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Uguaglianza rinviata:  quando l’applauso sostituisce il cambiamento

Uguaglianza rinviata: quando l’applauso sostituisce il cambiamento

La recente affermazione di papa Leone XIV, «Le donne sono migliori degli uomini», oltre a essere un chiaro esempio di «donnismo», suona come una demagogia a buon mercato. Non solo banalizza una questione di fondo così seria come l’uguaglianza all’interno della Chiesa, ma sottovaluta anche l’intelligenza del popolo credente, trattandoci, ancora una volta, come se fossimo bambini ingenui e incapaci di discernimento.

È lo stesso tono paternalistico che ha caratterizzato il discorso clericale per secoli: un linguaggio pieno di frasi amabili e superficiali che cerca di appianare le tensioni reali senza offrire risposte concrete. Quando il papa ricorre a questo tipo di esempi, sembra rivolgersi non a una comunità di fede adulta, ma a un gregge docile che può essere placato solo con parole affettuose. E questo modo di parlare, più che pastorale, è profondamente infantile.

La Chiesa, nel corso della sua storia, ha usato questo stesso tono con i suoi fedeli: un tono protettivo ma condiscendente, che trasforma i credenti in minori di età spirituali. Questo atteggiamento, profondamente radicato nel clericalismo, mantiene una distanza tra chi «sa» e chi «obbedisce», tra chi comanda e chi ascolta. Con questo tipo di discorsi si perpetua una cultura dell’obbedienza emozionale, dove l’applauso sostituisce la riflessione e dove la tenerezza si confonde con la sottomissione. Il papa può dire una frase simpatica e il pubblico risponde con entusiasmo, senza rendersi conto che dietro l’adulazione si cela una negazione di fondo: la uguaglianza reale deve ancora arrivare.

Nel recente incontro del papa con le équipe sinodali, dall’Europa è emersa una domanda diretta: quali speranze possono avere le donne in una Chiesa sinodale? Esiste davvero un cambiamento culturale che porti ad un’uguaglianza piena tra uomini e donne all’interno della Chiesa? La risposta del papa, lungi dal chiarire il cammino, ha rivelato una visione ancora intrappolata nel clericalismo e nella superficialità simbolica di certi gesti.

Il primo esempio che ha portato è stato quello di sua madre, alla quale – racconta - quando le è stato chiesto se volesse essere come gli uomini, ha risposto: «Certo che no, perché noi donne siamo migliori». Il pubblico ha applaudito, celebrando la battuta come se contenesse una grande verità. Ma dietro quest’aneddoto si cela una profonda confusione. Questa frase, sebbene suoni come lusinghiera, non affronta il problema di fondo: la disuguaglianza strutturale che continua a esistere all’interno della Chiesa. Non si tratta che le donne siano «migliori» o «peggiori» degli uomini; si tratta che non sono uguali in diritti, responsabilità o nell’accesso ai ministeri. Il problema non si risolve con frasi ingegnose o applausi, ma con decisioni che trasformino la realtà ecclesiale e questo passo deve ancora essere compiuto.

Il secondo esempio del papa ha riguardato una congregazione religiosa in Perù che opera in una zona dove non ci sono preti. Queste donne, per necessità pastorale, sono state autorizzate a battezzare, assistere ai matrimoni e svolgere molti incarichi ministeriali. Il papa le ha elogiate, affermando che molti preti dovrebbero imparare da loro. Ma la domanda di fondo rimane: queste donne esercitano il loro ministero perché non ci sono uomini disponibili o perché hanno pieno diritto di farlo in quanto membri del Popolo di Dio? La risposta è evidente. Sono autorizzate «in assenza» dei preti, non «su un piano di parità» con loro. Il loro lavoro è tollerato come supplenza, non a seguito di un riconoscimento.

Qui sta la grande incoerenza: mentre la dedizione e il coraggio di queste donne vengono elogiati, il sistema che le emargina rimane intatto. Vengono elogiate per «fare ciò che i preti non fanno», ma senza cambiare il principio che impedisce loro di essere anche preti o di esercitare ministeri in nome proprio. Questo perpetua una struttura piramidale in cui pochi uomini ordinati si collocano al vertice, mentre il resto, donne e laici, occupa una posizione secondaria, subordinata e dipendente da permessi ed eccezioni.

Tuttavia, le origini del cristianesimo sono state molto diverse. Come sottolinea il teologo Xabier Pikaza, le prime comunità cristiane erano fraterne, orizzontali e paritarie, dove ogni persona contribuiva secondo il proprio carisma. Non esisteva un «sacerdozio clericale» separato dal resto, né paramenti che segnassero la differenza tra gli uni e gli altri. Gesù non ha istituito una gerarchia piramidale di potere, ma una comunità basata sulla fraternità e sul servizio reciproco. Il modello clericale che domina la Chiesa oggi, non proviene dal Vangelo, ma da un’evoluzione storica che ha finito per sacralizzare la disuguaglianza e per dividere il corpo ecclesiale tra «coloro che comandano» e «coloro che obbediscono».

Qui, è necessario uno sguardo più approfondito alla struttura clericale della Chiesa e al significato del clericalismo. Il clericalismo, come ha ben spiegato José María Castillo, non è solo un problema di atteggiamenti personali o di privilegi, ma una struttura di potere radicata nel cuore della Chiesa. Castillo ha denunciato con forza che «la Chiesa ha trasformato il servizio in potere e l’autorità evangelica in dominio istituzionale». Secondo lui, il clericalismo consiste nel credere che la grazia e la verità vengano canalizzate esclusivamente attraverso il clero, lasciando il resto del Popolo di Dio in uno stato di dipendenza spirituale e pratica. In questa visione il prete diventa un mediatore indispensabile tra Dio e i fedeli, il che contraddice direttamente il messaggio evangelico di Gesù, che ha proclamato che siamo tutti fratelli e sorelle, figli dello stesso Padre.

Questa struttura clericale è piramidale ed escludente, perché concentra l’autorità negli ordinati e riduce il resto a un ruolo passivo o secondario. Invece di comunità in cui tutti i battezzati partecipano, decidono e celebrano, la Chiesa oggi mantiene una netta divisione tra «consacrati» e «profani». La teologia di Castillo insiste sul fatto che questa separazione non solo manca di fondamento nel Vangelo, ma ne tradisce l’essenza, perché sostituisce la fede condivisa con l’obbedienza all’autorità. «Il clericalismo – diceva – è la malattia più grave della Chiesa», perché ha fatto del potere una forma di spiritualità e ha distorto il significato del servizio.

Anche il teologo e psicoanalista tedesco Eugen Drewermann ha criticato duramente questa stessa logica. Secondo lui, la struttura clericale non solo opprime le donne e i laici, ma disumanizza anche il clero stesso, trasformando i preti in funzionari del culto, prigionieri di un’istituzione che li costringe a nascondere la loro umanità e la loro libertà interiore. Drewermann sosteneva che il sistema ecclesiastico trasforma il Vangelo in un meccanismo gerarchico di controllo, che promuove il senso di colpa, l’obbedienza e la sottomissione, piuttosto che la libertà e la compassione predicate da Gesù.

Di fronte a questa struttura gerarchica, la teologia dei carismi offre un’alternativa profondamente evangelica. Nelle sue lettere Paolo ricordava che lo Spirito distribuisce doni diversi nella comunità, non per creare gerarchie, ma per costruire l’unità a partire dalla diversità. Nelle prime comunità cristiane i ministeri non erano attribuiti in base al rango o al genere, ma in base alla manifestazione dello Spirito in ogni persona. Pertanto, profetizzare, insegnare, guarire o servire erano espressioni distinte di uno stesso corpo, in cui nessuno era al di sopra degli altri. La Chiesa carismatica era, quindi, una comunità dinamica, aperta e partecipativa, nella quale ognuno poteva contribuire secondo il dono ricevuto. Recuperare questa visione sarebbe il primo passo verso un’autentica uguaglianza ecclesiale.

Il clericalismo, tuttavia, ha schiacciato questa ricchezza. Ha trasformato i carismi in incarichi, i servizi in funzioni e i doni dello Spirito in titoli di potere. In questo modo lo Spirito è stato sostituito dalla gerarchia e la libertà del battesimo dall’obbedienza all’ordine sacro. Le donne, che nelle prime comunità ricoprivano ruoli fondamentali – come profetesse, maestre, guide di chiese domestiche o diaconesse – sono state gradualmente cancellate dalla vita ecclesiastica pubblica. La storia successiva è piena di ingiustizie: dalla persecuzione di mistiche e teologhe alla sistematica esclusione delle loro voci nei concili e negli organi decisionali. La Chiesa, che predica l’uguaglianza di tutti davanti a Dio, ha per secoli emarginato metà del suo popolo, riducendolo al silenzio o al servizio subordinato.

Pertanto, parlare oggi di uguaglianza senza recuperare la dimensione carismatica del cristianesimo è incoerente. Solo una Chiesa guidata dai doni dello Spirito, non dal peso delle gerarchie, può rendere giustizia alle donne e tornare alle radici del Vangelo. L’affermazione del papa – «noi donne siamo migliori» – non solo è insufficiente, ma pericolosa. Perché nasconde, dietro una patina di lode, una profonda ingiustizia. Le donne non hanno bisogno di essere «migliori» per essere riconosciute, né vogliono essere «come gli uomini»; ciò che chiedono è l’uguaglianza in diritti e responsabilità.

L’uguaglianza non si basa sul raffronto, ma sulla giustizia. E la giustizia, in questo caso, esige di ripensare il ministero, l’autorità e il potere nella Chiesa, affinché nessuno sia escluso a causa del suo genere. La Chiesa non potrà parlare di comunione finché mantiene una gerarchia che pone alcuni al di sopra degli altri, né può parlare di fraternità mentre la metà dei suoi membri è privata di voce e di potere decisionale. Né può parlare di servizio mentre quello che pratica è dominio.

Poiché l’uguaglianza non si predica, si pratica e, finché non si pratica, qualsiasi applauso, per quanto ben intenzionato, continuerà a essere una cortina fumogena che nasconde una scomoda verità: la Chiesa ha ancora un debito in sospeso nei confronti delle donne, e questo debito sarà saldato solo quando i muri del clericalismo saranno abbattuti e la comunità cristiana sarà ricostruita per essere ciò che è sempre stata destinata a essere: una fraternità di uguali, guidata dallo Spirito, non una piramide di potere.

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Articolo pubblicato il 28.10.2025 nel sito «Ataque al poder» (www.ataquealpoder.es).

Traduzione a cura di Lorenzo Tommaselli

*Immagine tratta da  Public Domain Pictures

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