
Ubuntu come etica africana, umanista e inclusiva
Tratto da: Adista Documenti n° 20 del 27/05/2017
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Introduzione
I popoli africani, in generale, hanno una forma particolare di vivere e di esprimere il mondo, una forma che li caratterizza, li determina e li distingue da altre popolazioni. È la loro visione del mondo, è l’ubuntu. È a partire da qui che si costruisce tutto l'edificio etico-filosofico africano. E si arriva a tale costruzione partendo dall'idea di umanità delimitata dal termine “ubuntu” che, In termini generali, significa, da un lato, l'umanità sperimentata e realizzata insieme agli altri e, dall'altro, l'umanità come valore. Da tali idee preliminari, intendo dimostrare come l’ubuntu sia la pietra angolare dell'etica africana, che è biocentrica, ossia centrata sulla vita. (…).
1. La storia dell'ubuntu nei discorsi scritti
Il successo dell'ubuntu è recente, in quanto è relazionato con la fine dell'apartheid e l'avvento di un Sudafrica post-apartheid, negli anni '90 del secolo passato. Tuttavia, il termine ubuntu (e l'esperienza che se ne è fatta) è molto antico nelle società subsahariane. In Sudafrica, dove l'ubuntu è stato studiato e utilizzato in vari ambiti, come nella politica, nella vita accademica, nella religione, nei mezzi di comunicazione, la popolazione in generale conosce qualcosa di questo concetto. E lo stesso avviene nello Zimbabwe (...).
Studiando lo sviluppo storico dei discorsi scritti sull'ubuntu, Christian Gade ha scoperto che tale concetto apparve per la prima volta in un testo della prima metà del XIX secolo (1846). Da questa data fino al 2011, si distinguono cinque periodi, in base ai principali significati che sono stati attribuiti a questo termine.
Nel primo periodo, dal 1846 al 1980, il significato dominante che gli studiosi africanisti – in maggioranza bianchi – attribuiscono all'ubuntu è quello di “qualità umana”. Un concetto che abbraccia molti significati e/o virtù (...): natura umana, umanità, maturità, senso di umanità comune, generosità, liberalità, grandezza di cuore, bontà, amabilità, personalità, capacità di sacrificarsi per gli altri. Un fatto che ha indotto Gade a interrogarsi: «Ciò indicherà forse che l'ubuntu è una qualità piuttosto complessa e sfaccettata?». (…).
Il secondo periodo – che possiamo considerare un “miniperiodo”, trovandosi all'interno del grande periodo già esaminato – è situato tra la fine degli anni '60 e la fine degli anni '70 del secolo scorso. Nel corso di questo periodo, l'ubuntu viene «definito come qualcosa che si relaziona o è equivalente a una filosofia o a un'etica» (Gade). In tal modo, autori como Jordan Kush Ngubane vedranno nell'ubuntu «il codice che costituisce una filosofia della vita dei Sutu-nguni (grande gruppo etnico composto da numerose etnie bantu che vivono in diversi Paesi dell'Africa Australe, ndr), che accettano l'altro essere umano come parte di se stessi» e «una filosofia che l'esperienza africana traduce in azione». (…). Di modo che Philip Mayer definirà l'ubuntu come «la principale fonte della filosofia africana, relazionata con la bontà, la dolcezza, l'umiltà, il rispetto e l'amore».
Tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '90 si incontra il terzo periodo (...), in cui Gade individua tre testi che «identificano l'ubuntu come “umanesimo africano”» (…).
Gli ultimi anni '90 e gli inizi del Duemila sono considerati da Gade come il quarto momento, in cui l'ubuntu viene menzionato come la visione del mondo africana. Il nostro autore cita come primo esempio l'arcivescovo emerito Desmond Tutu, il quale propose la “terza via” di una giustizia riparatrice e restaurativa tanto per le vittime quanto per i responsabili dell'apartheid. In questa proposta – contenuta nel suo libro No Future without Forgiveness (Non c'è futuro senza perdono) – Tutu mostra come questa terza via si trovi tra una “giustizia vendicativa” (…) e l'“amnesia” (...). Il Premio Nobel per la Pace giustifica la sua proposta con l'argomento che essa rappresenta una caratteristica centrale della cosmovisione africana che, nelle lingue del gruppo nguni, è conosciuta come ubuntu e, nelle lingue soto (o sutu), come botho. (…).
L'ultimo periodo è quello in cui l'ubuntu è direttamente connesso al proverbio zulu “Umuntu ngumuntu ngabantu” (la persona è una persona attraverso altre persone). (…).
L'ubuntu, come visione del mondo africana, sarebbe, riprendendo Mogobe Ramose, la base di tutto l'edificio della filosofia africana (…). L'ubuntu è, secondo Ramose, «la radice della filosofia africana, [...] la fonte da cui derivano tanto l'ontologia quanto l'epistemologia africane». (…).
Seguendo le indicazioni di Kagame (...), umuntu come essere umano, nel senso occidentale di “persona”, diventerebbe ubuntu (umanità, tanto come qualità umana quanto come insieme di tutti gli esseri umani). È importante evidenziare come, nella cosmovisione bantu, essere muntu o umuntu significhi essere, di fatto e di principio, intrinsecamente legato ai doveri e agli obblighi morali. In altre parole, essere muntu significa agire bene. Fare del male è perdere il nostro ubuntu (il fatto di essere umuntu). (…).
2. La centralità della forza vitale nell'etica africana
Considerando che la forza per la vita non manca mai, è logico parlare di forza vitale. (…). Il muntu passa tutta la sua esistenza cercando la prossimità con questa forza: eventualmente, alcuni bantu cercano di direzionarla negativamente per fare del male. È in questo quadro che è possibile intendere qualunque azione intrapresa da un muntu presso uno sciamano o nganga. «Quando il muntu accompagna lo sciamano, spesso è per accrescere il proprio “stare con le forze” o per chiedere che sia ridotto lo “stare con le forze” dei propri nemici» (Matungulu Otene). (…).
In tale realtà, «nulla si muove [...] senza influenzare altre forze. Il mondo delle forze è come una ragnatela di cui non si può far vibrare un solo filo senza scuotere tutta la tessitura» (Placide Tempels). Questa interrelazione e interdipendenza di forze rispetto alla vita ci conduce precisamente a pensare l'etica africana (…) come un'“etica della vita”. In effetti, (…) si osserva che la vita, in questo caso umana, è sempre in mezzo al movimento delle forze. Allora, come “etica della vita”, l'etica africana si realizza a partire da alcuni presupposti, tra cui i principali sono: 1) Motho ke motho ka batho [idioma sesotho del sud] (La persona è tale attraverso altre persone); 2) Feta Kgomo o tshware motho [setswana] (Ignora la vacca e salva l'essere umano, poiché la vita è più grande della ricchezza); 3) Kgosi ke kgosi ka batho [setswana] (La sovranità del re deriva dai sudditi e appartiene ad essi); 4) Motho gase mpshe ga a tshewe [sesotho del nord] (Nessun essere umano può essere assolutamente inutile).
In questi presupposti etici si coglie la relazionalità della vita: qualunque persona, compreso il re, dipende da altre persone e a partire da questo si può affermare che nessuno è totalmente indipendente e nessuno è definitivamente inutile. E sulla stessa linea si pone Bénézet Bujo, quando osserva che nella cosmovisione bantu «tutta la vita è relazionale».
I vivi di oggi l'hanno ricevuta dai loro antenati e questi, a loro volta, da chi li ha preceduti, e così via. Nello stesso tempo, poiché qualunque vita umana dipende da altre entità non umane (aria, acqua, spazio...), risulta che gli esseri umani hanno ricevuto e continuano a ricevere la vita da altri esseri non umani. Esiste una relazione vitale tra gli esseri umani e altre entità del cosmo. Munyaradzi Felix Murove la esprime in altri termini, affermando che l'“etica tradizionale africana riconosce il vincolo esistenziale tra le persone e l'ambiente e il debito di ogni generazione verso gli antenati e la conseguente responsabilità nei confronti della loro eredità». In questa linea, la vita va allora intesa come un dono che emana dagli antenati, i quali l'hanno ricevuta da una catena di esseri umani e non umani che risale fino a Dio, «la grande e potente forza vitale».
Se questa vita emana dagli antenati (…), essendo questo un dono, abbiamo a nostra volta l'obbligo morale di trasmetterla alle future generazioni. Va notato come nel mondo africano, quando qualcuno riceve un regalo, non basta ringraziare, ma si deve “rispondere” a questo dono, poiché esso è (o si interpreta come) un debito morale. La persona o la famiglia che riceve questo regalo suole ringraziare offrendo un altro regalo. Non importa se grande o piccolo, quel che importa è offrire qualcosa per ringraziare. E se in quel momento la persona non ha nulla, farà tutto il possibile perché un giorno possa ringraziare in maniera degna la persona che le ha offerto il regalo.
Non ringraziare per il dono equivale a non essere muntu o a esserlo meno, cioè a essere una cattiva persona. Al contrario, ringraziare significa essere muntu o esserlo di più, cioè essere una buona persona. Va segnalato che questo aspetto morale legato al muntu è comune a tutta l'Africa subsahariana. In molte parti del territorio di lingua swahili, per esempio, è comune sentir dire: “mama yule ni mtu!” (questa signora è una persona!) o, addirittura, “mzungu yule ni mtu!” (questo uomo bianco, o questa donna bianca, è una persona!), indicando che si tratta di persone buone, di persone di buon cuore. Al contrario, se qualcuno è crudele o avaro, le persone diranno: “bwana yule si mtu hata!” (questo signore non è una persona, niente affatto!), che equivale a dire che è una persona cattiva, una persona da evitare.
Tornando ai ringraziamenti, il fatto di ringraziare ha allora un significato più profondo, che è quello di riconoscere il dono e di rispondere ad esso (...) e, poiché l'atto di ringraziare, nel suo significato di riconoscere e rispondere, porta la persona a essere più muntu, ne deriva che esso accresce la forza vitale del muntu o, in altre parole, lo rende più forte e più saldo.
La persona che dà, che condivide, è generosa. (…). Fare il bene genera, in essa, maggiore forza vitale e, in chi riceve, un riconoscimento dell'ubuntu del donatore (…) e, allo stesso tempo, una responsabilità nei suoi confronti. L'atto di riconoscere e rispondere è, pertanto, fare il bene. Agire così accresce anche in qualche modo la propria forza vitale. A partire da allora, per reciprocità, la generosità si traduce in solidarietà. Poiché, quando si condivide, si è generosi, si fa il bene, si accresce conseguentemente la propria forza vitale. E la persona che riceve ciò che è stato condiviso, nel riconoscere e rispondere fa anch'essa del bene, aumentando così la propria forza vitale, diventando più forte. A partire da un atto di generosità, allora, entrambe le parti diventano più salde e più forti. (...). Questa è la solidarietà. (…).
Così, ogni generazione deve riconoscere un debito nei confronti degli antenati e, per questo, deve rispondere attraverso la responsabilità nei riguardi della loro eredità. Alla luce di questo, la solidarietà appare come una qualità essenziale nel mondo subsahariano, giacché mira sempre a rendere più forti e saldi, cioè a preservare e aumentare la forza che dà vita, considerata la pietra angolare dell'edificio etico africano.
Si può osservare o intendere questa solidarietà generazionale in diversi ambiti della vita sociale in Africa. La tendenza di molte famiglie africane ad avere tanti figli, per esempio, è illuminante. Per quanto vi siano opinioni divergenti al riguardo (…), non ci sono dubbi che il semplice fatto di fare figli sia un aspetto fondamentale per molti africani. La ragione profonda risiede nella volontà di una permanenza nella vita. (…). In questo senso, tutto nasce o sorge per dare vita e muore, scompare o si trasforma per continuare a dare vita. In questa prospettiva, siamo d'accordo con il filosofo keniano Ali Mazrui, quando afferma che gli africani hanno molti figli per diverse ragioni: i bambini sono visti come un'assicurazione per la vecchiaia, quando i genitori hanno bisogno di cure. E sono anche considerati come un passaporto per l'immortalità, in quanto, tradizionalmente, gli africani credono di sfuggire alla morte se il loro sangue continua a fluire nelle vene dei vivi. (…).
Quando qualcuno nasce, allora, viene a rafforzare la vita delle persone che, come è abitudine dire, “hanno visto prima il sole”, cioè coloro che sono venuti prima. Per questo motivo, tutta la famiglia fa festa per celebrare l'arrivo di questa nuova vita. E, quando qualcuno muore, rimane vivo nei suoi discendenti. (...).
In realtà, in molte culture bantu, quando un nonno o una nonna muoiono e nello stesso momento nasce un bambino, è comune dare al neonato il nome della persona scomparsa. Ciò significa che quella persona non se ne è andata, ma che è ancora presente in famiglia, nel clan. Un genitore che muore è ancora presente nella sua famiglia/comunità in altre maniere, tramite il suo sangue, che continua a fluire nelle vene dei discendenti, il nome dato a uno o più membri della famiglia e la sua appartenenza alla comunità dei “bázïmu” (persone con intelligenza ma senza vita, cioè defunti) (…). La “comunità” dei “bázïmu” è la comunità degli antenati. La persona morta si unisce a questa comunità, il cui scopo è quello di continuare a rafforzare tutta la grande comunità bantu (persone vive e morte).
In questo punto, la teologia cristiana e quella africana differiscono notevolmente. Nelle tradizioni africane, una persona non muore per andare in cielo e godere della vita eterna contemplando il volto di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, in compagnia dei suoi angeli... ma piuttosto per far parte della comunità degli antenati, con l'obiettivo di continuare a essere muntu per i bantu vivi, cioè per continuare a renderli forti e saldi, ossia per continuare a essere solidali con i vivi. Questi, a loro volta, riconoscono tale solidarietà e rispondono agli antenati in diversi modi (onorandoli; offrendo loro qualcosa di importante; dando il loro nome ai figli; ricorrendo a loro in diverse circostanze della vita, per chiedere la loro protezione contro le calamità, per la salute, ecc.). (…). Tuttavia, dopo molte generazioni, è possibile che un antenato non venga più onorato o riconosciuto, in quanto nessuno porta più il suo nome o in quanto, semplicemente, nessuno si ricorda più di lui o di lei: questa è la sua “morte storica”. Ciononostante, l'ancestrale è ancora nella “comunità” dei “bázïmu” in forma anonima.
In questa comunità bantu, gli ancestrali occupano un luogo privilegiato e, pertanto, sono un gradino sopra i vivi (non tutti quelli che sono morti sono considerati ancestrali o “ancestrali privilegiati”. Si considerano tali quelle persone morte che erano buone, solidali, generose, ecc. e che continuano a perseguire il bene per i propri discendenti vivi. In questo senso, si risolve il problema delle persone morte che non hanno procreato. Se una persona non ha avuto figli biologici, ma era una buona persona, la famiglia o la comunità ha sempre dei meccanismi per integrarla, considerandola tra i progenitori per il bene che ha fatto alla famiglia).
Nondimeno, quest'ordine gerarchico delle comunità è al di sotto di Dio (…). Indipendentemente dal mistero dell'Incarnazione (Dio che si fa umano), Dio (…) si presenta nel disvelamento dell'Essere, nella nostra coscienza di essere storicamente situati, nella quale soltanto è possibile pensare la trascendenza e arrivare a concepire l'essenza e l'esistenza di Dio (...). Dio, essendo il principio di tutto ciò che esiste, è allora al di sopra di tutto, anche degli antenati. Dopo di essi vengono gli anziani che sono in vita (…). Quindi i genitori. Poi i fratelli e le sorelle in ordine di anzianità. Infine, gli altri esseri animati (animali, insetti...) e inanimati (pietre, metalli...). E così si chiude l'ordine gerarchico della comunità bantu.
Il tema della gerarchia nelle società africane ha generato polemiche, spesso a causa dell'abuso di autorità in cui sono caduti alcuni politici o capi “tradizionali”. Ciononostante, il significato più profondo della gerarchia, nella cosmovisione africana, non è quello di dominare, escludere, sterminare, sfruttare, ecc., ma quello di una responsabilità, del compito di generare, curare, includere e trasmettere la vita.
Un esempio paradigmatico che chiarisce bene tale aspetto è la stessa etica africana: la relazione profondamente vitale tra i vivi e i morti. I bantu morti, ossia gli antenati, occupano un luogo privilegiato, in quanto sono al di sopra dei vivi, i quali, d'altro lato, si rivolgono ai primi per accrescere la loro forza vitale. Tuttavia, paradossalmente, gli ancestrali dipendono dai vivi, senza i quali viene meno la ragione della loro esistenza. (…).
Oltre a ciò, poiché nella visione del mondo africana, in generale, il principale obiettivo di vivere e morire è quello della preservazione e del rafforzamento della vita, se ne deduce che essere in vita è preferibile che essere morti. Ne deriva la «situazione paradossale che gli esseri umani vivi sono più felici dei “Bázïmu” (defunti), ma che i “Bázïmu” sono più potenti» (Kagame).
Tale paradosso si risolve, a mio giudizio, nel fatto che tutti i vivi sanno che la morte è inevitabile, cosicché (…) i vivi di oggi sono gli ancestrali di domani e gli antenati di oggi erano i vivi di ieri. Ciò aiuta i vivi – felici del fatto di essere in vita – a essere umili, a vivere come muntu e a prepararsi, senza angoscia, a continuare a esistere come muntu. (…). I vivi e i morti, allora, collaborano allo stesso scopo, che è quello di conservare, rafforzare e dare la vita. (…). Questa si presenta, pertanto, come la base dell'etica africana che, di fatto, come abbiamo visto, si incontra nei quattro principi etici di Ramose. In questo senso, tutta la normativa dei buoni atti deve essere in funzione del compito di generare, preservare, rafforzare, conservare e perpetuare la vita.
Da questo paradosso emergono due aspetti importanti: da un lato, il rispetto dell'ordine nella gerarchia sociale, che si relaziona all'accettazione della condizione e della posizione di una persona nella sua esistenza e, dall'altro lato, il riconoscimento dell'altro e la solidarietà nei suoi confronti, alla ricerca del rafforzamento mutuo. Entrambi gli aspetti sono legati all'interdipendenza e alla intersoggettività. Per quanto vi siano gerarchie, i più vecchi o più forti hanno bisogno dei bambini e dei più deboli, e viceversa. Aver bisogno dell'altro è riconoscere la sua importanza, il suo valore come essere umano. Di conseguenza, è affermare la soggettività dell'altro. (...).
Considerazioni finali
L'aforisma che concentra tutto il significado di ubuntu (“umuntu ngumuntu ngabantu”, vale a dire “la persona è una persona attraverso altre persone”) esprime principalmente due versanti semantici dell’ubuntu che si integrano tra loro: la realizzazione dell'essere umano attraverso il fatto di essere con l'Altro e l'umanità come un valore.
Essere con l'Altro è cogliere l'interdipendenza che ci costituisce come esseri umani. È essere coscienti della forza vitale che rende possibile la nostra permanenza nella vita. Come abbiamo visto, questo “Altro” non è dato appena dagli esseri umani, ma anche da altri esseri animati e inanimati. Tanto gli esseri umani quanto gli altri esseri non umani hanno la forza o sono con essa. L'interazione tra esseri umani e altri esseri o entità cosmiche è, a livello primordiale, finalizzata a generare, curare e trasmettere la vita.
Così, la vita è considerata, nella cosmovisione africana, come il valore più grande, il bene supremo. Quando diciamo che l’ubuntu è l'umanità come un valore, ci si riferisce principalmente al valore della vita. Poiché tutti gli altri valori che esprimono l'ubuntu – la generosità, la solidarietà, la responsabilità, la condivisione, l'empatia, la compassione, ecc. – rimangono senza alcun fondamento se non servono a generare più vita, vivere l'ubuntu significa, allora, vivere sempre con valori finalizzati ad accrescere tanto la propria vita quanto quella degli altri. È questo essere muntu, essere persona!
* Foto per gentile concessione dell'autore
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