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HA TUTTO DA PERDERE UNA CHIESA CHE RESPINGE GLI INDIGENI. UNA RIFLESSIONE DEL TEOLOGO MESSICANO ELEAZAR LOPEZ

Tratto da: Adista Documenti n° 34 del 06/05/2006

DOC-1732. CITTÀ DEL MESSICO-ADISTA. Mentre "la macchina mediatica di Roma" celebra il primo anniversario del pontificato di Benedetto XVI mostrando il ritratto di "un papa dolce, moderato e discreto", in Chiapas gli indigeni subiscono la "decisione arbitraria del Vaticano" riguardo al divieto di ordinare diaconi permanenti indigeni (v. Adista n. 30/06): Bernardo Barranco, noto vaticanista messicano, non si unisce al coro di elogi tributati a papa Ratzinger, ma preferisce porre l'accento, su La Jornada del 19 aprile, sull'autoritarismo di Roma, sull'"eccessivo centralismo autocratico contrario alle intuizioni di una Chiesa pluricentrica", sul rischio che "con questa misura di Benedetto XVI, la Chiesa cattolica nella regione rimanga senza difese" di fronte all'avanzata dei gruppi evangelici, i quali "non solo riconoscono, ma addirittura incoraggiano la leadership indigena locale".

È quanto evidenzia anche il teologo indigeno Eleazar López, tra i massimi esponenti della teologia india (v. Adista n. 24/06), evidenziando, in una riflessione in vista della V Conferenza generale dell'episcopato latinoamericano (in programma dal 13 al 31 maggio del 2007 al Santuario di Aparecida, in Brasile), le conseguenze negative che "il clima di sospetto permanente verso gli indigeni" può generare all'interno della Chiesa. Un clima che spiega anche l'assenza del tema della pastorale indigena nel Documento di partecipazione elaborato dal Celam (Consiglio episcopale latinoamericano) in preparazione della Conferenza di Aparecida, che parla, sì, degli indigeni, "ma solo come oggetto della preoccupazione, della evangelizzazione o della promozione della Chiesa". Un'assenza, che, del resto, non può destare alcuna sorpresa, considerando che, denuncia p. Eleazar, il Documento di partecipazione si snoda come se non fosse mai esistita "la storia del cammino profetico e pastorale della Chiesa latinoamericana, che ha cercato di parlare e di agire a partire dalla maggioranza dei poveri del Continente".

Eppure, è proprio il riscatto di questa eredità la vera sfida della V Conferenza (il cui tema sarà "Discepoli e missionari di Gesù Cristo affinché i nostri popoli abbiano vita in Lui"): un'eredità preziosissima la cui massima espressione è stata, nel 1968, la Conferenza di Medellín, il cui chiaro proposito, come ha scritto in un suo recente articolo il vescovo brasiliano dom Demetrio Valentini, è stato quello di "accogliere gli orientamenti del Concilio, inserendoli in maniera pratica e dinamica nelle circostanze proprie della realtà del nostro Continente". Tanto che, secondo il vescovo, Medellín va considerata "come il paradigma di tutte le altre conferenze", i risultati delle quali "possono essere misurati dalla loro maggiore o minore identificazione con il cammino della Chiesa in America Latina e dalla sintonia con la sua realtà specifica".

È dunque a tale cammino ecclesiale latinoamericano, inaugurato a Medellín e almeno in parte ribadito alla Conferenza di Puebla nel 1979, che occorre far riferimento, perché - afferma p. Eleazar - "la Chiesa non improvvisa in ogni momento il proprio agire nel popolo; essa ha una storia che la sostiene, una tradizione che le dà senso e con la quale stabilisce una continuità. Se dimentichiamo questo riferimento alla tradizione, torniamo ad essere vele in balìa del vento delle congiunture sociali, senza orientamento". Di seguito la riflessione del teologo messicano, in una nostra traduzione dallo spagnolo. (claudia fanti)

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