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Alla riscoperta dei sensi. Un libro di Paolo Scquizzato sulla «mistica della carne»

Alla riscoperta dei sensi. Un libro di Paolo Scquizzato sulla «mistica della carne»

Tratto da: Adista Documenti n° 39 del 19/11/2022

DOC-3219. ROMA-ADISTA. Qui e ora, esattamente in questo istante. E, poi, istante dopo istante, immersi nel respiro, sentendo l’aria che entra nelle narici, scende lungo la trachea, quindi nei bronchi e poi più giù, fino all’addome, per poi uscire, senza fretta. È da qui, da questo respiro definito come «il maestro dei nostri sensi», come ciò che ci permette di ritrovare il tempo per vivere con piena consapevolezza, che prende avvio quell’esplorazione del corpo come «grammatica di Dio» – secondo la bella espressione di José Tolentino de Mendonça – a cui è dedicato il libro di Paolo Scquizzato I cinque sensi. Per una mistica della carne (Edizioni Appunti di Viaggio, pp. 190, 22 euro; www.appuntidiviaggio.it).

Prete torinese della diocesi di Pinerolo, formatore spirituale – conduce, tra l’altro, gruppi di Meditazione Silenziosa – e una delle voci di spicco del post-teismo in Italia, l’autore procede dunque in direzione contraria rispetto a quella, seguita dal cristianesimo fin dai suoi albori, ostile alla materia, alla carne, al corpo, ai nostri sensi sistematicamente negati, trascurati e traditi. E, d’altra parte, scompostamente esaltati, e al tempo stesso soffocati dall’imperativo della velocità a tutti i costi, e dunque ancora una volta traditi, dal modello di civiltà occidentale.

Eppure siamo carne, evidenzia Scquizzato, «siamo i nostri sensi», ed è solo avendone cura – affinando la nostra capacità sensoriale – che potremo intraprendere in maniera consapevole il «lungo viaggio della nascita di sé», considerando che, come «ostetrici della nostra vita», «dobbiamo aiutarci a venire al mondo in ogni istante». E questa è anche l’unica strada, in un’ottica chiaramente post-teista, per fare esperienza di ciò che viene chiamato Dio: se il divino e l’umano non sono due regni separati, ma una sola realtà continua, quanto più sapremo farci profondamente e pienamente umani tanto più il divino «si rivelerà in noi e attraverso di noi». È allora questa arte del sentire, e questa «mistica dell’istante», che Scquizzato propone ai lettori, offrendo loro – insieme alla lettura dei passi evangelici che possono maggiormente aiutare a comprenderne il significato – anche la preziosa risorsa di pratiche corporee relative a ciascuno dei cinque sensi. Un viaggio che non può non partire dal tatto, il primo senso che si sviluppa nel feto e quello che il neonato – accolto da due mani nella sua entrata in scena nel mondo – utilizzerà per fare esperienza di ciò che lo circonda. Cosicché, da allora e per tutta la nostra avventura umana, «tutte le volte in cui non troveremo due mani che ci accolgono e che ci sostengono», avvertiremo «un profondo senso d’angoscia, di isolamento, di abbandono». E «c’è da sperare che vi siano ancora due mani ad accompagnarci sino a quella porta che si aprirà per compiere l’ultimo viaggio».

Straordinariamente precoce è anche, nel feto, la formazione dell’orecchio interno, benché, ancora prima che questo faccia la sua comparsa, le nostre cellule potevano già cogliere la voce materna mediante la vibrazione delle loro membrane. Allo stesso modo, scrive Scquizzato, siamo chiamati ad «affinare un sentire che vada al di là dell’apparato uditivo», come pure prendere consapevolezza che anche l’ascolto – il «percepire il non detto, il non scontato, il non evidente» – è un’arte da imparare e che il modo migliore per farlo è, prima di tutto, «facendo silenzio», attraverso la meditazione: «lasciare accadere qualcosa dentro di me quando non ci sono più io».

E come sentire è diverso da ascoltare, così guardare è differente da vedere: tutto ci passa sotto gli occhi, ma «non cogliamo la verità di ciò che vediamo». Del resto, evidenzia l’autore, la vista «è fallace, ingenua, spregiudicata, traditrice e ingannatrice, perché è più facile fermarsi alla superficie delle cose, accontentarsi delle apparenze, vivere di riverberi». Ed è per questo che la vista ha bisogno, oltre che di luce, di «intelligenza e cuore», di contemplazione e di stupore.

E, infine, il gusto e l’olfatto, i due sensi che attivano le zone più primitive del nostro cervello, con il primo chiamato ad allearsi con altri elementi, legandosi per esempio inscindibilmente al secondo, per poter essere percepito nella sua pienezza.

Di gusto si parla tanto, e in continuazione, in relazione all’assunzione di cibo, che è prima di tutto un atto comunitario, un segno di amicizia, di celebrazione, di festa, di gioia. Ma, più che gustare, oggi trangugiamo, fagocitiamo, buttiamo giù «come se la quantità potesse bastare», inconsapevoli che l’abbondanza, riguardo al cibo e più in generale allo stile di vita, «è uno stato confusionale, indifferenziato, dove tutto si mescola», mentre «l’Oriente ci insegna che la vera libertà risiede nella possibilità di rinunciare, di dire di no».

Quanto all’olfatto, se, da una parte, risulta tra i sensi quello più animale, più primitivo, dall’altra, nella sua immaterialità, è anche il più spirituale. Come, tra l’altro, indica il brano evangelico dell’unzione di Betania, con il suo straordinario messaggio: «c’è solo un balsamo in grado di fare uscire dal sepolcro, quello usato in maniera simbolica da questa donna, che è il balsamo dell’amore. L’amore ha il potere di far uscire dal sepolcro».

Di seguito il testo dell’introduzione di Paolo Scquizzato.

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