Le sfide dell’ecumenismo e la prova del Sinodo
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 44 del 13/12/2025
Ben di rado, come negli ultimi anni, si è discusso pubblicamente di ecumenismo. Lo si sta facendo, in primo luogo, sull’onda della perdurante catastrofe ucraina: prese di posizione da più parti, articoli sui quotidiani, molti interventi in rete, in genere per denunciarne la profonda crisi. Talvolta, persino la conclamata inutilità o addirittura la dannosità, sullo sfondo del traumatico palcoscenico bellico, visti gli scarsi risultati raggiunti sinora. Su Repubblica è comparso emblematicamente, poco dopo l’inizio dell’invasione russa, un titolo definitivo (“La fine dell’ecumenismo”, il 27 aprile 2022, per l’autorevole firma di Alberto Melloni, secondo il quale uscirebbe letteralmente in macerie «quel desiderio di unità visibile che aveva percorso il cristianesimo da fine Ottocento»); ma non sono mancate le tonalità ironiche, al limite del sarcasmo, ad esempio quando ci si è avventurati a tratteggiare le trasparenti contraddizioni delle posizioni filoputiniane sostenute dal patriarca di Mosca, Kirill, con la sua ideologia etnico-religiosa del Russkii mir (il mondo russo). In primo luogo, si può notare che la cosa appare curiosa, in quanto l’ecumenismo è solitamente il parente povero delle discipline teologiche. Ma anche nell’investimento rarefatto al riguardo, da parte di Chiese locali e diocesi, salvo felici eccezioni che non scalfiscono l’assunto di fondo. Lo scrivo – evidentemente – non per accusare chicchessia di lesa maestà nei confronti del dialogo fra le Chiese cristiane, ma al fine di corroborare la seguente tesi: dovremmo semmai ripartire proprio dagli eventi degli ultimi due o tre anni, a cominciare dal mancato incontro fra Kirill e papa Francesco a Gerusalemme, previsto per giugno 2022 e annullato per evidenti motivi, ma anche e soprattutto dalle ragioni della clamorosa rottura fra le Chiese sorelle di Mosca e Costantinopoli, la Terza Roma e il Patriarcato ecumenico, che ha provocato una situazione drammatica, che ha il sapore amaro dello scisma interno e le cui radici vengono da lontano, per riflettere sulla necessità di un nuovo, maggiore e diverso slancio ecumenico. A sessant’anni dalla fine del Concilio Vaticano II, che per la Chiesa cattolica rappresentò, com’è noto, l’avvio di uno sguardo aperto verso gli altri mondi cristiani, con il decreto del 21 novembre 1964 Unitatis Redintegratio; e a quasi venti dalla terza Assemblea Ecumenica Europea (a Sibiu, Romania, nel 2007), ultimo appuntamento congiunto fra CCEE (Consiglio delle Conferenze episcopali europee) e KEK (Conferenza delle Chiese europee), una joint venture che può vantare fra l’altro la stesura di una Charta Oecumenica europea, firmata a Strasburgo il 22 aprile 2001 da tutte le Chiese del Vecchio Continente e rilanciata, in una stesura rinnovata, il 5 novembre scorso, a Roma. Purtroppo, rimasta sinora sostanzialmente lettera morta, indice, ammettiamolo con l’augurio che qualcosa possa cambiare, del relativo interesse delle Chiese reali nei confronti del movimento ecumenico.
Ecumenismo e Sinodi
Eppure, come possiamo essere fratelli (e sorelle) tutti – sulla linea dell’enciclica omonima del 2020 di papa Francesco – se non ci sentiamo e non viviamo, noi cristiani delle varie confessioni, da fratelli e sorelle, pur essendo fondati sullo stesso battesimo e sullo stesso credo, nonché fiduciosi nella stessa parola di Gesù contenuta nelle stesse Scritture? Ecco perché l’ecumenismo dovrebbe finalmente uscire dagli scaffali degli specialisti per entrare stabilmente negli ordini del giorno dei consigli parrocchiali, dei movimenti ecclesiali, dell’attuale Cammino sinodale della Chiesa cattolica italiana, giunto a ottobre 2025 a una prima conclusione, nonché del Sinodo della Chiesa universale. Vasto programma, certo, ma anche indilazionabile. Con una base importante, peraltro: il documento finale della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dell’ottobre 2024, intitolato Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione, presentava una forte dimensione ecumenica: anzi, «tra i frutti più significativi del Sinodo 2021-2024 vi è l’intensità dello slancio ecumenico» (n. 137). Tale prospettiva traspare da numerosi passaggi dedicati all’unità dei cristiani, in particolare alla dimensione battesimale dell’ecumenismo e della sinodalità, all’ecumenismo spirituale, all’ecumenismo del sangue, all’importanza del dialogo ecumenico, allo scambio di doni tra i cristiani, al rapporto tra sinodalità e primato, al contributo dei delegati fraterni all’assemblea sinodale e alla dimensione ecumenica della formazione. Naturalmente, come sempre, la partita prevede anche un secondo tempo, incentrato sulla traduzione nel vissuto ecclesiale del documento stesso: cosa che, va ammesso, non avviene spesso, per questo genere di documenti. Purtroppo…
Crisi, sfide, rilancio
No, l’ecumenismo non si è definitivamente esaurito. Il dialogo, semmai, sta cambiando di forma, di stile, di metodo, e non è sempre facile riconoscerne la positiva trasformazione nel cuore di una crisi indubbia che però può essere letta come una crisi di crescita, destinata a farci fare, mi auguro, ulteriori passi in avanti. Esso, è stato scritto autorevolmente, «non è soltanto un metodo esterno o addirittura una strategia della politica ecclesiale, non consiste solo in riflessioni sofisticate e in uno scambio di idee, ma è piuttosto un’espressione della struttura dialogica dell’esistenza umana e della percezione della verità» (W. Kasper). Personalmente, credo la Chiesa: una, sancta, catholica et apostolica. Vale a dire, credo e confesso che l’unità esiste primariamente in Cristo, nel quale «non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina» (Gal 3,28), né, potremmo aggiungere, cattolico né protestante né ortodosso e neppure pentecostale, perché «tutti noi siamo uno in Cristo Gesù» (ivi). Se l’ecumenismo ha un futuro – e dovrà averlo! – siamo chiamati a immaginarlo, coniugando insieme creatività, fantasia e coraggio. Nella consapevolezza che, con ogni probabilità, le forme storiche del dialogo ecumenico che abbiamo sperimentato nel corso del Novecento si sono definitivamente esaurite, o quasi; e che occorre, in ogni caso, andare oltre. Dove? La fluidità delle appartenenze confessionali, le alleanze trasversali che continuano a formarsi sulle più diverse tematiche, la novità ormai consolidata del proliferare di Chiese indipendenti e di cristiani indisponibili a riconoscersi in una o nell’altra Chiesa storica, e tanti altri mutamenti in corso, richiedono uno sforzo ulteriore, e il coraggio di abbandonare presunte certezze. Anche perché, se si vuole che il cristianesimo continui a vivere e a produrre germi di Vangelo, proiettato nel XXI Secolo, occorre imparare a ringraziare Dio per i grandi doni che ha fatto a tutte le Chiese, a tutte le religioni, a tutte le donne e tutti gli uomini che Egli ama; evitando soprattutto due tentazioni: da una parte, quella di rinchiudersi in un ghetto, cercando di ricreare l’ideale della cristianità del passato, ormai conclusasi; dall’altra, quella di assimilarsi completamente alla società in cui si vive, finendo per essere succubi di una cultura ormai definitivamente secolarizzata. Piuttosto, dobbiamo stare con le persone, condividere i loro problemi, porci al loro fianco in ascolto del vangelo e degli insegnamenti della Chiesa, e solo allora potremo andare a scoprire insieme una parola che deve essere condivisa.
Non male...
Perché già oggi – una volta di più, nonostante tutto! – le diverse Chiese vivono insieme: una coabitazione che non ha nulla a che fare con la rarefatta delicatezza di una sororità monastica, ma che somiglia piuttosto alla sana, caotica e litigiosa sororità di una vera famiglia. Da questo punto di vista, ricorda il Gruppo di Dombes, le Chiese, tutte, sono chiamate a entrare in un «dinamismo di conversione»; e a «superare l’autosufficienza» confessionale. Già negli anni Ottanta uno dei pionieri del cammino ecumenico, il cofondatore di Taizé Max Thurian, sosteneva che il vero ecumenista dovrebbe saper vivere due appartenenze: una che lo leghi alla sua Chiesa e l’altra alla Chiesa del futuro. Osando dare spazio allo Spirito Santo, e tenendo solo sullo sfondo le nostre, pur legittime, preoccupazioni. Ciò che già ci unisce, infatti, è molto più grande (e importante) di quello che ancora ci divide… e l’ecumenismo, inoltre, più che un’esigenza dei credenti, è un’esigenza primaria del Vangelo, tanto più in una prospettiva autenticamente sinodale. Tirando le somme del percorso fatto sin qui, uno specialista come Etienne Fouilloux sostiene che il bilancio di un secolo di cammino ecumenico può apparire magro o consistente a seconda della lente attraverso cui lo si guarda. Magro, dato che gli operai sono scarsi numericamente e non mancano resistenze (e reticenze) confessionali verso l’unità; ma anche consistente, poiché l’ecumenismo nato alla fine del secolo scorso ha suscitato sia una bibliografia imponente, sia un metodo: rigorosa eguaglianza di trattamento tra i partner del dialogo, equa valutazione dei risultati, giusta considerazione di tutti i suoi parametri. E non è poco, alla fine. Non è davvero poco.
Brunetto Salvarani è teologo e saggista esperto di dialogo ecumenico e interreligioso. Docente di Teologia del Dialogo ecumenico e interreligioso alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna di Bologna.
*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza
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