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UN CONTRIBUTO INDIGENO AL PROCESSO ECCLESIALE DELL'AMERICA LATINA

Tratto da: Adista Documenti n° 34 del 06/05/2006

Come contributo alla V Conferenza generale dell'Epi-scopato latinoamericano, in questa riflessione voglio mettere in risalto i pronunciamenti fatti dagli indigeni nella assemblea convocata dalla Commissione episcopale per gli indigeni della Conferenza dell'episcopato messicano, dal 25 al 27 gennaio del 2006 a Città del Messico. Allo stesso tempo offrirò altri elementi di valutazione che giungono dal processo generale della Pastorale indigena nazionale e latinoamericana. Queste parole scaturiscono non da freddi intellettualismi, ma da cuori ardenti che battono per la vita, per i valori del Regno e per Dio stesso; non sono, pertanto, questioni teoriche che pretendono un riconoscimento da parte dei professionisti della materia, ma una ricerca angosciosa da parte di quanti tra noi di si sono messi sul cammino delle cose di Dio e vanno incontro alle sorelle e ai fratelli nella fede per lasciarsi interrogare dai segni dei tempi e percorrere insieme i passi necessari.

Come tutti sanno, il Documento di partecipazione (Dp), elaborato e diffuso dagli organizzatori della V Conferenza, non è "la bozza del documento finale" della Conferenza che avrà luogo nel 2007 in Brasile, ma una guida per "suscitare una partecipazione più ampia" di tutti i membri della Chiesa latinoamericana, di cui fanno parte anche indigeni. Si tratta di uno strumento utile per sollecitare contributi, ma che è evidentemente condizionato dall'esperienza sociale e pastorale di chi lo ha elaborato; per questo si avvertono in esso lacune, incoerenze e a volte posizioni contrarie alla tradizione ecclesiale latinoamericana. Noi che siamo coinvolti e serviamo la pastorale indigena vogliamo offrire, dalla nostra particolare prospettiva, l'apporto che, crediamo, aiuterà i nostri vescovi a delineare meglio i modelli di azione della nostra Chiesa latinoamericana.

L'idea centrale della preparazione della V Conferenza generale dell'Episcopato latinoamericano è contenuta nel titolo: "Discepoli e missionari di Gesù Cristo affinché i nostri popoli abbiano vita in Lui". Questo titolo cerca di definire l'essere e il che fare della Chiesa latinoamericana nel contesto attuale, però ha, a nostro parere, alcuni inconvenienti che possono ripercuotersi negativamente sulla discussione di questi temi. L'utilizzo diffuso, in tutto il Dp, del termine biblico "discepoli" - che allude al Maestro che insegna - più che del termine "seguaci" di Colui che è la vita può portarci ad una maggiore sottolineatura della dottrina, rispetto alla prassi cristiana. Nel contesto attuale, appesantito da una saturazione e da una moltiplicazione di dottrine senza una pratica conseguente, la gente attende "parole vere" di liberazione e di vita, che si fondino e si fondano nella testimonianza, nel servizio, nell'impegno e nella risposta vitale che occorre dare ai problemi e alle lotte dell'umanità.

Nello stesso modo, la sottolineatura del fatto che "i nostri popoli hanno la vita in Lui", cioè in Gesù Cristo, se da una parte afferma una verità nella quale crediamo noi cristiani, poiché per noi la vita "ha origine in Lui, si realizza con Lui e giunge con Lui alla sua pienezza", dall'altra nel nostro tempo, a causa di una interpretazione circoscritta e riduttiva che alcuni cristiani fanno, può essere intesa nel senso che la Chiesa vuole assicurare il sostegno che i popoli si attendono da essa - per le loro nobili cause legate con la vita, la pace e la giustizia, valori del Regno - affinché si integrino alla Chiesa, tornino all'ovile, accettino la leadership della Chiesa e vi si sottomettano. Così, la "Grande Missione continentale", che si propone come risultato finale del rinnovamento della Chiesa latinoamericana, suona, in questo contesto, come campagna di riconquista spirituale nei confronti di persone e gruppi umani che hanno smesso di confidare nella istituzione ecclesiastica. È ciò che dissero i missionari di una volta: "De catechizandis rudibus" (far tornare in seno alla dottrina chi resiste alla Chiesa). Questo non può essere il tenore della nuova evangelizzazione che noi cristiani dobbiamo perseguire nelle attuali circostanze.

L'espressione originaria "para que nuestros pueblos tengan vida" ci incoraggiava, come Chiesa, ad essere servitori umili e incondizionati delle ricerche di vita dei nostri fratelli di diverse culture e religioni per portare la fede cristiana come risposta alle necessità della vita in qualsiasi sua manifestazione. Questo avrebbe reso possibile quello che viene delineato nel Dp, cioè che la Chiesa c'è per dare risposta alle inquietudini e alle ricerche umane, senza "separare dalla luce della fede le aspirazioni che scaturiscono dalla nostra natura umana"; e farlo come buona notizia, come benedizione per le nazioni, come gioia e allegria che deve essere completa, come beatitudine. Servire la vita è costruire il Regno e glorificare Dio, come affermava la Chiesa agli inizi del cristianesimo: "Gloria Dei, homo vivens": la Gloria di Dio è che la persona umana viva pienamente (Sant'Ireneo).

Con queste convinzioni non c'è bisogno di rivendicare un posto per la Chiesa e lottare per esso, ma di difendere il posto che merita il popolo, che meritano i prediletti del Regno che la Chiesa è chiamata a servire. E neanche è necessario dipingere di rosa la storia della Chiesa tra i popoli indigeni perché questa sia accettata tra di noi; vale di più riconoscere la verità storica, e così fare ammenda delle colpe del passato, con l'assunzione di nuovi atteggiamenti nel presente e nel futuro immediato. Noi popoli indigeni sappiamo perdonare gli errori umani della nostra Chiesa e ci impegniamo a percorrere sentieri nuovi con la Chiesa e come Chiesa.

L'analisi fatta nel Dp sulla globalizzazione neoliberista, che viene imposta alle maggioranze, è troppo light, vale a dire, senza schierarsi in maniera critica di fronte alle sfide che questa globalizzazione presenta. Manca un pronunciamento profetico più incisivo, che smascheri il male racchiuso in questo modello di società. La povertà dei più non persiste perché sono state inefficaci la lotta dei poveri e la opzione preferenziale che la Chiesa ha fatto per loro; ma perché questa globalizzazione neoliberista produce strutturalmente e sostiene violentemente la povertà e l'esclusione. Non cambieranno le cose solo se vorremo, come Chiesa, la conversione del povero e la compassione del ricco, senza affrontare profeticamente la causa che ha generato questa povertà ed esclusione delle maggioranze. È un fatto che viviamo in una società le cui strutture sono causa del male che si impone su tutti. Di fronte a questa società organizzata con parametri antievangelici, dobbiamo rinnovare la nostra capacità profetica di annunciare la liberazione dei poveri e di denunciare quanti causano la loro disgrazia. Non possiamo proseguire con comportamenti timidi e ambivalenti.

Nel Dp si notano omissioni e assenze importanti, che occorrerà colmare con i contenuti necessari: anche se si citano gli avvenimenti storici della Chiesa latinoamericana, questi non vengono messi sufficientemente in connessione con la storia del cammino profetico e pastorale della Chiesa latinoamericana, che ha cercato di parlare e di agire a partire dalla maggioranza dei poveri del continente. Nel Dp si impostano le cose come se non fosse mai esistito questo cammino ecclesiale latinoamericano. La Chiesa non improvvisa in ogni momento il proprio agire nel popolo; essa ha una storia che la sostiene, una tradizione che le dà senso e con la quale stabilisce una continuità. Se dimentichiamo questo riferimento alla tradizione, torniamo ad essere vele in balìa del vento delle congiunture sociali, senza orientamento.

Tra le assenze più importanti vi sono quelle della pastorale afro, delle Cebs, delle donne, dei diversi e, soprattutto, della Pastorale indigena, scomparsa praticamente dal Dp. È vero che si parla di indigeni (n. 127) ma solo come oggetto della preoccupazione, della evangelizzazione o della promozione della Chiesa, non come soggetti e attori all'interno di essa. Che è ciò che ci si sarebbe aspettati dopo l'enorme avanzamento registrato a Santo Domingo, dove si è inclusa la tematica indigena nei dibattiti e nel documento finale.

I popoli indigeni sono profondamente religiosi e possono offrire un grande contributo alla Chiesa e, insieme ad essa, a questa società che ha perso il suo senso religioso. La nostra prospettiva religiosa coincide meravigliosamente con la visione di Nostro Signore Gesù Cristo, perché è integrale, antisistemica e sogna che "un altro mondo è possibile". La Chiesa guadagnerà molto se si aprirà decisamente agli indigeni e li incorporerà. È questo il momento di superare definitivamente la protesta di Juan Diego di fronte alla Tonantzin Guadalupe: "Mi mandi in un luogo dove non vado e non mi fermo", realizzando un'inclusione non solo degli individui indigeni presi in maniera isolata, ma dei popoli con la loro storia, con le loro organizzazioni, con le loro culture e la loro esperienza religiosa; con la loro teologia e i loro ministeri autoctoni.

Dobbiamo aiutare i nostri pastori a superare le loro paure e i loro pregiudizi rispetto all'attuale cammino indigeno. Non siamo nemici della Chiesa che bisogna respingere o controllare; siamo piuttosto alleati strategici per i molti semi del Verbo esistenti tra di noi. La recente dichiarazione della Santa Sede, per la diocesi di san Cristóbal de Las Casas in Chiapas, riguardo alla "sospensione di eventuali ordinazioni di diaconi permanenti finché non si sia risolto il problema ideologico di fondo", manifesta la difficoltà che ancora persiste per l'inclusione degli indigeni all'interno della Chiesa. Ci fa male constatare che nella Chiesa si ascoltano più facilmente le voci di quanti si oppongono al processo indigeno di quelle di chi ci accompagna nel cammino. I nemici della causa india sfruttano le paure che esistono verso chi è diverso per rinfocolare la xenofobia contro gli indigeni e contro quanti non sono né pensano come la società dominante.

Il clima di sospetto permanente verso gli indigeni, all'in-terno della Chiesa, può generare conseguenze negative a lungo e medio termine. È possibile che l'aggressione persistente contro gli indigeni faccia sì che alcune sorelle e fratelli indigeni gettino la spugna per non continuare ad essere colpiti da questa porzione della Chiesa cattolica che si mostra incapace di comprendere l'emergere attuale dei nostri popoli, poiché lo confonde con i fantasmi sorti dalle sue paure di classe sociale e di etnia dominanti; è possibile che per tale rifiuto la lotta indigena si astenga d'ora in avanti dal continuare a cercare nella Chiesa spazi di appoggio e di solidarietà che alcuni ecclesiastici non vogliono offrire.

Quanti di noi hanno assimilato nel proprio essere l'a-more per il nostro popolo insieme all'amore per la Chiesa, continueranno a rivendicare in ogni occasione lo spazio degno che ci spetta nel mondo secondo il progetto di Dio. E sappiamo che coloro che, dall'interno della Chiesa di cui facciamo parte anche noi, assumono la causa indigena come propria continueranno ad essere nostre sorelle e fratelli di strada nella ricerca di un destino di vita che alcuni sistematicamente ci negano.

Gli indigeni cristiani non hanno bisogno di idealizzare le loro realtà per essere accettati. Non abbiamo la necessità di negare le ombre e gli aspetti negativi che esistono anche in noi e nei nostri popoli, e che richiedono conversione. Ma non dobbiamo neppure negare la verità di ciò che di buono e valido siamo e abbiamo. Dobbiamo sostenere con umiltà, nella Chiesa, che noi indigeni abbiamo i semi di un altro modo di essere e di vivere, più umano e più cristiano; sono i semi del Verbo che i nostri antenati ci hanno lasciato in eredità, che abbiamo conservato con cura e che possiamo offrire con amore all'intera umanità. La celebrazione della V Conferenza dell'episcopato latinoamericano è l'occasione propizia per tornare ad abbracciarci nella Chiesa come fratelli e unire gli sforzi per un mondo nuovo dove vi sia spazio per tutti con dignità, come l'hanno sognato i nostri antenati, come lo viviamo nei nostri rituali autoctoni e come lo ha delineato il nostro Signore Gesù Cristo. Che bello sarebbe se gli altri fratelli nella fede comprendessero la nostra parola e la nostra lotta all'interno della società e della Chiesa.

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