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PRIMO PIANO. Ma è vicina ’sta Cina?

PRIMO PIANO. Ma è vicina ’sta Cina?

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 37 del 24/10/2020

Nelle ultime fasi di una campagna elettorale sempre più becera e punteggiata da violenze di strada, se non di piazza, due sono gli spauracchi stranieri sbandierati dai contendenti. I democratici sventolano l’immagine della Russia di Putin e dei suoi intrallazzi bellici e informatici, mentre Trump ha ripreso ad agitare l’immagine del pericolo giallo, del virus cinese, della minaccia economica e militare della Cina di un presidente dal nome impronunciabile. Non è colpa di Trump se i cinesi hanno nomi difficili (va meglio a Biden, perché “Putin” lo conoscono e capiscono tutti).

Il fatto è che Xi Jinping, segretario generale del PC cinese e presidente della Repubblica Popolare, con la figliola laureata in incognito ad Harvard e attualmente, sembra, di nuovo sul suolo americano ...a seconda dei momenti è un amicone per Trump, con cui giocare a tresette all’osteria, e altre volte la mente malvagia dietro un progetto di dominio mondiale, che prevede l’asservimento degli USA per mezzo della vittoria elettorale dei democratici. Perché un tale uso a fisarmonica della minaccia cinese? Dipende solo dagli alti e bassi della campagna elettorale o c’è un collegamento su quanto e quando convenga all’Occidente temere la vicinanza cinese?

In primo luogo sgombriamo il tavolo dalla questione delle persecuzioni di minoranze etnico religiose. Se il governo cinese caccia in campi di concentramento gli Uiguri o gli appartenenti ad altri gruppi più piccoli, specie se turcofoni e islamici, la nostra diplomazia non fa una piega. Nonostante le petizioni di principio, sul nostro pianeta ciascuno è libero di sopprimere le proprie minoranze, come mostra l’odissea senza fine dei Rohingya – tanto per fare un esempio. A meno che quelle sofferenze non servano a giustificare interventi politico-militari, magari mascherati da motivi umanitari.

Nel passato recente tutta una fetta del nostro capitalismo, delocalizzando la produzione in Cina, ha incrementato enormemente i propri profitti, ma ha anche indebolito la produttività soprattutto negli Usa e contribuito a incrementare di fatto il potere cinese. Ma la Cina, anche per poter continuare a produrre per noi, ha un bisogno disperato di energia e quindi, per qualche decennio ancora, di petrolio. Che deve importare, o dal mare o per via di terra. Oppure deve trovarlo, magari al largo della propria costa. Dove pure c’è ancora parecchio pesce, che serve a nutrire una popolazione in crescita. Deve quindi controllare e difendere il Mar della Cina, attraverso il quale devono passare le petroliere che le arrivano dal Golfo Persico, dall’America Latina e persino dal Canada, ma le cui ricchezze e il cui spazio vitale sono oggetto degli interessi di molti.

Il fatto è che, dalla fine della seconda guerra mondiale, con la perdita dell’Indocina e degli ultimi brandelli degli imperi europei, a contenere l’espansione cinese sono rimasti in pratica soltanto i nostri avamposti diretti nipponici, sudcoreani e taiwanesi, con l’alleanza un po’ pelosa delle Filippine (i cui dittatori o presidenti amici nostri sono quindi intoccabili) e dell’Indonesia, e con l’avvicinamento recente di Malesia, Brunei e persino del Vietnam ex nemico.

Ma farebbe comodo alla Cina approvvigionarsi anche direttamente dal suo lato occidentale, dove viene a strusciare contro altre zone calde. Il Tibet lo ha fagocitato, ma l’India non molla e più a occidente i giochi non sono facili nello squilibrio precario tra Russia, repubbliche ex sovietiche, ora obiettivo, specialmente se islamiche, della penetrazione turca verso oriente, il blocco iraniano, con la sua penetrazione verso occidente e verso il Mediterraneo ambito da molti, la realtà pakistana... E poi c’è l’Africa, il cui mercato immenso da sempre interessa alla Cina, almeno da quando il grande ammiraglio Zheng He (1371- 1433), eunuco di corte e musulmano, garantiva i collegamenti navali con la sua costa orientale. Purtroppo, però, nonostante il crollo sulla carta delle nostre politiche coloniali ottocentesche, il collasso del sistema sovietico e la conseguente battuta d’arresto della penetrazione russa, sostituita da un’inarrestabile penetrazione islamica, l’Africa interessa pure all’Occidente e agli Usa, in quanto fonte di materie prime (come funzionerebbero i nostri telefonini senza i metalli preziosi africani?) e sbocco commerciale, dai trattori alle armi al latte in polvere della Nestlè. E lasciamo perdere i tentativi di penetrazione cinese in America Latina, attraverso vari movimenti di liberazione contro i governi spesso dittatoriali da noi sostenuti per garantire il nostro controllo di quello che ora chiamano “estero vicino”, cioè una zona d’influenza al di fuori dei confini, ma nell’immediata vicinanza di una superpotenza.

Nel nostro stato di global warfare, quindi, in cui la Russia postsovietica applica da manuale la “dottrina Gerasimov” e con le sue hybrid wars si annette la Crimea e protegge il semiautonomo Donbass a est dell’Ucraina, mentre si garantisce e difende le proprie basi in Siria, si intromette in Libia, sfrutta in qualche modo la primavera araba e, insomma, si riafferma sullo scacchiere mondiale a scapito della presenza statunitense; ci mancava solo la crescita cinese.

E una crescita, poi, spudoratamente opportunistica. “L’Arte della Guerra”, manuale attribuito a Sun Tzu (generale e filosofo taoista vissuto fra VI e V secolo aEC), afferma chiaramente che le guerre si vincono con l’inganno. Il suo insegnamento è tanto moderno da avere ispirato molti, da Mao a Colin Powell, e da far parte dei testi studiati dagli ufficiali dei marines. Quindi dobbiamo fermarli, ’sti Cinesi! Come osa il Vaticano, ammaccato dagli scandali finanziari e con un papa sudamericano, cercare una via di dialogo, magari per sistemare una buona volta la questione dolorosissima delle due chiese cinesi?

Il saggio Sun Tzu dice che il generale migliore vince senza combattere. Staremo a vedere.  

* Già docente di Storia delle origini cristiane all’Università di Torino e di Storia del cristianesimo e delle chiese all’Università di Udine, attualmente Edmondo Lupieri ricopre la cattedra di Teologia intitolata al card. John Cody presso la Loyola University di Chicago

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