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L’Isolotto e la memoria del Sessantotto

L’Isolotto e la memoria del Sessantotto

Tratto da: Adista Documenti n° 5 del 09/02/2019

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In questo intervento mi propongo di fare alcune considerazioni su come la Comunità dell’Isolotto ha coltivato la sua memoria della frattura del Sessantotto: un momento costituente per una comunità che pure aveva già alle spalle una storia pastorale e politica. Prima di entrare nel merito, vorrei osservare che una delle caratteristiche di questo cinquantenario è stata la tendenza a recuperare un’immagine complessivamente positiva del Sessantotto, dopo gli attacchi violenti della fine degli anni Novanta. In questo contesto si è parlato, più che in passato, anche dei cattolici, con alcune operazioni tese a mettere in secondo piano le esperienze della sinistra post-conciliare per fare posto, per esempio, a Gioventù studentesca. Ecco allora che mi sembra particolarmente importante tornare a occuparsi dell’Isolotto, non solamente per la sua connessione evidente con le parole d’ordine di una certa visione del post-Concilio, ma anche perché l’Isolotto è stato un laboratorio della memoria del Sessantotto, già a partire dai primi anni Settanta e fino alla più recente messa a disposizione di un importante archivio storico sulle Cdb in Italia (si veda la guida Tracce di percorsi comunitari, a cura di Barbara Grazzini che offre una mappatura degli archivi delle Cdb in Italia). Come cercherò di mostrare, la comunità ha riflettuto e scritto molto sul proprio percorso, facendo dei decennali un’occasione importante per tirare di volta in volta nuove conclusioni. Si tratta quindi di una memoria dinamica, come del resto lo è sempre la memoria, ma che presenta anche una sua organicità. Proverò a elencare i tratti principali.

Le prime riflessioni

I primi documenti che ho preso in esame risalgono agli anni Settanta. Dopo l’uscita, a breve distanza, dei due famosi testi editi da Laterza (Isolotto 1954/1969 e L’Isolotto sotto processo), nel 1973 viene pubblicato Liberarsi e liberare, che riproduce la documentazione delle assemblee svoltesi dopo la conclusione del processo e dedicate alla discussione sul futuro della comunità. L’introduzione è di Marco Bisceglia. Negli interventi si parla del cambio di strategia della Chiesa, che dopo il tentativo di repressione della comunità nel 1968 sarebbe passata alla strategia del «soffocamento lento», lasciando la comunità nel silenzio e nell’isolamento e procedendo alla «restaurazione» della parrocchia. Enzo Mazzi, che dell’Isolotto è ancora la personalità di maggiore spicco, ricorda che la comunità non si può più considerare come un passaggio provvisorio in vista di un inserimento nelle lotte sociali, ma, nello stesso tempo, invita ad andare avanti senza sovrapporsi alle organizzazioni del movimento operaio. Nel corso dei lavori assembleari si stabilisce che si proseguirà con la messa in piazza e con l’assemblea del mercoledì. Insomma, sono i primi passaggi di una comunità che ha iniziato ad assumere una nuova fisionomia, la stessa che cerca di condividere a livello nazionale nella rete delle Cdb. Per trovare un primo vero e proprio bilancio, anche in relazione al Sessantotto, bisogna arrivare al primo decennale. Relativamente alle celebrazioni del ventennale, è stato scritto che il Sessantotto fu riletto nella memoria pubblica in maniera più articolata, ma con un esercizio retorico volto a tracciare una divisione netta tra un Sessantotto “buono” – quella della modernizzazione dei costumi – e uno “cattivo”, quello politico, che aveva portato al terrorismo. Ecco, niente del genere è ravvisabile nell’articolo “La comunità dell’Isolotto venti anni dopo”, pubblicato da Mazzi sulla rivista La Sinistra. L’autore scrive che «la riappropriazione dal basso della memoria storica costituisce la stella polare del nostro orientamento esistenziale». Il concetto di “riappropriazione” viene esteso alla Parola, ai sacramenti, all’ecclesia come comunità. È interessante notare che il discorso di Mazzi si muove ancora pienamente nella cornice dell’emancipazione operaia e della realizzazione di una società socialista. Dal punto di vista strettamente politico è invece il decennale successivo a segnare una discontinuità.

Nel 1998 siamo ormai nel pieno degli attacchi alla memoria dell’antifascismo e alla Resistenza, dopo la fine della guerra fredda e Mani Pulite. Mentre il Sessantotto è di nuovo sotto accusa, l’Isolotto continua a riflettere su se stesso in un libro uscito per la Lef, Oltre i confini, che contiene l’ottima prefazione di Michele Ranchetti. Nell’introduzione si evidenziano i tratti di crisi del tempo presente, dominato dall’ideologia individualistica e neo-liberista, ma anche i successi ottenuti delle comunità, per esempio per il ruolo che ha avuto Incontro a Gesù (il “catechismo” dell’Isolotto) nella riforma catechetica nazionale. Nel testo che chiude il libro, a firma della comunità, si ribadisce che «il tempo dell’utopia non corrisponde a quello della storia». Del biennio ‘68-‘69 si legge: «Noi quelli anni li abbiamo vissuti come segni di un processo di trasformazione dal basso, un immenso tentativo di unificazione del mondo nel segno della speranza». Colpiscono le parole con le quali si propone anche un primo ripensamento storico-critico delle origini: «Riponevamo forse troppa fiducia nel fatto che il movimento operaio avesse in sé le potenzialità per alimentare i movimenti di trasformazione. La sensazione è che alla fine non abbiamo potuto partecipare fino in fondo né ai processi di trasformazione della Chiesa, perché lo ritenevamo insufficiente, né a quelli della società, perché così la nostra identità l’avevamo persa». Potrei dilungarmi su questo punto, che già Girardi nel 1982 individuava come il limite principale della sinistra cattolica post-conciliare, cioè la paura dell’integrismo che, a suo avviso, avrebbe impedito alle Comunità di Base di portare un contributo qualitativo, e non solo quantitativo, al movimento operaio italiano. Ma arriviamo ai tempi più recenti.

La memoria negli anni Duemila

I quarant’anni dal Sessantotto sono stati celebrati piuttosto in sordina e in maniera abbastanza ripetitiva rispetto agli schemi retorici che vi ho sopra descritto. Ancora una volta, questo discorso non vale per l’Isolotto, che già nel 2000 pubblica un libretto, Il mio ’68, che contiene le testimonianze dei suoi attivisti. La premessa è di Lidia Menapace. Le conclusioni sono un racconto di Mazzi che presenta alcuni concetti sui quali tornerà in Cristianesimo ribelle (2008) e in una serie di articoli usciti nel corso del quarantennale. Provo a elencarli in sintesi: il parto dell’Isolotto come figlio del Sessantotto; le comunità come “segno” e “profezia” di un cristianesimo diverso, non più comandato dal sacerdozio e che non esclude più le donne; la repressione di fronte a un’esperienza che ha fatto paura per il suo essere avanguardia e che è stata colpita, per questo motivo, da un «intreccio perverso fatto di massoneria pidduista, servizi segreti, Gladio, neofascismo e mafia». Mazzi ricorda che la magistratura non ha mai inquisito i neofascisti che attaccarono l’Isolotto, mentre si è ricorso alle stragi per fermare il movimento. Scrive Mazzi: «si era venuti a sapere perfino che bruciavano per troppo intensità i collegamenti fra il Comando della Nato e i comandi territoriali dell’Esercito a causa delle vicende dell’Isolotto. Si temeva un cedimento del baluardo anticomunista costituto dalla Chiesa». Il discorso prosegue nella critica alla storiografia dominante, che avrebbe rappresentato un solo Sessantotto, ignorando per esempio, i cattolici di base. Così come sarebbe stato sottovalutato il rapporto locale/globale (che invece era distintivo dell’Isolotto) e che dovrebbe spingere (tra gli altri fattori) a non considerare il “dissenso cattolico” come separato dal Sessantotto tutto. Per Mazzi, la speranza, la cui gestazione planetaria è stata l’anima del Sessantotto globale, non è morta ma rimane come forma di “segno” nella comunità, la cui storia non è ancora conclusa.

Come ho accennato all’inizio, in tempi ancora più recenti Mazzi e la comunità sono tornati a battere sul tasto dell’importanza della memoria come fattore di resistenza culturale contro l’omologazione neoliberista (si veda il saggio “La frontiera della memoria” in Il processo dell’Isolotto, edito da manifestolibri nel 2011, l’anno della scomparsa di don Enzo). Sono nati da questa convinzione anche l’autobiografia collettiva a firma di Sergio Gomiti, L’Isolotto una comunità tra Vangelo e diritto canonico e il lavoro per la valorizzazione degli archivi. Negli ultimi dieci anni si è accentuata anche la consapevolezza della crisi complessiva che ha travolto sinistra e cattolicesimo sociale. E su questo punto vorrei spendere alcune parole di conclusione. In questa breve relazione spero di essere riuscito almeno a indicare gli elementi principali della memoria dinamica del Sessantotto elaborata all’Isolotto: la consapevolezza del ruolo di “avanguardia” della comunità; la percezione di essere stato per questo oggetto di una repressione ecclesiastica e politica; la graduale presa di coscienza dei limiti dell’esperienza comunitaria e gli sforzi per implementare il deposito originario dal punto di vista teorico e pratico; l’importanza crescente attribuita alla conservazione della memoria in direzione ostinata e contraria rispetto alle dinamiche della memoria pubblica del Sessantotto, e con alcune intuizioni interpretative sul rapporto tra “contestazione ecclesiale” e Sessantotto che solo recentemente sono state accolte pienamente anche dalla storiografia.

È chiaro che agli occhi dello storico i testi che ho analizzato sono da leggere come frammenti di un lungo processo di autorappresentazione e come tali vanno anche decostruiti nel quadro di una comunità in cui sono confluite più generazioni, ma che proprio dopo i “lunghi anni Sessanta” ha incontrato difficoltà crescenti di ricambio generazionale. Solo in questo modo penso che sia possibile anche provare a interrogarsi sulla crisi della sinistra cattolica di base e, più in generale, sui caratteri della fine della parabola politica del Novecento, al cui interno si inserisce pienamente anche la storia dell’Isolotto. La comunità si è sempre percepita come un “segno” in un mondo molto più ampio del quartiere, della città e della diocesi. Il fatto stesso oggi di essere qui a discutere del suo passato e dalla sua memoria, liberamente e senza preconcetti, non è solo una bella opportunità, ma anche una testimonianza cha ha un valore in quanto tale.

Foto: Archivio Comunità di base dell'Isolotto

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