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LA MEMORIA SELETTIVA DELLA CHIESA SPAGNOLA: I “MARTIRI DELLA CROCIATA DI FRANCO” DIVIDONO IL PAESE

Tratto da: Adista Documenti n° 78 del 10/11/2007

DOC-1920. MADRID-ADISTA. La Chiesa spagnola avrà magari fatto segnare un nuovo record – la cerimonia di beatificazione dei 498 martiri della guerra civile è stata la più imponente della storia – ma avrà poco altro di cui gioire: la contestazione di un gruppo di militanti dei centri sociali davanti alla basilica opusdeista di Sant’Eugenio a Roma è stato nulla di fronte alle aspre polemiche che da mesi scuotono la Spagna sulla questione delle vittime della guerra civile, scatenata nel 1936 dopo un golpe militare sostenuto e benedetto dalla gerarchia cattolica (una guerra in cui morirono 150mila persone, tra cui 7mila tra preti, religiosi e religiose). Che a piazza S. Pietro (peraltro meno affollata di quanto auspicato dalla Conferenza episcopale), il 28 ottobre, sia stata onorata una memoria estremamente selettiva di quella tragedia non è infatti cosa che contribuirà a sanare le ferite del passato. Tanto più che la beatificazione di quelle 498 vittime di una sola fazione è avvenuta in sospetta coincidenza con la discussione sulla Legge della memoria storica destinata, secondo le intenzioni del governo socialista, a riabilitare le vittime repubblicane della guerra civile e della dittatura di Franco. E tanto più, soprattutto, di fronte all’assenza di una benché minima autocritica da parte della gerarchia, che non ha mai chiesto perdono per l’appoggio prestato al colpo di Stato e all’interminabile dittatura che ne è seguita. Né si è mai preoccupata di analizzare per quale motivo la Chiesa potesse essersi attirata tanto odio.

 

Chi manca

Nessuno, nella gerarchia, ha reso omaggio, tra tanti, a Jeroni Alomar, un prete di Llubí, a Maiorca (dove, malgrado non si fossero registrate violenze nei confronti delle classi dominanti e del clero, la repressione seguita al golpe fu sanguinosissima), fucilato nel giugno del 1937 per aver messo in salvo alcune persone, facilitandone la fuga in Algeria. Ma grande sconcerto ha destato, soprattutto, il silenzio sui 16 sacerdoti baschi fucilati dalle truppe franchiste nei primi mesi della guerra civile: perché loro no?, hanno protestato i familiari. Eppure, come ricorda, su El País del 27 ottobre, lo storico Hilari Raguer dell’abbazia di Montserrat, uno dei massimi esperti sulla Chiesa della guerra civile e del franchismo, Pio XI non mancò di riconoscere che “nella Spagna di Franco” si fucilavano “i sacerdoti come tra i repubblicani”.

Lunga è stata del resto la resistenza opposta da Roma alla proclamazione del martirio delle vittime della guerra civile, malgrado gli sforzi profusi in tal senso dalla gerarchia spagnola fin dalla vittoria dei golpisti il primo aprile del 1939. Ad opporsi, in Spagna, alle beatificazioni c’era peraltro anche il card. Vicente Enrique Tarancón, odiato dai franchisti, che non esitarono a scrivere sui muri di tutta Spagna la frase Tarancón al paredón, Tarancón al muro. È stato solo con Giovanni Paolo II che la gerarchia spagnola ha potuto esaudire il suo sogno di vedere sugli altari i “martiri della crociata di Franco” (471 tra il 1987 e il 2001). E ancora attendono il loro turno altre 863 vittime, sempre della stessa fazione, di cui i vescovi spagnoli vorrebbero la beatificazione nei prossimi mesi.

 

Chi c’è

Tra le vittime beatificate il 28 ottobre, poi, non tutte sono come Bartolomé Blanco Márquez, che, prima della sua fucilazione, avvenuta, all’età di 22 anni, il 2 ottobre del 1936, scrisse in una lettera di addio: “Vi chiedo di vendicarmi con la vendetta del cristiano: rispondendo con il bene a quanti hanno cercato di farmi del male”. Tra i 498, c’è infatti persino un torturatore, come ha evidenziato il vaticanista John Allen del National Catholic Reporter: è l’agostiniano Gabino Olaso Cabala, missionario nelle Filippine (prima di far ritorno in Spagna nel 1900), e la sua vittima è Mariano Dacanay, un sacerdote accusato di simpatizzare con il movimento che chiedeva l’uscita degli spagnoli dall’ex colonia asiatica. È lo stesso Dacanay a raccontare nei suoi scritti le torture subite alla presenza degli agostiniani, tra i quali si mostrava particolarmente attivo, nel prendere parte alle torture, proprio Gabino Olaso. Ma senza arrivare a tale estremo, si può segnalare tra i beati, ad esempio, un prete come Saturnino Ortega, parroco a Talavera, che un libro (La guerra civil en Talavera de la Reina. Conflicto bélico, represión y vida cotidiana, di José Pérez Conde, Juan Carlos Jiménez Rodríguez e Benito Díaz Díaz) descrive come “chiaro rappresentante della Chiesa più conservatrice e più saldamente alleata con i settori economici dominanti della città”, un difensore a oltranza dei potenti che, rispetto alle rivendicazioni delle associazioni operaie per migliori condizioni di vita e di lavoro, “predicava la rassegnazione cristiana di fronte alle ingiustizie”. Se nulla può giustificare il suo crudele assassinio, resta tuttavia il fatto, come scrive Emilio Sales Almazán su Rebelión del 24 ottobre, che tale crimine “non giustifica la sua ideologia politica” né autorizza a proclamarne il martirio, in quanto fu proprio per quella ideologia che venne ucciso e non per odio della fede. Ed è qui che entra in gioco la discussione sulla possibilità o meno di considerare martiri i 498 beatificati: vennero davvero uccisi in odium fidei, come sostiene la gerarchia, o non piuttosto per motivazioni politico-ideologiche? Perché quello che viene considerato di ostacolo alla canonizzazione di mons. Oscar Romero e di tanti altri martiri delle dittature militari latinoamericane diventa irrilevante nel caso delle beatificazioni di massa delle vittime della guerra civile spagnola? C’entrerà qualcosa l’ostilità della Chiesa nei confronti del governo Zapatero, l’intenzione di dare una mano, come sottolinea il teologo José María Castillo, a “quanti si sentono eredi di quegli spagnoli considerati oggi come martiri di una crociata”?   

A tali questioni cercano di dare risposta, tra i tanti commenti apparsi sulla stampa, gli interventi del teologo José María Castillo (ripreso da Ideal de Granada dell’11 ottobre) e del domenicano Quintín García González (pubblicato da El País il 28 ottobre) Li riportiamo qui di seguito in una nostra traduzione dallo spagnolo. (claudia fanti)

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