
La Colombia nel suo labirinto. La pace sconfitta dall'odio e dalla paura
Tratto da: Adista Notizie n° 35 del 15/10/2016
38707 BOGOTÀ-ADISTA. E ora? Non può che essere questa la domanda che si pongono tutti in Colombia all'indomani del referendum del 2 ottobre scorso: cosa succederà, ora, dopo l'inaspettata vittoria del No (di strettissima misura: 50,21% contro il 49,78%) all'Accordo di pace tra il governo e le Farc concluso il 24 agosto e sottoscritto a Cartagena de Indias il 26 settembre? Ma, accanto a questa, sorgono spontanee altre domande: come è possibile, dopo oltre 50 anni, 220mila morti (di cui oltre 170mila civili), 45mila desaparecidos, quasi sette milioni di vittime a vario titolo (tra cui più di 1.700 vittime di violenza sessuale) che la popolazione non sia ancora stanca di guerra? Come è possibile che, dopo due anni di conversazioni segrete e quasi quattro anni di faticosi e sempre precari negoziati ufficiali (avviati il 18 ottobre 2012), durante i quali è stato via via superato ogni ostacolo, sia mancato proprio l'atteso Sì dei colombiani? Come è possibile che solo il 37% di questi abbia avvertito la necessità di recarsi alle urne per pronunciarsi su uno dei più importanti avvenimenti storici mai vissuti nel Paese, malgrado «l'anelito alla pace», come ha evidenziato il sociologo Atilio Boron (Rebelión, 3/10), fosse qualcosa di «chiaramente percebibile» nella grande maggioranza della popolazione? Per quanto poi non vada neppure dimenticato che, come ha sottolineato il sociologo venezuelano Álvaro Renzi Rangel (Alai, 6/10), a determinare il risultato del referendum siano stati «quelli che la guerra la vedono in televisione, gli abitanti dei maggiori centri urbani, con l'eccezione di Bogotá, mentre quanti hanno sofferto sulla propria carne gli orrori di oltre 60 anni di violenza hanno offerto un esempio di riconciliazione votando in grandissima maggioranza per il Sì».
Ma c'è anche un altro interrogativo a cui è difficile sfuggire: poiché nulla obbligava a ricorrere allo strumento referendario, non sarebbe stato più saggio e più prudente pensare, per prima cosa, a incassare l'accordo, prendendosi poi il tempo necessario a educare la popolazione alla pace, contro le spinte guerrafondaie dell'estrema destra dell'ex presidente Álvaro Uribe, del clero ultraconservatore e delle Chiese evangeliche, oltre che dei latifondisti e dei narcotrafficanti, cioè di chi dalla guerra ha tratto i massimi profitti? Oltretutto considerando – a fronte della «debolezza dello sforzo educativo del governo per spiegare», nota ancora Boron, i contenuti dell'accordo «e le sue positive conseguenze per il futuro del Paese» – la «bassa credibilità di cui godono in Colombia le istituzioni politiche, corrose da lungo tempo dalla tradizione oligarchica, dalla penetrazione del narcotraffico e dal ruolo del paramilitarismo»: un «deficit di credibilità» destinato inevitabilmente ad allontanare l'elettorato dalle urne. Tanto più che, come aveva indicato il gesuita Francisco de Roux, una delle voci più stimate all'interno del cattolicesimo colombiano, il referendum si era ormai trasformato in una sorta di dibattito pre-elettorale, più condizionato dalle opzioni politiche dei due rivali, il presidente Juan Manuel Santos e l'ex presidente Àlvaro Uribe, che dai reali interessi della pace. Ed è così che si è permesso alle forze contrarie all'accordo – a loro dire, troppo generoso nei confronti della guerriglia – di seminare il panico tra la popolazione, a colpi di slogan del tipo “Non consegniamo il Paese alle Farc” (e al «castrochavismo») o “La Colombia non può diventare come il Venezuela”, tentando di nascondere, dietro caricature come quella del comandante Timochenko con la fascia presidenziale, un'elementare verità: che, cioè, come afferma la scrittrice Ilka Oliva Corado, per l'oligarchia colombiana «la guerra è sempre più redditizia della pace» (www.telesurtv.ne, 3/10). Ed è paradossale che i messaggi di odio – in clamoroso contrasto con le parole di pace delle Farc e con la loro richiesta di perdono alle vittime – abbiano trovato terreno fertile tra i cattolici, malgrado il forte ed esplicito sostegno al processo di pace da parte di papa Francesco, il quale si era rallegrato per la notizia della chiusura dei negoziati tra il governo e le Farc-Ep, ribadendo il suo appoggio, secondo il comunicato emesso dalla Segreteria di Stato, «all'obiettivo di raggiungere la concordia e la riconciliazione di tutto il popolo colombiano, alla luce dei diritti umani e dei valori cristiani che sono al centro della cultura latino-americana». Una posizione, questa del papa, che non è stata seguita tuttavia dalla gerarchia ecclesiastica colombiana, mantenutasi per lo più neutrale.
Difficile, ora, prevedere cosa accadrà. Se la Corte Costituzionale ha chiarito che la vittoria del No rende inapplicabile l'Accordo di pace (con relativo cronoprogramma dell'attività di disarmo e smobilitazione della guerriglia), ma ammettendo la possibilità di un nuovo ricorso alle urne dopo «una rinegoziazione dell'Accordo precedente o la sottoscrizione di uno nuovo», il presidente Santos, pur ammettendo di non avere un Piano B, ha garantito che verrà rispettato il cessate il fuoco bilaterale e definitivo tra il governo e le Farc, impegnandosi a perseguire la pace «fino all'ultimo giorno» del suo mandato «perché questo è il cammino per lasciare un Paese migliore per i nostri figli», quei figli che si sono rivelati assai migliori dei loro genitori, esprimendo in grande maggioranza il loro Sì all'accordo durante una sorta di plebiscito rivolto ai bambini (dal titolo “I bambini e le bambine contano sulla pace”). E la stessa garanzia ha offerto il leader dell'organizzazione guerrigliera Rodrigo Londoño, noto come Timochenko, assicurando che «la pace trionferà»: «Le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia – si legge nel breve comunicato emesso dopo l'esito del voto – lamentano profondamente che il potere distruttivo di quanti seminano odio e rancore abbia influito sull'opinione della popolazione colombiana. Con il risultato di oggi, sappiamo che la nostra sfida come movimento politico è ancora più grande e richiede da noi ancora più forza per la costruzione di una pace stabile e duratura. Le Farc ribadiscono la loro volontà di pace e il loro impegno a usare solo la parola come arma di costruzione del futuro».
E mentre tutti – persino Uribe, fermamente convinto che i guerriglieri debbano pagare con il carcere – parlano di pace, sul modo di procedere per garantirla, tuttavia, esistono varie ipotesi, a partire dalla rinegoziazione degli accordi, per quanto il capo negoziatore per il governo, Humberto de la Calle, abbia dichiarato a caldo che «non c'è spazio per rinegoziare alcunché, quello che abbiamo è quello che si è raggiunto». E c'è invece chi parla della convocazione di un'Assemblea Costituente con la partecipazione di tutti i settori sociali, come era stato in fondo richiesto fin dall'inizio dalle stesse Farc: un'ipotesi che potrebbe non risultare incompatibile con l'idea di un grande dialogo nazionale coltivata da Santos (a cui il 7 ottobre è stato peraltro assegnato il Premio Nobel per la pace, ma non senza polemiche, essendo stato conferito solo a lui e non anche alle Farc). E che correggerebbe, oltretutto, gli evidenti limiti del processo di pace, condotto, come evidenzia ancora Álvaro Renzi Rangel, «a porte chiuse e alle spalle della gente, senza partecipazione popolare e senza un dibattito collettivo».
Ma intanto, la riunione del 5 ottobre scorso tra il presidente e i rappresentanti del fronte del No, Uribe in testa, ha subito messo in allarme chi, come il Congresso dei Popoli (movimento popolare di sinistra che raccoglie diversi attori sociali), teme che il governo voglia ora intraprendere «la via di un patto chiuso ed elitario tra le destre» diretto a rivedere al ribasso l'accordo raggiunto con le Farc. E chi, come Renzi Rangel, evoca il pericolo di un riallineamento tra «settori che hanno bisogno di far convergere nuovamente i propri interessi militari, finanziari e politici: Álvaro Uribe e Juan Manuel Santos, che per anni hanno giocato a fare i nemici, cercando di lasciare alla cittadinanza una sola opzione: o l'uno o l'altro».
* Street art a Bogotà. Foto di Juan Cristobal Zulueta, tratta da Flickr. Immagine originale e licenza.
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