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Rosario Livatino: martire di mafia in odio al Vangelo della giustizia

Rosario Livatino: martire di mafia in odio al Vangelo della giustizia

ROMA-ADISTA.

La notizia che il giudice Rosario Livatino - assassinato ad Agrigento il 21 settembre 1990, all'età di 37 anni, dai mafiosi della "'Stidda", sarà proclamato “beato” dalla Chiesa cattolica -  comporta numerose implicazioni che possono sfuggire al lettore-medio. Ne esplicito alcune più rilevanti.

Una prima considerazione riguarda il motivo fondamentale della decisione papale: Livatino è stato assassinato “in odium fidei”. In questa motivazione non c’è nulla di scontato perché, sino all’analoga proclamazione di don Pino Puglisi, prevaleva nella  teologia ufficiale l’opinione che chi cade nella lotta per la legalità democratica non vada considerato un ‘martire’ cristiano. Sarebbe, se mai, un martire ‘civile’ e , come tale, non meritevole degli altari. Indubbiamente se la fede è accettazione di una serie di dogmi e di riti, non si può dire che i mafiosi (ufficialmente credenti e praticanti) lo abbiano assassinato “per odio della fede”. Ma se la fede, invece, è accettazione del progetto evangelico del “regno di Dio”  - cioè dell’instaurazione di un nuovo modo di vivere in questo  mondo : in giustizia e libertà, in fraternità e compassione, in solidarietà con tutti i viventi – allora chi cade nella battaglia a favore di questi ‘valori’, lo sappia o non lo sappia, è un martire della (vera) fede.

Una seconda considerazione: il “beato” Livatino non era un integralista cattolico, ma un tenace e rigoroso difensore dell’autonomia della sfera civile e politica rispetto alla sfera ecclesiale. Come è messo bene in luce anche in una delle più recenti e approfondite monografie del suo pensiero (“Rosario Livatino. Identità, martirio e magistero” di don Pio Sirna, edito da Il pozzo di Giacobbe), in più di un’occasione egli “smentisce l’opportunistica opposizione tra Fede e Diritto/Ragione e ne dimostra la proficua connessione/collaborazione”, convinto che “alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili”.

Una terza considerazione è suggerita dalla lettura dei suoi diari intimi. Questo giovane magistrato, trucidato a neppure quarant’anni, non ha avuto una relazione con Dio ‘esemplare’ nel senso di lineare e progressiva, pacifica e consolatoria. Quando le minacce mafiose si fanno sempre più pressanti e l’ambiente borghese che lo circonda sempre più ostile, egli non reagisce da superuomo né da supersanto. “Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni” scrive nel giugno del 1984. E per due anni si astiene dalla comunione eucaristica in preda allo sconforto, anzi all’angoscia. Ha paura per sé e, ancor di più, del dolore che la sua morte possa arrecare ai due anziani genitori che non hanno altri figli.

Come in altre simili occasioni, è inevitabile l’interrogativo: elevare un personaggio agli onori degli altari è opportuno? Tutto dipende dalla lettura che ciascuna comunità cattolica, anzi ciascun cattolico, fa dell’evento. Per alcuni sarà l’occasione di un alibi provvidenziale: Livatino era un santo, dunque io – che sono un poveruomo come tanti – non sono obbligato a esercitare il mestiere di magistrato o di avvocato, di politico o di prete, in maniera eroica. Sarà abbastanza che mi barcameno tra il bianco e il nero, senza esagerare nei compromessi quotidiani con i princìpi della mia coscienza. Ma per altri potrebbe essere un monito illuminante: impegnarsi nella professione con trasparenza e dedizione per il cristiano non è un optional lecito, ma addirittura un imperativo morale. La sequela spirituale di Gesù di Nazareth non esime dalla correttezza deontologica cui è obbligato ogni altro cittadino; anzi costituisce una ragione in più per coltivarla. Il bigottismo, da sempre ridicolo agli occhi dei ‘laici’, si rivela adesso anche come ‘peccato’ agli occhi della Chiesa.

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