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IL RISCHIO DI UNA CHIESA AUTOREFERENZIALE. UN BILANCIO SULLA CONFERENZA DI APARECIDA

Tratto da: Adista Documenti n° 46 del 23/06/2007

DOC-1872. APARECIDA-ADISTA. Poteva andare peggio: è questa l’impressione che emerge dai primi bilanci sulla V Conferenza dell’episcopato latinoamericano, conclusasi il 31 maggio scorso (v. Adista n. 42/07). Sarà perché le aspettative della vigilia erano molto basse, sarà perché il documento conclusivo della Conferenza ribadisce, almeno formalmente, alcune opzioni decisive nella tradizione della Chiesa latinoamericana, fatto sta che il giudizio globale riflette un certo sollievo da parte progressista.
Ad Aparecida, per prima cosa, la Teologia della Liberazione - data innumerevoli volte per morta o per moribonda; colpita nuovamente, proprio alla vigilia della Conferenza, attraverso la Notificazione ad uno dei suoi esponenti più prestigiosi ed amati, il gesuita Jon Sobrino; criticata da Benedetto XVI prima ancora di atterrare in suolo brasiliano (v. Adista nn. 35 e 36/07) - ha trovato pieno diritto di cittadinanza: i teologi di Amerindia hanno potuto svolgere il loro lavoro di supporto ai vescovi alla luce del sole, e non semiclandestinamente come avvenuto nel 1992 a Santo Domingo (con il rischio, tuttavia, di finire per legittimare i modesti risultati della Conferenza).
Un indubbio successo dell’ala progressista viene considerato il recupero, rispetto a Santo Domingo, del metodo “vedere-giudicare-agire” proprio della tradizione latinoamericana, sempre malvisto in Vaticano. Recupero esplicitato nel Documento conclusivo (che, pur non essendo pubblico - lo sarà solo dopo la revisione vaticana - già circola in internet; v. ad esempio il sito www.atrio.org), laddove, al paragrafo 19, si legge: “Questo documento porta avanti la pratica del metodo ‘vedere, giudicare e agire’, utilizzato in precedenti Conferenze generali dell’episcopato latinoamericano. Molte voci provenienti da tutto il Continente hanno offerto contributi e suggerimenti in tal senso, affermando che questo metodo ha contribuito a vivere più intensamente la nostra vocazione e missione nella Chiesa, ha arricchito il lavoro teologico e pastorale e in generale ci ha spinto ad assumere le nostre responsabilità di fronte alle situazioni concrete del nostro continente”. Con ciò, ha commentato uno dei delegati brasiliani alla Conferenza, il vescovo di Jales dom Demetrio Valentini, la Conferenza “ha concretizzato uno dei suoi obiettivi più grandi, quello di riprendere il cammino della Chiesa dell’America Latina, rafforzandone l’identità propria e superando perplessità che ne ostacolavano l’azione”.
Peccato che, una volta affermato, il metodo non sia stato poi applicato in maniera rigorosa, essendo l’analisi della realtà - il “vedere” - preceduta da un capitolo introduttivo su “I discepoli missionari”: come racconta il teologo argentino di Amerindia Eduardo de la Serna, la richiesta di spostare questo capitolo all’inizio della seconda parte è stata respinta, in sede di votazione, malgrado fosse presentata da ben 16 presidenti di Conferenze episcopali. A esprimersi contro, prima del voto, è stato il card. Jorge Mario Bergoglio, presidente della Conferenza episcopale argentina e della Commissione di redazione, secondo cui, rispetto alla durezza della realtà, era meglio cominciare con una sorta di dossologia (inno di lode a Dio).
Di grande importanza, sottolineano i commentatori, anche il fatto che il documento riaffermi l’opzione per i poveri, nonostante l’aggiunta di aggettivi - non solo “preferenziale” ma anche “evangelica” - e la costante verniciatura paternalista ne riducano sempre più l’impatto. Come pure viene evidenziato il riconoscimento delle Comunità ecclesiali di base (Cebs), per quanto, nel succedersi delle redazioni, abbia perso rilievo (con il taglio di alcuni paragrafi) e chiarezza (essendo le Cebs molte volte confuse con le piccole comunità, che spesso indicano realtà diverse).
Grave l’assenza di un qualsiasi riferimento esplicito al neoliberismo (e men che meno al capitalismo), tanto più di fronte alle molte richieste di inserire una denuncia al riguardo. Un’assenza che, se stride con critiche assai puntuali su molti aspetti dell’attuale modello economico, è perfettamente in linea con l’affermazione, al paragrafo n. 69, che “l’Economia sociale di mercato continua ad essere la forma idonea di organizzare il lavoro, la conoscenza e il capitale” (“suppongo - commenta de la Serna - che il Fondo Monetario Internazionale ringrazierà per questa mano ricevuta”). Scontate le critiche implicite al governo Chávez (nel riferimento, al par. 74, a “diverse forme di regressione autoritaria per via democratica che si traducono in regimi di taglio neopopulista”), come pure, malgrado il riconoscimento degli sforzi di integrazione in atto nel continente, l’assenza di riferimenti al modello di integrazione più avanzato e innovativo, quello dell’Alba (l’Alternativa bolivariana delle Americhe). Nessun cenno - e forse questo era meno scontato - ai vescovi martiri Oscar Romero ed Enrique Angelelli.
Ma al di là delle presenze e delle assenze di singoli temi (sempre pressoché ignorato quello del ruolo della donna nella Chiesa), al di là persino della mancanza di una qualunque proposta innovatrice (come poteva essere quella sull’ordinazione dei viri probati, più che giustificata dalla preoccupata constatazione della mancanza di sacerdoti, a fronte dell’insistenza martellante sulla centralità della celebrazione eucaristica nella vita della Chiesa), è sulla prospettiva generale del documento, quanto mai distante da quel regnocentrismo su cui pone l’accento la Teologia della Liberazione, che sorgono le maggiori preoccupazioni. Una prospettiva “ecclesiocentrica e autoreferenziale”, tutta intrisa di “nostalgia della cristianità”, che, sottolinea il teologo brasiliano Marcelo Barros, non consente di nutrire grandi speranze di cambiamento. Riportiamo qui di seguito, in una nostra traduzione dal portoghese, l’intervento del teologo, preceduto dall’indice generale del lungo Documento conclusivo della Conferenza. (claudia fanti)

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