AFGHANISTAN: IL COMPROMESSO SULLA MISSIONE MILITARE DIVIDE IL MOVIMENTO PER LA PACE
Tratto da: Adista Notizie n° 53 del 15/07/2006
33481. ROMA-ADISTA. Il punto di partenza è chiaro e condiviso. Come hanno scritto nel loro ‘Appello al Parlamento' don Luigi Ciotti, don Tonio Dell'Olio, Gino Strada e padre Alex Zanotelli, "poiché, secondo l'art. 11, non è possibile usare la guerra come mezzo per risolvere le crisi internazionali, la prima scelta che si impone, che chiediamo al nuovo Parlamento, è quella di interrompere le missioni militari in teatri di guerra e ritirare le truppe italiane dall'Iraq e dall'Afghanistan".
Il problema è che, entro un quadro sostanzialmente dato di equilibri politici e rapporti di forza in seno alla coalizione di governo, il movimento pacifista italiano si trova in queste settimane ad affrontare l'annoso dilemma – per riprendere la distinzione usata da Max Weber nella celebre conferenza "Politica come professione" – tra "etica della convinzione" ed "etica della responsabilità". C'è infatti chi considera assolutamente non trattabile il rifiuto di qualsiasi appoggio alle missioni militari italiane in territorio di guerra, e c'è chi, al contrario, sostiene la necessità di raggiungere il compromesso più avanzato possibile, anche per tutelare la sopravvivenza di un governo doppiamente minacciato dall'esiguità della sua maggioranza parlamentare e dalle spinte neocentriste che, soprattutto facendo leva sulla politica estera, mirano a marginalizzare le forze della sinistra radicale e pacifista utilizzando la sponda fornita dall'opposizione di centrodestra.
Nei giorni scorsi l'Arci ha diramato un comunicato stampa in cui la situazione viene così descritta: "Continuiamo a credere che i soldati italiani, esposti sempre più a gravi rischi, andrebbero riportati a casa. Prendiamo purtroppo atto che oggi non ci sono le condizioni perché la maggioranza decida il ritiro unilaterale della missione. In questa situazione, non crediamo di poterci limitare a manifestare il nostro dissenso chiudendoci in una posizione di pura testimonianza. Crediamo invece sia possibile che il voto parlamentare produca scelte e strumenti capaci di segnare una discontinuità e favorire una svolta nel prossimo periodo".
Ed è proprio il compromesso raggiunto in sede di Consiglio dei ministri – in attesa del voto parlamentare del prossimo 17 luglio (e di eventuali emendamenti) – ad essere oggetto di divergenti pareri all'interno della variegata galassia del movimento no war. L'accordo, oltre a sancire il "rientro completo entro l'autunno" dei militari italiani dall'Iraq, prevede che in Afghanistan non ci sarà alcun aumento di uomini e mezzi, aumenteranno le risorse per la cooperazione e la ricostruzione, e non ci saranno spostamenti nel sud del paese, zona che rimane "teatro di guerra".
Don Tonio Dell'Olio, uno dei firmatari dell'"Appello al Parlamento" nonché responsabile dell'area internazionale di Libera, difende il documento approvato definendolo "un piccolo passo, ma nella direzione giusta. Certo – puntualizza don Tonio – non è definita una exit strategy, quella che avevamo richiesto. Ma ci sono i primi segnali di un nuovo modo di concepire la nostra politica internazionale". "Da cattolico militante", aggiunge il sacerdote, "ho una certa sensibilità per i temi etici. E la mia etica mi dice che è giusto fare di tutto per dare un panino a chi ha fame. Ma se non ce la faccio a dare quel panino, è meglio che gliene dia almeno la metà. Piuttosto che nulla".
Don Alberto Vitali di Pax Christi è più scettico: "Il compito della politica è la mediazione e mi sembra ci si è accontentati un po' presto, le garanzie sono davvero poche. Dopodiché noi non siamo politici e il nostro compito non è mediare, ma indicare la strada. Se dovessi usare un'immagine direi che se il profeta e il re confondono i ruoli siamo fritti. Ma la situazione è questa: otto politici tengono alto il livello della profezia e tanti movimenti pacifisti guardano al compromesso migliore".
Fra le posizioni più intransigenti vi è quella del fondatore di Emergency, Gino Strada, chirurgo impegnato da anni in Afghanistan nell'assistenza delle vittime di guerra. "Il vero problema su cui la politica sta annaspando", ha dichiarato Strada, "è la necessità di inventare un trucco. Una formula per poter tenere i militari a fare il lavoro per il Padrone [gli americani, ndr], dando allo stesso tempo una carota a quella parte della maggioranza che sa – dovesse votare per il rifinanziamento – di trovarsi in linea di collisione con i propri elettori". "Se i partiti di quell'area votassero per la guerra, ne pagherebbero un prezzo politico e di consenso devastante. Un prezzo ancora maggiore finirebbero col pagare se cercassero di truccare le carte, di fare passare inosservata o camuffata la scelta della guerra. ‘No alla guerra, senza se e senza ma' è espressione certamente efficace. Oggi si può darle concretezza". "Sta a loro decidere. Penso solo sia mio dovere, come cittadino che fa parte del popolo di Emergency e del movimento per la pace, riaffermare che chi sceglierà la guerra lo farà not in my name, non a mio nome".
Totalmente contrario a qualsiasi ipotesi di compromesso – sebbene da una posizione diversa da quella di Strada - anche il leader dei Cobas Piero Bernocchi. Bernocchi fornisce per altro una interessante interpretazione della spaccatura in seno al movimento pacifista: "Tagliando le cose con l'accetta", scrive in un articolo apparso su Liberazione (1/7), "possiamo dire che finora nel movimento no war hanno coesistito due grandi filoni: uno, quello pacifista integrale, che si è dichiarato contro ogni guerra ma anche lontano da ogni forma di resistenza armata"; "e un altro, classicamente antimperialista, che si oppone alla guerra permanente Usa anche appoggiando le resistenze armate". "La seconda componente si è rivelata largamente maggioritari sia nel Forum di Caracas sia in quello di Atene, mentre può darsi che la prima sia più cospicua in Italia. Ma sarebbe a dir poco bizzarro che proprio essa, così restia a qualsiasi uso della forza, approvasse l'inaccettabile tesi governista della ‘riduzione del danno'. Avrebbe fatto la stessa cosa se a proporre una formula del genere fosse stato Berlusconi? Temo che incomba la ‘sindrome del governo amico'".
Lisa Clark, dei Beati i costruttori di pace, difende invece il compromesso raggiunto sull'Afghanistan: "Il passo avanti è notevole per la causa della pace nel governo: come chiedevamo è stata rimandata al mittente la richiesta della Nato e si sono dati sei mesi per cambiare il senso della missione. Forse sono ottimista, ma l'accordo non mi sembra da mal di pancia". (emilio carnevali)
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