Commemorazione di via Acca Larentia, tra legittimazione e «allarme democratico»
Il 7 gennaio 1978, nel pieno degli scontri politici che insanguinavano i cosiddetti “anni di piombo”, un gruppo armato uccideva, di fronte alla sede del Movimento Sociale Italiano in via Acca Larenzia (quartiere Turscolano di Roma), due attivisti del partito, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, di 20 e 18 anni. Un altro ventenne militante romano, Stefano Recchioni restava freddato da colpi di arma da fuoco nel corso degli scontri con la polizia esplosi subito dopo l’agguato, sempre in via Acca Larentia. L’attentato contro i giovani missini fu rivendicato da una organizzazione terroristica di sinistra, i “Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale”. Nel 1987 furono arrestati e prosciolti per mancanza di prove alcuni militanti di Lotta Continua. La mitraglietta Skorpion utilizzata nel duplice omicidio – e appartenuta precedentemente a Jimmy Fontana – fu rinvenuta nel 1988 in un covo milanese delle Brigate Rosse. Ma gli autori dei tre omicidi non sono mai stati individuati e condannati. E da allora, ogni 7 gennaio, si ripete il rito di commemorazione dei tre giovani militanti uccisi in quella che è passata alle cronache come “la strage di Acca Larentia”. Con tutto il consueto repertorio di saluti romani, simboli e parole d’ordine della destra fascista.
Anche lo scorso 7 gennaio la commemorazione è stata particolarmente “colorita” e, forse perché la destra di governo si è dimostrata timida nel condannare certi atteggiamenti e forse per via dell’ambigua partecipazione di rappresentanti delle istituzioni, l’evento si è trasformato in uno scandalo politico.
In una nota diramata dopo la commemorazione del 7 gennaio scorso, l’Arci Roma ha condannato «la partecipazione di figure istituzionali» ritenendo l’evento «la cerimonia di autorappresentazione» delle formazioni di estrema destra che si sono rese «protagoniste di centinaia di aggressioni» contro manifestazioni culturali, migranti, persone Lgbtqi+, sedi sindacali, sedi politiche e simboli della Resistenza.
Il 7 gennaio scorso, spiega l’Arci Roma, «proprio all’indomani delle condanne di primo grado per l’assalto squadrista alla Cgil nazionale, hanno partecipato alla commemorazione sia il presidente della Regione Francesco Rocca sia l’assessore capitolino alla cultura, Miguel Gotor, ormai veterano di questa cerimonia nell’ottica di una malintesa pacificazione. Gotor sa bene che a quella commemorazione seguono ritualità anticostituzionali che si richiamano al ventennio fascista». Secondo l’associazione, la loro partecipazione «rischia solo di legittimare la normalizzazione del fascismo tra i più giovani» e appare come «un riconoscimento di fatto per frange minoritarie ma aggressive in cerca di riflettori delle loro scorribande e dei loro discorsi di odio, estranei ai valori costituzionali». La nota dell’Arci Roma si chiude con un richiamo, alle istituzioni e ai media, spesso un po’ “distratti” sul tema: «L’antifascismo non è un esercizio di stile in funzione della prossima campagna elettorale».
In una video intervista dell’Ansa (8 gennaio), il presidente nazionale dell’ANPI, Gianfranco Pagliarulo ha denunciato il «fatto molto grave» per la presenza di «centinaia di persone organizzate in modo paramilitare, che hanno ripetutamente alzato il braccio per il saluto romano, hanno gridato “presente”, in un tripudio di croci celtiche. Ora, mi pare evidente che questa manifestazione sia in palese contrasto con la Legge Scelba del ‘52, in attuazione della dodicesima disposizione della Costituzione».
Non mi risulta che vi siano state «né azioni repressive, né azioni preventive» contro l’iniziativa «di tipo neofascista sostanzialmente annunciata, dalle dimensioni inquietanti». Pagliarulo ha chiesto poi al ministro dell’Interno Piantedosi perché non è stato fatto nulla per impedire questa manifestazione e perché non sono stati identificati durante la manifestazione i responsabili di un «palese reato in violazione della Legge Scelba».
Grave anche l’assordante silenzio della presidente del Consiglio Giorgia Meloni: in un anno di governo della destra, ha incalzato il presidnete ANPI, Meloni non ha mai pronunciato la parola “antifascismo” o “antifascista” e questo «è un fatto significativo, che si lega a tante piccole o grandi manifestazioni implicite o esplicite di vari personaggi del governo o del partito di maggioranza relativa che, direttamente o indirettamente, si richiamano al fascismo, al Ventennio. Sono occhiolini, citazioni, segnali di nostalgia». Eventi come quello del 7 gennaio «confermano» il pericolo di autoritarismo cui il nostro Paese va incontro: «È il caso di parlare di allarme democratico». «Quello che è avvenuto ieri non è stata la giusta memoria di un crimine efferato, ma una manifestazione neofascista».
Guarda l'intervista dell'Ansa a Gianfranco Pagliarulo
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