rivisto la cifra al ribasso, portandola a 93,1 milioni di barili. (…). Le indicazioni attuali suggeriscono che il consumo continuerà a essere inferiore al previsto nei prossimi anni. (…). 

Ciò detto, l'Agenzia Internazionale dell'Energia (AIE) ritiene che il petrolio manterrà nel 2015 un prezzo medio di 55 dollari al barile e che non tornerà a toccare i 73 dollari fino al 2020. Cifre che restano molto al di sotto di quanto sarebbe necessario per giustificare l'investimento e lo sfruttamento di petrolio “difficile” come le sabbie bituminose canadesi, il petrolio dell'Artico e numerosi progetti legati all'estrazione di gas di scisto. Non a caso, la stampa economica è piena di notizie su megaprogetti energetici fermi o sospesi. La Shell, per esempio, ha annunciato a giugno di aver abbandonato il progetto di costruzione di un'impresa petrolchimica in Qatar, il cui investimento si aggirava sui 6,5 miliardi di dollari, riferendosi al «clima economico attualmente prevalente nell'industria energetica». Allo stesso  tempo, la Chevron ha interrotto il suo progetto di perforazione nel mare di Beaufort e la norvegese Statoil ha voltato le spalle a un analogo progetto in Groenlandia.

E c'è anche un altro fattore che minaccia le grandi imprese petrolifere: il cambiamento climatico non può più essere escluso da alcun modello energetico futuro. Le pressioni affinché venga affrontato un fenomeno che potrebbe annientare, nel senso più letterale dell'espressione, la civiltà umana sono sempre maggiori. Per quanto in questi anni le grandi imprese petrolifere abbiano speso enormi quantità di denaro nella campagna diretta a sollevare dubbi sulla base scientifica del cambiamento climatico, sono sempre di più le persone che cominciano a preoccuparsi dei suoi effetti – condizioni meteorologiche estreme, tormente più intense, periodi di siccità più prolungati, aumento del livello dei mari, ecc. – ed esigono dai governi un'azione mirata a ridurre la portata di tale minaccia.

L'Europa ha già adottato misure di riduzione delle emissioni di anidride carbonica del 20% entro il 2020, in relazione ai livelli del 1990, in vista di più decise riduzioni nei prossimi decenni. La Cina, sebbene continui ad aumentare la propria dipendenza dai combustibili fossili, si è impegnata perlomeno a raggiungere il picco delle sue emissioni nel 2030 e ad aumentare l'uso delle fonti rinnovabili fino a un 20% dell'energia totale nello stesso anno. Negli Stati Uniti, i sempre più rigorosi modelli di efficienza energetica determineranno (…) una riduzione della domanda statunitense di petrolio di 2,2 milioni di barili al giorno (il Congresso a maggioranza repubblicana e fortemente sussidiato dalle grandi petrolifere farà di tutto, è chiaro, per eliminare le restrizioni al consumo di combustibile).

Malgrado l'insufficiente risposta data finora ai pericoli del cambiamento climatico, (…) la sua influenza globale sulla politica potrà solo aumentare. Indipendentemente dal fatto che le grandi imprese petrolifere siano o meno preparate ad ammetterlo, l'energia alternativa è già nell'agenda mondiale e questo è un punto di non ritorno. «Siamo in un mondo diverso da quello che esisteva l'ultima volta che si è registrata una caduta verticale del prezzo del petrolio», ha dichiarato a febbraio Maria van der Hoeven, direttrice esecutiva dell'IEA (…): «Le economie emergenti, specialmente la Cina, sono entrate in una fase di sviluppo meno centrata sul petrolio... Inoltre, le preoccupazioni relative al cambiamento climatico stanno influenzando le politiche energetiche [e per questo] l'uso delle rinnovabili è sempre più generalizzato».

Naturalmente, l'industria petrolifera spera che il prezzo risalga fino a 100 dollari al barile per tornare al modello di massimizzazione della produzione oggi in crisi. Tuttavia, queste speranze di ritorno alla “normalità” sono illusorie. Come indica van der Hoeven, il mondo è cambiato in maniera significativa, distruggendo le basi su cui poggiava la strategia di massimizzazione delle produzione delle grandi petrolifere. I giganti energetici dovranno adattarsi alle nuove circostanze riducendo la propria attività o affrontare il rischio di venire assorbite da compagnie più abili e aggressive.

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