Ricordando Paolo Ricca, fratello nella fede
TORRE PELLICE (TO)-ADISTA. “Le Chiese, attraverso i vari modi in cui questo è possibile, si concentrino su quello che possiamo chiamare l’essenziale cristiano, perché l’impressione è che, dopo duemila anni di storia, le Chiese hanno un tale fardello di dottrine, pratiche, devozioni, che dovrebbe essere una ricchezza ma in realtà è un peso, che frena l’evangelizzazione, la comunicazione evangelica.
Dato che i 1.700 anni di Nicea incombono, credo che le Chiese dovrebbero cercare di immaginare la convocazione di un Nicea 3 (il Nicea 2 c’è già stato, nel 787) veramente ecumenico: è un’impresa molto alta. Per manifestare in qualche modo che i cristiani sono una comunità riunita nel nome di Gesù, l’unico modo, credo, a livello globale è la forma conciliare, come era nei tempi antichi”.
Con queste parole Paolo Ricca, in dialogo con Marinella Perroni, chiudeva l’incontro online del 15 aprile scorso “Dove va l’ecumenismo?”, organizzato da Noi siamo Chiesa. A queste parole attribuiamo il valore di un testamento e di un compito che ci sta davanti.
Il nostro fratello Paolo Ricca, pastore e teologo valdese, ha raggiunto la pienezza della Vita il 14 agosto scorso. Aveva conseguito il dottorato in Teologia presso la Facoltà teologica dell’Università di Basilea, con una tesi diretta dal prof. Oscar Cullmann. Era docente emerito di Storia della Chiesa alla Facoltà Valdese di Teologia di Roma, e professore ospite presso il Pontificio Ateneo Sant'Anselmo di Roma. Aveva insegnato anche all’Istituto di Studi Ecumenici San Bernardino di Venezia. Nel 1999 la Facoltà di Teologia dell’Università di Heidelberg gli aveva conferito la laurea honoris causa.
È stato spesso ospite della trasmissione radiofonica di Rai 3 Uomini e profeti. Per Claudiana, ha diretto la Collana «Opere scelte – M. Lutero», di cui ha curato vari volumi. Tra le sue opere ricordiamo: Le dieci parole di Dio. Le tavole della libertà e dell’amore (Morcelliana), a cui s’è ispirato Roberto Benigni per il suo spettacolo “I dieci comandamenti”; L’Ultima Cena, anzi la Prima (Claudiana), La donna nel Nuovo Testamento e nella Chiesa (EDB, con Cristina Simonelli e Rosanna Virgili), Dell'aldilà e dall'aldilà. Che cosa accade quando si muore? (Claudiana), Dio. Apologia (Claudiana), L’Evangelo della creazione (Lindau).
Ha seguito come giornalista accreditato per l'Alleanza Riformata Mondiale il Concilio Vaticano II, è stato membro della Commissione Fede e Costituzione del Consiglio Ecumenico delle Chiese. All'età di 37 anni partecipò alla redazione finale della Concordia di Leuenberg, l’accordo teologico ecumenico tra le Chiese
europee riformate e luterane, che ha reso possibile lo scambio di ministri e l’intercomunione. Per due mandati ha ricoperto il ruolo di presidente della Società Biblica in Italia. Ha partecipato alle Assemblee Ecumeniche Europee di Basilea (1989) e Graz (1997). Per anni ha coordinato il Gruppo Teologico del SAE (Segretariato attività ecumeniche) insieme a don Giovanni Cereti.
È stato per noi indimenticabile maestro di ecumenismo e figura di speciale riferimento nel mondo protestante: Noi siamo Chiesa ha ripreso molti suoi interventi (ad es. sulla Dominus Iesus), e attinto alla sua riflessione su molti temi (per es. il fondare l’ospitalità eucaristica sull’idea che è Gesù che invita, non la Chiesa). Nel 2021 ha presentato con Lidia Maggi, Vittorio Bellavite, Cecilia ed Emilio Gabrielli il libro di Roberto Fiorini Dietrich Bonhoeffer. Testimone contro il nazismo, il 15 aprile scorso ha partecipato con Marinella Perroni all’incontro online “Dove va l’ecumenismo?”, per il prossimo novembre aveva dato la sua disponibilità a prendere parte come relatore al convegno su don Ernesto Buonaiuti che Noi siamo Chiesa sta organizzando con l’Università “La Sapienza” di Roma.
L’incontro dello scorso 15 aprile è stato pensato in maniera dialogica: Elza Ferrario e Roberto Fiorini hanno intervistato Marinella Perroni e Paolo Ricca. Ci fa piacere riportare le sue risposte, come segno di gratitudine per la sua straordinaria testimonianza ecumenica e come assunzione di responsabilità nei confronti delle prospettive che ci ha indicato.
NSC: In che acque naviga l’ecumenismo?
Paolo Ricca: Più che navigare, l’ecumenismo galleggia nel mare del nostro
tempo, non avanza. Avanza dal punto di vista del clima, dei rapporti
interpersonali e anche dei rapporti tra le Chiese, non si discute: ci sono stati
cambiamenti sostanziali, profondi, irreversibili, però dal punto di vista dei
rapporti tra le Chiese siamo al punto di prima, non ci sono novità, perché manca
il riconoscimento reciproco delle Chiese. Questo è un grosso problema, perché
c’è uno squilibrio nei rapporti tra le Chiese, nel senso che tutte si considerano
Chiese, ma non c’è reciprocità.
Non solo, l’altro guaio, che non mi sembra sia superato, o che stia per essere
superato, è che le Chiese ragionano ancora con la mentalità del monologo, cioè
ciascuna parla, decide e agisce come se le altre non ci fossero. Abbiamo visto
ancora in questo ultimo documento sulla maternità surrogata, dove la Chiesa
cattolica parla come se fosse l’unica Chiesa cristiana, come se non ci fossero
altre posizioni: io non dico, naturalmente, che devono essere condivise, ma
almeno citate, cioè si avverta la comunità umana, prima ancora che quella
cristiana, che ci sono diverse posizioni su questioni difficili, complesse,
complicate! La mentalità del monologo non è superata, e questo è un grosso
guaio, per cui appunto l’ecumenismo galleggia su acque non tempestose –
tranne quelle del mondo, naturalmente – ma su acque ferme.
Nel 2024 ricorrono gli 850 anni della nascita del movimento valdese
(Lione 1174), che ha lanciato tre punti decisivi, allora e ancora oggi: la
Chiesa povera – tema che nella Chiesa cattolica è stato ripreso da papa
Giovanni XXIII –; il ritorno alla Scrittura, quindi la Scrittura in mano ai
laici: la rivendicazione dei laici in quanto tali, che possono prendere in
mano la Scrittura; e la possibilità dei laici di annunciare il vangelo, come
i preti. Questi tre elementi sono gli stessi che sono stati recentemente
rispolverati in casa cattolica, ad es. papa Francesco nell’Evangelii
Gaudium ha detto: “Lo studio della Sacra Scrittura dev’essere una porta
aperta a tutti i credenti”, e un paragrafo è intitolato: “Tutto il Popolo di
Dio annuncia il Vangelo”.
I festeggiamenti per questo anniversario valdese possono essere
occasione per chiamare anche le altre Chiese alla “riforma iniziale”
indicata da Pietro Valdo?
Lo storico modernista Ernesto Buonaiuti ha coniato l’espressione “prima riforma”
associando una triade di personaggi che rispondono al nome di Valdo di Lione,
Francesco di Assisi e Gioachino da Fiore. Questa triade, secondo Ernesto
Buonaiuti, ha riportato nella cristianità occidentale l’esigenza che la fede
cristiana sia formata e nutrita dalla Sacra Scrittura. Quando ho letto gli scritti di
Francesco di Assisi, sono rimasto stupito da una cosa che non mi aspettavo, e
cioè l’abbondanza, veramente sorprendete, di citazioni bibliche: anche Francesco
è sostanzialmente uomo della Bibbia, non parliamo di Gioachino! Ora noi
abbiamo la fortuna di assistere al fatto che nella Chiesa cattolica oggi questa
familiarità con la Sacra Scrittura è stata promossa dal Concilio Vaticano II e credo
che sia in maniera crescente praticata dal cosiddetto laicato cattolico, cioè
aumenta il numero dei cattolici che ha in mano la Bibbia, la apre, la legge e la
conosce sempre di più, al di là delle letture domenicali e delle liturgie che
conosciamo. C’è un rapporto personale che mi sembra stia avvenendo, e questo
è una grande novità, una bellissima novità, forse la cosa più importante tra
quelle avviate dal Concilio Vaticano II.
Per quanto concerne gli 850 anni, certamente li dobbiamo festeggiare, ma quello
che sarebbe importante, anche per la Chiesa cattolica, sarebbe riflettere sul
perché questa minoranza, che ha avuto una storia travagliatissima, in una terra
ostile, da tutti i punti di vista, fino al Concilio Vaticano II, quindi per 800 anni
circa, che senso ha che sia sopravvissuta, quando tutte le altre cosiddette “eresie
medievali” sono state in una maniera o nell’altra o riassorbite, come il
francescanesimo, contro il volere di Francesco, oppure scomparse, cancellate
dall’Inquisizione. I valdesi sono gli unici che miracolosamente sono
sopravvissuti. A me parrebbe utile che insieme, in particolare con la Chiesa
cattolica, si rifletta sul perché questa specie di “scheggia nella carne”, se posso
adoperare quest’espressione paolinica, che non è nulla dal punto di vista
numerico, sociologico, è una nullità, uno zero moltiplicato a zero, è sopravvissuta
qua, proprio nella terra del papa, centro del cattolicesimo mondiale, proprio qua
c’è questa insignificante minoranza. Ecco, riflettere sul senso: deve avere un
senso, non può essere, io credo, un caso. Questo sarebbe utile fare, in occasione
degli 850 anni.
Noi siamo stati scomunicati immediatamente, Francesco no, perché aveva nei
confronti dell’istituzione cattolica un rapporto di ossequio. Noi no. I valdesi sono
stati i primi in Occidente, seguiti poi dai “fraticelli”, a negare che il papa era il
successore di Pietro, perché nella Bibbia non c’è nessuna venuta di Pietro a
Roma, e siccome erano, se vogliamo, “biblicisti”, cioè si attenevano alla Sacra
Scrittura, dicevano: “Pietro a Roma, secondo la Scrittura, non è venuto – se
fosse venuto, sicuramente la Scrittura l’avrebbe registrato –, quindi non è venuto
e quindi il papa non è successore di Pietro, e quindi tutto crolla!”. Proprio perché
i valdesi hanno messo in discussione la figura apostolica del papa, sono stati
scomunicati già a Lione nel 1173, poi definitivamente col quarto Concilio
Lateranense (1215).
Nel Medioevo – questa è una cosa che non è tanto conosciuta, ma è importante
– i valdesi sono sopravvissuti unicamente perché praticavano il cosiddetto
“nicodemismo”, cioè ufficialmente andavano a messa, prendevano l’ostia dai
preti, e come tali risultavano cattolici, anche se poi avevano tutta una vita
religiosa loro interna. Questo nicodemismo, questa mimetizzazione, ha
permesso loro di sopravvivere. Le persecuzioni violente – massacri, genocidi:
“Facciamoli fuori tutti, questa macchia eretica!” – contro i valdesi sono iniziate
solo nel 1532 con l’adesione alla Riforma, perché la Riforma ha posto come
condizione per l’adesione di abbandonare il nicodemismo, dicendo che se voi
confessate la fede evangelica, riformata, dovete dirlo. I valdesi hanno accettato
questa condizione, si sono manifestati, sono usciti dalla clandestinità, e allora la
persecuzione è diventata violenta. Però alla base di tutto c’è la contestazione del
papato, che è stata, a torto o a ragione, uno dei punti fermi del valdismo
medievale.
La Relazione di Sintesi del Sinodo 2023 dedica un capitolo intero (il n.
7) all’ecumenismo, ma mantiene ancora la distinzione tra Chiese e
comunità ecclesiali, sottintendendo che ci sono Chiese di serie A (quelle
dell’ortodossia) e Chiese di serie B (quelle della Riforma), non
riconosciute come tali. Perché fa così difficoltà accettare ecclesiologie
diverse, quale passo può sbloccare la situazione?
Il Sinodo italiano, entrato nella fase sapienziale del discernimento, cita
Unitatis Redintegratio 6, dove si mettono in connessione ecumenismo e
rinnovamento della Chiesa.
Dunque la prospettiva ecumenica è ben presente nei documenti sinodali,
e collegata ai necessari cambiamenti della Chiesa cattolica. Ma perché
questa resistenza nel riconoscere le altre Chiese?
Dal punto di vista strettamente teologico, la Chiesa cattolica e le Chiese
ortodosse non riescono a concepire l’ipotesi che possa esistere una Chiesa
cristiana che non abbia l’episcopato, e l’episcopato concepito in una certa
maniera, cioè come successore degli apostoli, e questa successione degli apostoli
a sua volta concepita in un modo particolare, perché gli anglicani hanno
l’episcopato, anzi, ne fanno uno dei punti fermi della loro visione della Chiesa, le
Chiese luterane del Nord hanno l’episcopato, ma non è riconosciuto né da Roma
né da Mosca né da Costantinopoli come vero episcopato perché c’è questa
dottrina infausta e immutata. Anche il Vaticano II ha ribadito che questa roba è
per volontà divina, non è una scelta storica, che allora si può capire, si può
modificare, ci si può riflettere: no, per carità, questa è struttura divinamente
istituita. Siccome la Chiesa valdese non ha vescovi, non è una Chiesa, c’è poco
da fare, e quindi Paolo Ricca, che vi sta parlando, è un bravo ragazzo, ma non è
un ministro di Cristo, fa quello che può, nei limiti della sua confessione. Non so
se questa visione della Chiesa sia modificabile: finora non è stata modificata. Il
fatto che le Chiese della Riforma non sono riconosciute dipende dal fatto che non
hanno l’episcopato. Mi ricordo come se fosse oggi che quando ero giornalista e
seguivo il Concilio Vaticano II, avevo fatto amicizia con un vescovo tedesco che
si occupava della stampa; a un certo punto siamo entrati in una certa familiarità
e io gli ho chiesto: “Secondo lei, cosa dovrei fare per essere a posto dal punto
di vista cattolico?”, “Lei non deve fare nulla – mi ha detto – deve semplicemente
farsi ordinare da un vescovo cattolico”. Punto e a capo. Da questo dipende tutto
il resto.
Il problema è che la sacralizzazione è dogmatizzata, nel Vaticano II è detto
chiaramente: una “istituzione divina”, l’ha voluta Gesù Cristo, non il papa A o il
vescovo B! La sacralizzazione è purtroppo un fatto dogmatico.
La faccenda è insolubile, se non si modificano le premesse teologiche, se non si
passa dalla sacralizzazione alla ministerialità, se non si fanno dei processi di
modifica noi saremo eternamente “comunità ecclesiali”, perché non abbiamo
vescovi. Un valore della contestazione medievale valdese è stato proprio quello,
di affermare che si può essere Chiesa anche se non hai un papa, anche se non
sei obbediente al vescovo di Lione e trasgredisci i suoi comandamenti.
Il problema è la diversità nel cristianesimo: si può essere veramente Chiesa in
maniere sensibilmente diverse.
Il patriarca ortodosso russo Kirill parla di “guerra santa” contro
l’Occidente, che avrebbe perso i valori cristiani, diventando “satanico”.
Come praticare l’ecumenismo con Chiese che hanno queste posizioni?
Come fare i conti con l’ortodossia lacerata, e la conseguente lacerazione
nel cristianesimo?
La novità è che si adoperano dei termini effettivamente un po’ audaci, come
definire satanico l’Occidente, però in ambito ortodosso l’alleanza tra trono e
altare è tradizionale. In questo senso l’appoggio sfacciato di Kirill a Putin, alla
sua guerra, “operazione speciale”, rientra nella tradizione ortodossa. È sempre
stato così: la Chiesa ortodossa è stata succube di cesaropapismo, è stata alleata
subordinata al potere politico, già con gli zar e poi adesso. Naturalmente con
Stalin, Lenin, no, perché lì al contrario c’era la speranza del potere politico di
liquidare la Chiesa, di eliminarla completamente, ma appena è finita questa fase,
siamo tornati all’alleanza tra trono e altare, che proprio con Kirill e Putin ha
ripreso nuovo vigore.
La Chiesa ortodossa è una Chiesa nazionale, e il fatto di avere una coscienza di
nazione che si sovrappone alla coscienza cristiana e la ingloba, e sovente la
annulla o la annacqua, è una situazione che si è creata tante altre volte.
Se poi la Chiesa ortodossa uscirà dal Consiglio Ecumenico delle Chiese, certo
sarà un grosso problema per il Consiglio e per tutta la cristianità.
Non siamo attrezzati a fare la storia, soprattutto in tempo di guerra: è un
fallimento complessivo, globale, di tutto il cristianesimo occidentale, non solo
sovietico. La Chiesa non sa fare altro che, nella migliore delle ipotesi, curare i
feriti e seppellire i morti, cioè fare la crocerossina, ma facendo la crocerossina
non fai la storia, fai la crocerossina nella storia, che fanno altri.
Dico quello che penso, la mia convinzione personale: la Chiesa non ha mai
adottato come principio costitutivo dell’essere cristiano la non-violenza. Se non
si è in grado, non si è capaci, non si ha il coraggio di diventare corpo della pace,
come corpo non-violento in mezzo a un mondo violento, non puoi fare la storia,
soprattutto in tempo di guerra. Ma per diventare corpo della pace, comunità non-
violenta in mezzo alle violenze del mondo, ci vuole una preparazione, ci vuole
qualcuno che intanto spieghi che cos’è la non-violenza. Abbiamo avuto dei
testimoni nel nostro secolo, li conosciamo, Dio ce li ha mandati come segno di
una via per la Chiesa, però nessuno parla della non-violenza. Gli appelli per la
pace, nessuno parla della non-violenza, sono retorici, inutili, che non servono a
nessuno, che nessuno ascolta, nessuno prende sul serio, perché non c’è una vera
alternativa. Non si fa la storia se non si pongono delle alternative. Francesco di
Assisi aveva il grandissimo merito di non polemizzare con nessuno, ma di porre
alternative: si può fare anche altrimenti, si può fare il presepe a Greccio invece
di andare in Palestina a occupare Betlemme. C’è un’alternativa, ma non viene
fatta, ed è questo il fallimento della Chiesa, soprattutto in questo tempo di
guerra.
L’ospitalità eucaristica è nominata persino nella Relazione di Sintesi del
Sinodo, in Italia abbiamo il bellissimo documento firmato da Paolo Ricca
e Giovanni Cereti, e l’esempio virtuoso ma isolato di Torino, dove si può
praticare alla luce del sole, mentre in altre città, se c’è, è pratica
clandestina. Cosa la impedisce, cosa ancora manca perché cristiane e
cristiani delle diverse Chiese possano accedere all’unica mensa,
mantenendo ciascuna la propria comprensione del mistero? Come
superare lo scandalo delle mense separate?
Non c’è nessun argomento teologico contro l’ospitalità eucaristica, per il semplice
fatto che l’ospitalità è un atto gratuito. Non si chiede né al cattolico che partecipa
alla cena evangelica di condividere la dottrina evangelica della cena, né
all’evangelico che partecipa all’eucarestia cattolica di condividere la dottrina della
transustanziazione: quindi non tocca nulla, si potrebbe fare tranquillamente
dappertutto. Il Gruppo di Torino ha il grande merito di proporre questa pratica.
Perché allora le autorità cattoliche la vietano? Perché secondo la loro visione
nella cena evangelica non c’è il corpo di Cristo, perché il pastore, o chi la celebra,
non è ordinato da un vescovo nella successione apostolica, e allora si riceve un
“biscotto”, un “pezzo di pane”, non il corpo di Cristo. Quindi il cattolico o si illude
di celebrare qualcosa di analogo, di equivalente all’eucarestia cattolica, o compie
un gesto equivoco, ambiguo. E io evangelico che partecipo a un’eucarestia
cattolica, perché mi si dice “no, tu no?” – non dappertutto: in tanti posti io l’ho
fatto e lo faccio se gli organizzatori sono d’accordo, sanno chi sono: lo faccio
tranquillamente, e non condivido la dottrina della transustanziazione. Ma
secondo la dottrina cattolica, se voglio veramente partecipare all’eucarestia
dovrei condividere la dottrina della transustanziazione, che, come credo anche
alcuni cattolici, non condivido.
La cosa è molto da incoraggiare, e difatti c’è un certo numero di gente che ha
capito che è qualcosa che apre una pratica di riconoscimento reciproco di modi
diversi di celebrare un fatto centrale della fede cristiana, com’è l’eucarestia.
Il capitolo più brutto nella Relazione di Sintesi è forse il numero 9, sulle
donne – già il fatto che si debba scrivere un capitolo sulle donne la dice
lunga su quanto non abbiamo ancora metabolizzato il fatto che la Chiesa
sia comunità di donne, uomini e persone non-binarie, senza bisogno di
ghettizzare le categorie. Vi si leggono cose terribili: “le donne vanno
comprese, accompagnate”… È però stato pubblicato il libro
Smaschilizzare la Chiesa?, frutto dell’incontro del Consiglio dei cardinali
con due teologhe e un teologo che hanno cercato di decostruire il
principio mariano-petrino di von Balthasar, alla base dei pregiudizi sulla
distinzione dei ruoli di genere nella Chiesa. E ancora lo scorso febbraio
il Consiglio dei cardinali ha ascoltato due teologhe cattoliche e la
vescova anglicana Jo Bailey Wells. Cosa significa questo? Nonostante
tante resistenze, si sta forse capendo che possiamo imparare dai
cammini delle altre Chiese?
Due piccole osservazioni: la prima è che questo è un caso tipico in cui uscire dal
monologo, guardarsi un po’ intorno in quello che succede altrove nella cristianità
sarebbe molto utile, e sarebbe un incoraggiamento. Noi abbiamo da pochi
decenni l’esperienza del pastorato femminile: abbiamo constatato che va bene
o va male tanto quanto il pastorato maschile, non ha nessuno svantaggio rispetto
al pastorato maschile, che sovente invece oggi è attraversato da molte difficoltà.
La seconda cosa che vorrei dire è che la mia convinzione, che naturalmente può
essere illusoria, è che prima o poi – più poi che prima, d’accordo – la Chiesa
cattolica riconoscerà il ministero femminile per il semplice motivo che non ha
mai messo in discussione il battesimo delle donne. Non avendo messo in
discussione il battesimo delle donne ed essendo un fatto assodato in tutta la
cristianità che il battesimo rende idonee le persone a ricevere ogni tipo di
ministero, dovrà, ripeto, prima o poi, vincere questa convinzione fondamentale,
e vedremo delle donne diventare sacerdoti: succederà.
Verso Nicea 2025: sarà l’ennesimo festeggiamento esteriore, o sarà
l’occasione per trovarsi insieme, come Chiese, e parlare ad una voce a
questo mondo, che naviga in acque agitatissime? Quali prospettive,
quali speranze?
Vorrei dire due cose. La prima è che le Chiese, attraverso i vari modi in cui questo
è possibile – questo dei festeggiamenti del 2025 è anche un modo bello in cui le
Chiese si incontrano –, si concentrino su quello che possiamo chiamare
l’essenziale cristiano, perché l’impressione è che dopo duemila anni di storia, le
Chiese hanno un tale fardello di dottrine, pratiche, devozioni, che dovrebbe
essere una ricchezza ma in realtà è un peso, che frena l’evangelizzazione, la
comunicazione evangelica. Le Chiese dovrebbero possibilmente definire, o
circoscrivere tra loro quello che è veramente essenziale per la fede cristiana.
Due: dato che i 1.700 anni di Nicea incombono, credo che le Chiese dovrebbero
cercare di immaginare la convocazione di un Nicea 3 (il Nicea 2 c’è già stato, nel
787) veramente ecumenico: è un’impresa molto alta. Per manifestare in qualche
modo che i cristiani sono una comunità riunita nel nome di Gesù, l’unico modo,
credo, a livello globale è la forma conciliare, come era nei tempi antichi. È un
obiettivo che credo le Chiese dovrebbero proporsi anche in occasione dei 1.700
anni del concilio di Nicea.
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