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E ORA DIAMO SPAZIO ALLA VISIONE DEI VINTI Intervista a Eleazar López

Tratto da: Adista Documenti n° 22 del 17/03/2007

D: Come sta reagendo il popolo indigeno del Chiapas alla decisione vaticana di sospendere l'ordinazione di diaconi indigeni?

R: Si tratta di una sospensione temporanea, che durerà finché non verranno chiariti i dubbi relativi alle ragioni che animano il progetto del diaconato indigeno. Noi pensiamo che questi dubbi verranno chiariti, perché, in caso contrario, si chiuderebbero definitivamente le porte all'azione dello Spirito, grazie a cui nel mondo indigeno sono rifioriti i ministeri, sono sorte tali vocazioni. I vescovi di San Cristóbal hanno accettato la decisione "con dolore", e con l'intenzione di continuare a insistere. E un dolore ancora più grande hanno provato i candidati al diaconato, quelli che si stavano preparando all'ordinazione. Tutto il mondo indigeno messicano si è sentito colpito. Eppure chi esce peggio dalla vicenda non sono i popoli indigeni, ma la Chiesa come istituzione. Perché, se tale questione non verrà risolta in un tempo ragionevole, saremo responsabili, come Chiesa, del peccato di sbarrare il cammino dello Spirito sul terreno dell'inculturazione. E allora i popoli indigeni an-dranno avanti per la loro strada: è questo il rischio più grande e noi dobbiamo aiutare la Chiesa a superarlo. I diaconi dicono: noi assumeremo il carico di dolore di que-sto parto, ma il figlio alla fine nascerà, questa realtà nuova dovrà necessariamente sorgere. E ciò che sta succedendo in Chiapas sta ispirando la lotta in altri luoghi. In questa lotta indigena all'interno della società messicana e della Chiesa c'è sempre più consapevolezza che tutte le conquiste hanno un prezzo. Anche questa ci costerà, ci costerà sofferenza. Ma fa parte della tradizione religiosa dei popoli indigeni pensare che non vale la pena nulla che non costi dolore. Dobbiamo prenderci carico della croce che ciò comporta. Ma io credo che noi ci meritiamo questo figlio anelato e atteso con tanto amore.

Il processo di Chiesa autoctona avviato da mons. Sa-muel Ruiz sta andando avanti?

Il processo non si arresterà. Quanto è successo è con-siderato soltanto un ostacolo lungo il cammino. E questo lo pensano tanto i vescovi quanto il popolo. Pensiamo alla canonizzazione dell'indigeno Juan Diego. È stato un fatto di grande portata simbolica, con cui la Chiesa come istituzione ha riscattato il principio della "vox populi vox Dei". Penso che stia succedendo lo stesso nell'ambito della Chiesa autoctona. Quando il popolo non si sente più un semplice destinatario dell'azione altrui, ma vuole assumere un ruolo attivo all'interno della Chiesa, allora inizia a cam-minare con le proprie gambe. Forse siamo stati ingenui a pensare che la camminata sarebbe stata veloce. Ma anche i primi cristiani pensavano che il Regno di Dio sarebbe giunto alla generazione successiva. E invece il Regno di Dio tarda: bisogna costruirlo, partecipare alla sua edificazione. Il Chiapas è servito come paradigma: ci ha insegnato che bi-sogna saper avanzare con cautela, ma senza rinunciare alla lotta, continuando ad essere costruttori di una Chiesa e di una società che ci includa in maniera degna. Riguardo alla teologia indigena, che è una teologia fatta dalle comunità, il lavoro sta procedendo. Continua, attraverso simboli e ri-tuali, l'elaborazione delle piccole comunità di fede sulla loro vita, la loro problematica, la loro lotta: una teologia che serve loro per continuare a camminare. Ma ora che abbiamo sacerdoti e religiose indigeni, che inevitabilmente fanno uso di una terminologia istituzionale, questa produzione po-polare viene codificata in un linguaggio che appartiene ad altri settori della Chiesa, un linguaggio di cui non siamo i padroni. Bisognerebbe invece avvicinare membri della Chiesa di fuori, vescovi e sacerdoti non indigeni, a questa teologia nella sua elaborazione diretta, cioè nelle stesse comunità. E questo ci sta costando molto lavoro, perché c'è difficoltà a riconoscere in ciò una teologia. Credono che sia altro, che sia saggezza, che siano riflessioni delle comunità, ma questo dipende dal fatto che si usa un parametro occidentale, uno schema che valorizza la razionalità senza tener conto del senso profondo delle cose. Per questo è necessario che alcuni nostri fratelli indigeni si facciano ponte di comunicazione. E questo sta succedendo. Ogni anno si tengono in Messico incontri di teologia maya, riunioni degli operatori di pastorale indigena, incontri di sacerdoti indigeni, di religiose indigene, di laici indigeni e un'assemblea che riunisce tutti i rappresentanti. E ciò all'interno di un processo che include, oltre alla teologia indigena, anche la pastorale indigena, l'evangelizzazione indigena, i progetti produttivi, la salute comunitaria, i diritti indigeni. In questo processo, alcuni di noi sembrano svolgere un ruolo decisivo, tanto che l'istituzione crede che colpendo noi eliminerà il problema. Ma si sbaglia: si po-tranno far tacere alcune voci, ma il processo andrà avanti comunque.

Riguardo alla tua vicenda personale, i problemi sono stati risolti?

Da gennaio a luglio dell'anno passato ho guidato la parrocchia di Santa Maria Petapa e questa è stata per me un'esperienza di enorme interesse. Era il contesto in cui si è svolta, il fatto di essere stato inviato lì contro la mia vo-lontà, a complicare le cose. Sono una persona di Chiesa, ho detto al vescovo, credo nell'istituzione: se lei dice che devo andare, io vado, obbedisco. Al termine dei sei mesi previsti dall'accordo, dopo aver espresso al vescovo la mia grati-tudine, perché comunque il fatto di avermi dato una par-rocchia stava ad indicare che egli aveva fiducia nella mia ortodossia, ho ricevuto un invito da parte dei vescovi della regione Pacifico Sud, Chiapas e Oaxaca, a partecipare ad un'assemblea sul tema dell'inculturazione. Io davo per scontato che avessero chiesto l'opinione del mio vescovo e che egli avesse accettato, dal momento che mi ero man-tenuto fedele all'impegno preso. Ma una settimana prima dell'evento il vescovo che mi aveva invitato mi ha chiamato per dirmi che non potevo intervenire perché il mio vescovo non aveva dato l'assenso: i suoi superiori, mi ha spiegato poi quest'ultimo, si erano lamentati per quanto avevo scritto sulla Conferenza di Aparecida, raccogliendo le voci di sacerdoti indigeni e di altri gruppi in un'assemblea con-vocata dalla Conferenza episcopale messicana. Io avevo sot-tolineato come, durante la prima evangelizzazione, la Chiesa non avesse dialogato con i popoli indigeni; come, anzi, li avesse abbandonati e non si fosse curata di loro per 400 anni, invertendo la rotta solo negli ultimi 50. La visione che si è imposta è quella dei vincitori, ma, affermavo, è necessario ascoltare l'altra versione della storia, quella dei vinti, perché sono loro che hanno sofferto le conseguenze di una evangelizzazione mal fatta. Altrimenti non faremmo che ripetere gli errori del passato. Per alcuni, dietro la mia rivendicazione rispetto al protagonismo indigeno nella Chiesa, vi sarebbe un'ideologia. Che è poi la stessa cosa che hanno detto riguardo alla questione dei diaconi indigeni. Tutti, però, siamo mossi da un'ideologia, perché questa dipende dall'ambiente sociale in cui viviamo, dalla nostra formazione, ecc. Non possiamo pensare che il nostro sguardo sulla realtà sia totalmente neutrale. Chi è senza ideologia scagli la prima pietra. L'importante è avere chiaro quale ideologia ci sta muovendo, per essere in grado di fare autocritica, di capire se i propri criteri di valutazione sono estranei al Vangelo. Neppure si può attaccarmi come nemico della Chiesa solo perché la critico: l'amore, infatti, passa per la critica. In ogni caso, riguardo alla mia vicenda personale, il dialogo sta andando avanti.

E quali sono le tue valutazioni rispetto ad Aparecida?

Ogni Conferenza dell'episcopato latinoamericano è stata un campo di battaglia tra gruppi diversi. Così è stato per Medellín, per Puebla, per Santo Domingo, e così sarà anche per Aparecida. Il Documento di partecipazione è frutto del lavoro di un solo settore, che ha usato i propri parametri. Ma questo settore dovrà fare i conti con gli altri, con le loro osservazioni critiche. E probabilmente, nella bozza a cui ora si sta lavorando, e che sarà la base del documento finale, le voci che non erano state ascoltate prima avranno il loro spazio. E poi c'è la voce dello Spirito, che opera spesso in maniera inusitata, inattesa. Così è stato a Santo Domingo, dove, malgrado le non buone premesse, la prospettiva indigena è stata alla fine incorporata nel documento finale. Anche da Aparecida può uscire qualcosa di buono. E vi sono due elementi che autorizzano a nutrire qualche spe-ranza: il fatto che questa assemblea si svolga in Brasile, dove si trova una delle Chiese più combattive dell'America Latina, e che si tenga ad Aparecida, in un santuario, dove non sarà possibile prescindere dalla religiosità popolare. È un po' come per il Forum Sociale Mondiale: una cosa è far-lo a Porto Alegre, in una struttura separata dagli spazi po-polari, e un'altra è farlo in India in mezzo ai dalit. Ad Apa-recida la logica episcopale dovrà necessariamente fare i conti con la logica popolare.

A livello politico sembra che le novità più rilevanti vengano dal mondo indigeno. Cosa ha significato in tal senso l'elezione del primo presidente indigeno?

È stato motivo di grandissima speranza. Ma siamo consapevoli che un progetto di nazione non cambia solo perché un indigeno viene eletto presidente. Ci vuole molto di più. Per questo, in Messico, l'"Altra Campagna" guidata dagli zapatisti sostiene la necessità di non riporre le proprie speranze neppure nella sinistra, perché questa non è ne-cessariamente capace di guidare le lotte dei poveri. Che poi è il caso della sinistra messicana che, per quanto abbia incorporato gli accordi di San Andrés nel suo programma, non intende modificare sostanzialmente il progetto neoli-berista.

Il mondo indigeno sembra esprimere oggi due posizioni: quella zapatista del cambiare il mondo senza prendere il potere e quella boliviana del prendere il potere per cambiare il mondo. Quale delle due ti convince maggiormente?

La storia giudicherà le ragioni di ognuna. Di certo, entrambe presentano rischi. Riguardo alla posizione boli-viana, non necessariamente il governante che viene dal po-polo, in questo caso il popolo indigeno, sarà in grado di assumere il progetto popolare, perché si trova di fronte il grande potere transnazionale, con il quale è costretto a scendere a patti. Nel caso del Messico, in base alla posizione zapatista, non è determinante la conquista del potere, ma il fatto che la società civile, che è più ampia del popolo in-digeno, sia la vera protagonista della vita politica. E ciò richiede che non ci si organizzi unicamente in vista delle elezioni, ma ci si mobiliti permanentemente per esigere dai governanti il rispetto degli impegni assunti. Si sta lavorando in questa direzione: malgrado tutte le difficoltà che si sono registrate nelle ultime elezioni, il popolo messicano non si è arreso.

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