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PRIMO PIANO. Siria: il fumo mediatico dell’Occidente

PRIMO PIANO. Siria: il fumo mediatico dell’Occidente

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 16 del 05/05/2018

Putroppo ci pensano loro. Ha provveduto l’Isis a ricordarci la realtà della guerra in Siria, facendo ritrovare nella sua ex capitale, Raqqa, una serie di fosse comuni con centinaia, forse migliaia, di corpi di civili massacrati. Nulla di straordinario: l’Associated Press, nel novembre scorso, aveva rivelato, con tanto di piantine, l’esistenza di 72 fosse comuni scavate dall’Isis nella parte irachena del Califfato, con almeno cinquemila (secondo altre stime, 15 mila) corpi di civili. Nell’uno come nell’altro caso la notizia è passata in modo assai fuggevole sui media occidentali. Così come scarsa eco ha avuto, a proposito di Raqqa, l’inchiesta della Bbc che dimostrava come, al momento di prendere la città, le Forze democratiche siriane (alleate degli Usa, le stesse che attaccano i curdi nel Nord della Siria insieme con l’esercito turco di Erdogan) avessero stipulato un accordo con i terroristi dell’Isis, permettendo a centinaia di miliziani di uscire dall’assedio, con armi bagagli e famiglie, per trasferirsi in altre zone ancora tenute dai loro compari.

Sulle stragi dell’Isis nei territori del Califfato erano state raccolte moltissime testimonianze. Ma per combatterlo seriamente ci sono voluti tre anni. Tre giorni invece sono bastati perché Usa, Francia e Regno Unito decidessero che la Siria meritava di essere bombardata perché Bashar al-Assad aveva usato le armi chimiche a Douma, una strage di cui ancora si attende dimostrazione e che, in ogni caso, avrebbe fatto molte meno vittime di quelle che si trovano in una qualunque fossa dell’Isis.

Uno dei problemi enormi nell’analisi dei tremendi avvenimenti siriani è la narrazione distorta che ne viene fatta in Occidente. Anche qui: nulla di nuovo. Si ripetono pari pari le tecniche usate nel 2003 per giustificare e incentivare l’invasione anglo-americana dell’Iraq, compresi gli intellettuali (ieri la Fallaci, oggi Saviano) folgorati sulla via di New York. C’è il tiranno cattivo (ieri Saddam, oggi Assad), c’è il fronte dei buoni (ieri la Coalition of the Willing di George Bush, oggi quella messa insieme da Barack Obama) e c’è soprattutto l’esportazione della libertà e della democrazia. Esportazione che viene applicata solo ai regimi non amici o nemici, mentre ai regimi altrettanto non democratici ma amici concediamo favori, prebende e armi. Ma non importa: l’offensiva della bontà dev’essere adeguatamente sostenuta.

La stampa prontamente si adegua: il New York Times, per dirne solo una, pubblica un’inchiesta in cui sostiene che l’Isis si finanziava solo con la raccolta delle tasse, mentre persino Hillary Clinton, in una delle mail che le furono hackerate durante la campagna elettorale per le presidenziali, ammetteva: «Dobbiamo impiegare tutto il nostro peso diplomatico e tutti i mezzi dell’intelligence per esercitare una pressione sui Governi dell’Arabia Saudita e del Qatar che continuano a fornire finanziamenti e mezzi all’Isis e agli altri gruppi radicali sunniti della regione». Triste, per il giornale che nel 1971 rivelò i Pentagon Papers sulla guerra nel Vietnam.

L’enorme cortina fumogena impedisce di capire la vera natura di questa guerra orrenda. Che non è una lotta tra il bene e il male ma semmai lo è tra due beni o tra due mali. Perché le ragioni, comprensibili e condivisibili, della protesta iniziale del 2011 furono ben presto superate dalla reazione ottusa e violenta di Assad e dall’irruzione del fondamentalismo islamico finanziato dai Paesi del Golfo Persico, che fece la sua comparsa non dopo, come a molti piace dire, ma subito. Come ebbe a scrivere Elizabeth Dickinson, ricercatrice della Brookings Institution, «fin dai primi giorni delle proteste in Siria i donatori basati in Kuwait hanno lavorato per convincere i siriani a prendere le armi… Oggi abbiamo le prove che donatori basati in Kuwait hanno sostenuto gruppi ribelli che hanno commesso atrocità e sono direttamente legati ad Al Qaeda». Perché Assad e il suo esercito sono stati salvati dai russi nel 2015 ma non avrebbero, prima, resistito per quattro anni contro tutti (i Paesi ricchissimi del golfo Persico, armati e sostenuti in pratica dall’intero Occidente, più la Turchia e Israele) se non avessero avuto con sé la maggioranza della popolazione siriana. Perché la nascita improvvisa dell’Isis, ovvero di un vero esercito armato e organizzato di tutto punto, e l’afflusso di decine di migliaia di foreign fighters non sarebbero potuti avvenire senza che qualcuno mettesse denaro e cervello. Perché alla fin fine siamo sempre lì, a giustificare uno zig zag tra realismo e moralismo che non sta più in piedi. E la Siria del governo della famiglia Assad, nel 2011, non era certo il Paese peggiore del Medio Oriente o del Nord Africa.

È chiaro che dopo questi sette anni di reciproco massacro Assad non potrà più essere l’interlocutore di una comunità internazionale che lo ha messo all’indice. È anzi probabile che la sua uscita di scena, con garanzia di esilio dorato in un Paese amico, sarà una delle carte che la Russia, ora impigliata nella costruzione di un dopoguerra, giocherà al tavolo delle trattative internazionali al quale prima o poi tutti dovranno sedersi. Ma questo, è chiaro, potrà avvenire solo quando la vittoria dell’asse Siria-Russia- Iran, ormai evidente nella sostanza politica delle cose, sarà certificata anche sul campo.

Fallito il progetto di smembrare la Siria di Assad e l’Iraq filo-iraniano costruendo all’interno dei loro territori un protettorato americo- saudita (questo era il Califfato), ora l’Occidente è un bivio. Può apparecchiare un nuovo Afghanistan per la Russia di Putin, impantanandola in Siria in un conflitto senza fine come accadde all’Urss di Brezhnev. O può accettare la sconfitta militare cercando di vincere la pace per via diplomatica, cioè negoziando una soluzione che avvii il Paese verso le riforme che venivano discusse già nel 2011. La prima strada, come dimostrano anche i recenti bombardamenti, potrebbe forse mettere in difficoltà la Russia ma di certo prolungherebbe all’infinito le sofferenze dei cristiani. La seconda imporrebbe di accettare una sconfitta nell’immediato per provare a costruire una vittoria nel futuro. Difficile. Ma è in momenti come questi che si vede la qualità di una leadership.

* Fulvio Scaglione, già vicedirettore di Famiglia Cristiana nonché responsabile dell’edizione on-line del settimanale, collabora con diverse riviste e scrive sul suo blog www.fulvioscaglione.com.

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