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Caso Rupnik e non solo: il comunicato del Coordinamento #ItalyChurchToo

Caso Rupnik e non solo: il comunicato del Coordinamento #ItalyChurchToo

Riguardo al caso del gesuita p. Marko Rupnik, colpevole di abusi psicologici e sessuali su numerose consacrate a partire dagli anni '90, e al sistema di coperture che ha permesso al caso di restare nell'ombra per lunghisimo tempo, il Coordinamento contro gli abusi nella Chiesa, del quale Adista fa parte, ha diffuso il comunicato che segue.  

 

R come Rupnik, come Ribes? R come “Rape Culture”

 

Il caso recentemente emerso degli abusi perpetrati dal gesuita p. Marko Rupnik non rappresenta nulla di nuovo in ambito ecclesiastico. L'unico elemento di novità è costituito dalla notorietà del soggetto, tenuto in altissima considerazione e venerato tanto da raggiungere una sorta di intoccabilità. Per il resto, le dinamiche emerse non mostrano altro che un sistema consolidato:

- di reti di potere, rinsaldate dall’appartenenza a un grande Ordine religioso;

- di perversione del potere, che usa il sacro per mistificare;

- di massimo controllo sulle vittime e di assoggettamento del loro pensiero, delle azioni e delle scelte;

- di coperture rese possibili da un meccanismo di opacità e omertà, dal culto idolatrico della personalità e dalla mancanza di credibilità attribuita alle vittime per il solo fatto di essere donne adulte.

La stessa richiesta della Compagnia di Gesù alle vittime di farsi avanti, dopo un’altalena di affermazioni contraddittorie e tutt’altro che trasparenti, risponde a una logica di svalutazione delle persone coinvolte, la cui sfiducia nell’istituzione sarebbe più che legittima.

Il singolo caso, nei suoi elementi strutturali, assomiglia a tanti altri: uno per tutti, impressionante anche per l’identico contesto artistico, è quello del francese p. Louis Ribes, il “Picasso della Chiesa”, accusato di aver abusato sessualmente di decine di bambini e bambine, dopo averli convinti a posare per le sue opere.

Occorre tuttavia superare la frammentarietà dei singoli casi, soprattutto per risalire il fiume e individuare e riconoscere le radici strutturali degli abusi, frutto di una cultura pervasiva ben salda nella Chiesa cattolica: 

- una teologia del ministero ordinato che divinizza il prete (alter Christus, ipse Christus), ponendolo in una posizione asimmetrica di superiorità e persino di differenza d'essenza (cf. LG 10) rispetto al resto del popolo cattolico, in particolare rispetto alle donne. Questa posizione apre la strada ad abusi affettivi, di potere, psicologici, spirituali, sessuali e patrimoniali, e consente al prete predatore, con il suo corredo di mistificazioni teologiche tese a legittimare i suoi atti, di manipolare le vittime e di risultare più credibile della vittima che lo denuncia.

- La negazione e l'annullamento della dimensione sessuale con ricadute devastanti sulla vita dei preti; esiste nel clero un analfabetismo affettivo e relazionale di gravissimo livello, in contraddizione con il ruolo di guida che ricopre di fatto perfino nelle relazioni intime dei fedeli. Il celibato ministeriale obbligatorio, spesso unicamente di facciata, è funzionale tuttavia ad avvalorare la qualità ascetica e superiore del prete stesso; la sessualità umana, compressa e repressa, ne viene patologizzata e pervertita, privata spesso della dimensione relazionale-empatica e trasformata così in puro strumento di gratificazione autoreferenziale e strumento di controllo e potere sulle persone.

- Una svalutazione delle donne, ancora trattate, nella pratica e nonostante proclami di ogni sorta, come esseri di serie B. Una svalutazione veicolata tramite una mariologia mistificante, strumentalmente tesa a trasmettere un ideale femminile di superiorità fittizia, docilità e obbedienza, che nega in definitiva un piano di parità con gli uomini; una svalutazione che va ricondotta alla «logica del dominio del chierico maschio “ontologicamente superiore”» (cfr. comunicato del 22/12 del gruppo “Re-in-surrezione”).

- Una vita consacrata femminile nella quale difficilmente le capacità intellettuali sono fatte crescere, i talenti alimentati, le competenze valorizzate, a tutto favore di una permanenza delle religiose in un ruolo di subalternità, non di rado ben poco rispettoso della dignità e dell'autonomia della persona.

- Una permanente tutela dell'istituzione a fronte del diritto alla giustizia, alla verità e alla dignità delle vittime e dei sopravvissuti/e ad abusi perpetrati dal clero, che si tratti di bambini, di donne o di persone in situazione di vulnerabilità; una tutela dell’istituzione che si nutre di omertà, di mancanza di trasparenza, di conservazione di equilibri di potere, di ritorsioni; che esprime viltà, disonestà intellettuale e quanto di più lontano dal messaggio evangelico; che porta a una rivittimizzazione delle persone colpite, le quali si sentono tradite per la seconda volta da quell'istituzione che hanno chiamato “madre” e da quegli uomini che hanno chiamato “padre”.

- Una giustizia canonica opaca e “personalizzabile” che si flette e si torce sempre e solo in difesa dell'imputato e a misura della sua grandezza e fama; che non conosce trasparenza né comunicazione pubblica e si aggrappa alla decadenza dei termini per salvare il colpevole; che nel nostro Paese, svincolata da qualsivoglia obbligo giuridico di denuncia alla giustizia laica, spesso abbandona la vittima al suo destino, nell’impunità consentita dall'assenza totale di vigilanza e attenzione dello Stato nei confronti di ogni tipo di abuso perpetuato nella Chiesa.

Le dinamiche dolorosamente ma opportunamente narrate dalla stampa, cui va ascritto il merito di aver fatto emergere il caso Rupnik, non hanno trovato nessuno di noi impreparato. L'abuso affettivo, di potere, psicologico, spirituale, sessuale, patrimoniale è insito nella cultura stessa, autoreferenziale e autoprotettiva, dell'istituzione, rimasta essenzialmente clericocentrica nonostante il Concilio Vaticano II.

È ora che la base cattolica e la cittadinanza aprano gli occhi e gridino il loro “basta!” davanti a questo sfiguramento della dignità e dei diritti umani; che le vittime possano prendere la parola e testimoniare apertamente, senza timore di non essere credute o di ritorsioni, questo scempio fatto in nome del Vangelo; che le donne nella vita consacrata pretendano strumenti di emancipazione, formazione, discernimento e autonomia; che la gerarchia della Chiesa si occupi in primo luogo di chi è stato ferito, annientato, ucciso nello spirito, quando non anche nel corpo.

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