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Siamo tutti guarani kaiowá

Siamo tutti guarani kaiowá

Tratto da: Adista Documenti n° 18 del 13/05/2017
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Oggi non sono qui come esperta della cultura guarani kaiowá. Mi sono avvicinata molti anni fa a questo popolo più con quello spirito che ha recentemente fatto scattare nei social network una campagna il cui slogan è: #SouGuaraniKaiowa”/“#SomosTodosGuaraniKaiowa. Sono guarani kaiowá. Siamo tutti guarani kaiowá, alla quale hanno aderito in modo inaspettato grosse fette della società brasiliana urbana notoriamente poco sensibile al tema.

Nel 2012, i kaiowá riuniti nell’assemblea sovra-comunitaria Aty Guaçú, dopo l’ennesimo decreto di espulsione, avevano provocato il governo e l'opinione pubblica annunciando il loro suicidio collettivo come ultimo atto di un genocidio silenzioso che va avanti da 500 anni e si sta ancora consumando sotto i nostri occhi, in pieno XXI secolo. Così scrivevano nella lettera inviata alle autorità: «Non abbiamo più fiducia nella giustizia brasiliana: abbiamo perso la speranza di poter soppravivere degnamente e senza violenza nel nostro territorio ancestrale, abbiamo perso la speranza nel futuro. Chiediamo dunque una volta per tutte al governo e alla Giustizia federale di decretare non la nostra espulsione, ma la nostra estinzione totale e di inviare trattori per scavare una grande fossa dove seppellire i nostri corpi». Con quella lettera i guarani kaiowá ci avvisavano che, dopo tanti decenni di lotta per la vita, avevano scoperto che ora non restava loro altro che morire. Avvisavano noi tutti che sarebbero morti come avevano vissuto: collettivamente, nella terra che appartiene loro.

Il senatore Severo Gomes aveva scritto molti anni fa sulla Folha di San Paolo che il suicidio era una «strategia radicale degli indios per recuperare il controllo sulla propria vita attraverso l’atto estremo di togliersela». 

Gli sciamani ci allertano, con le loro premonizioni, che in gioco non c’è solo il destino dei popoli indigeni: come ha scritto il filosofo Augustine Berque, «quello che chiamiamo abitualmente etno-cidio (morte di una cultura) è più profondamente un cosmocidio, cioè l’assassinio del mondo».

Davi Kopenawa Yanomami insiste nell’avvertirci che siamo, in fin dei conti (ma forse solo alla fine dei conti), la stessa tribù umana, dal momento che, quando finirà la foresta e le macchine minerarie avranno divorato le viscere della terra, le fondamenta del cosmo crolleranno e il cielo cadrà sopra tutti i viventi. «È iniziata una nuova fase che i Guarani Kaiowá chiamano Ararapire (la fine del tempo-spazio del “buen vivir”), per cui, analogamente a quello che è successo alla superficie della terra al tempo delle origini (Araypy), anche quella attuale sarà inesorabilmente distrutta e purificata. In questa prospettiva cosmologica, i guarani e in particolare i loro sciamani possono, con le loro azioni, contribuire ad accelerare questo processo di distruzione o, al contrario, tentare di rallentarne il ritmo, cercando di convincere le divinità». 

Odulia, la sciamana guarani che avevo conosciuto nel corso di una mia visita insieme a Yuri Castelfranchi in terra guarani, di fronte all’inefficacia dei suoi canti e delle sue danze con cui preservare la salute della sua gente e della terra, ci aveva ammoniti: «Se non ci lasceranno in pace, parlerò con il Fratello Maggiore, Pa´i Kuara, il Sole, per dirgli di non brillare più né per i guarani kaiowá né per i bianchi». 

Allora Odulia viveva insieme al cacique Nisio Gomes nella riserva di Amambai. Oggi Odulia non c’è più e Nisio è stato ucciso barbaramente nel 2011, come altri leader – da Marçal de Souza Tupã-y (1983) ad Ambrosio Vilhalva (2013) a Marcos Veron (2003) – assassinati mentre guidavano la lotta della loro comunità per rientrare in possesso della terra ancestrale.

E quindi oggi sono particolarmente emozionata per essere qui con Ládio Veron, Avã Taperendi – Uomo che brilla come il sole che sorge – perché suo padre lo avevo conosciuto proprio qui in Italia, nel corso di un viaggio organizzato da Survival International. In quella occasione, Marcos aveva denunciato di fronte a politici, giornalisti, alunni delle scuole e gente comune la drammatica situazione del suo popolo, costretto a vivere in piccole riserve, vere e proprie favelas indigene, o in accampamenti provvisori sui bordi delle strade, tra la carreggiata e il filo spinato delle fazendas. E aveva dichiarato che sarebbe stato disposto ad affrontare qualunque cosa pur di ritornare nel suo tekoha, Takuara, dove poter vivere secondo la cultura guarani kaiowá (Teko Porã, “o Viver Bem”). 

Quando ci salutammo, mi invitò nel Mato Grosso do Sul. Raccolsi subito l’invito e l’anno dopo lo andai a trovare. Conobbi tutta la sua famiglia: il figlio Ládio, le figlie Valdelice e Dirce, la moglie Julia, i nipoti. Mi dissero che la notte Marcos non faceva che raccontare, sotto la lona preta (plastica nera, ndt) della baracca dove erano accampati, della calorosa accoglienza ricevuta in Europa e nel nostro Paese, così diversa dal trattamento che in Brasile è riservato a coloro che ne sono i primi, legittimi abitanti. Quindi Ládio sono qui oggi per darti il benvenuto, come lo diedi a tuo padre e come lui lo diede a me, e per dirti: eu sou guarani kaiowá: siamo tutti guarani kaiowá.

Quando la giornalista Eliane Brum ha chiesto all’antropologo Tonico Benites, Ava Vera Arandu (uomo la cui sapienza è radiosa), cosa significasse essere guarani kaiowá, lui ha risposto: «Essere guarani kaiowá significa appartenere a un territorio specifico e soprattutto essere interlocutore dei guardiani delle risorse naturali, mantenendo con loro un rapporto di rispetto reciproco. Significa essere un guerriero che lotta indefessamente per il pezzo di terra dove sono sepolti gli antenati e che è pronto, se necessario, a sacrificarsi e morire con onore per riprenderselo. Essere guarani kaiowá significa essere una persona che lotta tenacemente per la realizzazione di sogni collettivi… significa essere un profeta che prega oggi perché il futuro delle nuove generazioni sia migliore. Essere guarani kaiowá significa prendersi per mano, fare un cerchio e, girando, cantare l’allegria di vivere. Essere guarani kaiowá significa mettersi in ascolto dell’altro e cercare a tutti i costi di usare la parola per non rispondere alla violenza con altra violenza». Ci auguriamo dunque che la mobilitazione “Eu sou guarani kaiowá” rappresenti un modo per avvicinare i nostri mondi che finora hanno trovato quasi esclusivamente nella violenza il loro punto di contatto. 

* Foto di percursodacultura tratta da Flickr, immagine originale e licenza

 

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