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Il dialogo ebraico-cristiano, un caposaldo. La 61ma sessione di formazione ecumenica del Sae

Il dialogo ebraico-cristiano, un caposaldo. La 61ma sessione di formazione ecumenica del Sae

CAMALDOLI (AR)-ADISTA. La seconda giornata della sessione di formazione ecumenica del Sae in cordo a Camaldoli (Ar) fino al 2 agosto si è aperta con una preghiera ispirata al cammino verso l’Oreb di Mosé che si imbatte nel roveto ardente attraverso il quale Hashem gli si rivela come «il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe».

Acceso un fuoco, il gruppo liturgico ha commentato: «La luce rivela una Presenza, impossibile da stringere, impossibile da possedere. Ma unica e preziosa, perché è Vita, piena e premurosa. La luce diventa Presenza che scalda, che rafforza, che consola. Che illumina il giorno e che rischiara il cammino. È alla luce di questo fuoco che ogni terra diventa sacra».

La preghiera è sfociata poi nell’intervento proposto da rav Joseph Levi, rabbino capo emerito della Comunità ebraica di Firenze. È tradizione nel Sae che la prima meditazione biblica sia svolta da una voce di tradizione ebraica per richiamare le radici del cristianesimo e il fatto che per il Sae il dialogo inizia a partire dal dialogo con l’ebraismo.

Introdotto da Erica Sfredda - che ha espresso il dispiacere per l’aggressione subita domenica da una famiglia ebraica francese in un autogrill in Lombardia e per ogni altra forma di antisemitismo e di islamofobia, rav Levi ha esordito: «Ringrazio per l’invito a intervenire. In questo periodo di grande buio e caos il dialogo ebraico-cristiano deve servirci come un caposaldo di dialogo, di ascolto, di collegamento e intesa tra diverse culture, religioni e persone. Se ce l’abbiamo fatta tra ebrei e cristiani, con la nostra storia così sofferta, possiamo farcela anche in altri contesti. Rimaniamo saldi nella continuità del dialogo ebraico-cristiano, un modello di promozione e di possibilità di creare insieme un futuro più ragionevole»

Rav Levi ha illustrato, rifacendosi ai commenti di Maimonide, Rashi e di altri maestri, la professione di fede d’Israele: lo “Shemà Israel” contenuto in Deuteronomio 6,4-9, versetti che racchiudono l’esperienza religiosa della storia monoteista del popolo. La professione di fede esprime nella prima parte l’unicità di Dio e nella seconda le forme per esprimere l’amore verso di lui. «La via per l’amore al divino è la via della conoscenza, dello studio, dell’approfondimento della struttura del mondo dietro il quale c’è il mistero di una divinità che dirige l’universo» ha detto Levi. Il brano di Deuteronomio 4,12, che rappresenta il contesto che prelude allo Shemà e ne aiuta la comprensione, ricorda l’esperienza dell’Oreb: «E l'Eterno vi parlò dal fuoco; voi udiste il suono delle parole, ma non vedeste alcuna figura; non udiste che una voce». Fondamentale, per questo, la postura dell’ascolto a cui il popolo è invitato.

«Tu amerai Hashem con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze» dai commentatori antichi viene fatto derivare da un amore così grande che l’anima dell’essere umano è sempre legata ad Hashem, lo pensa sempre. Nel Cantico dei Cantici addirittura diventa la malattia dell’amore (Ct 2,5). Per Rabbi Yehuda Loew, detto il Maharal di Praga, Dio è l’essenza di tutto.

Lo Shemà, ha concluso Levi, diventa l’espressione più profonda del credo di Israele.

 

Foto di Laura Caffagnini

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