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1978 - ALDO MORO E PEPPINO IMPASTATO

Tratto da: Adista Notizie n° 2728 del 05/04/2008

È l’anno che rimarrà per sempre nel marchio di un giorno, quando si spezzò, per scelta, il filo profondo della politica italiana ancora segnata dal secondo dopoguerra. E quel giorno è il 9 maggio. Di fronte al cadavere di Aldo Moro, nel silenzio tombale della ragione mascherato dal chiasso della ridda delle analisi, l’Italia confusamente avvertì che la guerra dovuta al fascismo non era finita, perché non era stato risolto il nodo del governo della convivenza democratica, della convivenza tra diversi. Nodo squisitamente politico, e che solo o il cinismo di un potere antidemocratico o l’idiozia dell’indifferenza può relegare nella casualità del ‘gioco’ sociologicamente osservabile. È un nodo che richiede la lungimiranza di un progetto intorno a cui poter stringere il patto del con-vivere. E la mediazione è per Moro questo progetto. Dunque, la mediazione non è una tattica per Moro – formato nella Fuci di Montini segnata dal pensiero della laicità cristiana, personalista e antifascista di Mounier e di Maritain - ma l’essenza del progetto politico stesso: la convinzione del seme di verità presente nell’altro, la convinzione che il Paese non crescerà – moralmente, umanamente, economicamente – se non insieme, come ribadirà poi quella Chiesa conciliare formata all’idea della politica come massimo di bene comune perseguibile. Chiesa che in questo anno, simbolicamente, vede la morte di Paolo VI e di Giovanni Paolo I, avventurandosi nella svolta dell’elezione al soglio pontificio di Giovanni Paolo II, il papa che certo non amò né la mediazione né la formazione della coscienza intesa come prioritaria dalla cultura ecclesiale della "scelta religiosa". Ma c’è qualcosa di più e di più profondo nella mediazione contra spem cercata da Moro al prezzo della vita. C’è la scelta della direzione da imprimere al progetto politico della cittadinanza comune, che egli sapeva benissimo non essere neutrale: la scelta di un incontro con la sinistra per emancipare definitivamente questo Paese dal suo fascismo latente e costruire un’Italia dove l’accezione di ‘popolo’ fosse quella declinata nell’impianto della Costituzione, il cui testo aveva contribuito a scrivere come membro della Costituente. La ricerca della ragione come ricerca dell’alterità, che Moro ha forgiato in sé negli anni della Fuci, è la ricerca che lo condurrà fuori le mura del ‘consentito’ dai poteri occulti del tempo. Sui miasmi e i ‘misteri’ di questi poteri non manca la cronaca e la letteratura del senno di poi (basti pensare al comitato di crisi messo in piedi per affrontare il rapimento dello statista e composto in gran parte da membri della P2, la loggia massonica che perseguiva il disegno esattamente opposto a quello di Moro, ovvero esautorare la politica a vantaggio dell’autoritarismo di capitali, poteri e ‘governi’). A noi qui preme solo ricordare il senso di un problema politico che fu messo a nudo con il delitto delle Br, ‘utili idioti’ dei poteri antidemocratici nazionali e internazionali. Lo Stato democratico era in decomposizione e le forze popolari antifasciste erano ferme nella fissità del fatalismo d’appartenenza, cattolico o comunista che fosse, invece di svolgere e tessere insieme il filo avvolto nella Costituzione.

E il 9 maggio, in un quasi demoniaco appuntamento del delitto della politica, viene trovato morto, ucciso dalla mafia, Peppino Impastato: il giornalista che - militando in Democrazia Proletaria, e quindi lontano anni luce dal moroteismo inteso come tattica concreta - persegue anch’egli la lotta per la democrazia e dal profondo di una Sicilia data in pasto, letteralmente, a Cosa Nostra, ha il coraggio di gridare dalla sua radio che il Re è nudo, denunciando puntualmente lo scempio della Cosa pubblica perpetrato dalla politica mafiosa. Da origini assai distanti può nascere lo stesso fine, lo stesso seme di una polis da condividere. Ecco perché, con la sua politica, Moro voleva guidare il Paese oltre le sabbie mobili delle identità ‘confessionali’, uscendo dalle secche di ogni ‘dottrina’ per ‘negoziare’, o meglio per concordare, una vita reale umanamente dignitosa e possibile per tutti. C’erano anche allora ‘i non negoziabili’, come la difesa della vita, ma il dialogo con la sinistra produsse, di fatto, la mediazione della 194, la legge che regolamenta e depenalizza l’aborto non certo secondo criteri edonistici e radicali, approvata il 14 aprile. Certo, la stagnazione di tanta parte della "solidarietà nazionale" (a partire dalla asfittica "linea della fermezza") getta spesso una luce negativa sull’idea stessa di mediazione. Ma al governo di quella ‘solidarietà’ ci fu Giulio Andreotti, e non Moro. (maria rita rendeù)

 

PADRE BALDUCCI: MORO, IL LAICO DELLA RAGIONE

 

6167) Roma-adista. (...) io non ho più, ormai da anni, molta simpatia per la parte politica di cui egli è l’esponente. E non ho nemmeno dimenticato dolorose riserve sul suo operato politico, specie durante la guerra del Vietnam. Detto questo, posso liberamente dire la mia ponendomi al di sopra dello stato emotivo in cui mi trovo. (...) Il primo merito di Moro, in rapporto al mondo cattolico, è di aver mantenuto le distanze da ogni forma di integralismo, anche in tempi come quelli della lotta sul divorzio. Magari col silenzio. Ma il silenzio in mezzo alla loquacità fanatica e già un linguaggio. Nei momenti decisivi Moro è riuscito a far compiere al mondo cattolico il "passo della ragione". Anche quando i cardinali lo scongiuravano di fermarsi "in nome di Dio". Tra i credenti Aldo Moro ha testimoniato la laicità della ragione e di fronte a molti laicisti, viziati anch’essi di confessionalismo, ha testimoniato che la razionalità non è necessariamente quella illuministica, è quella che si svolge con i tempi della crescita storica. Per questo, Moro non appartiene alla storia della Democrazia Cristiana; appartiene e lo abbiamo capito in questi giorni alla coscienza del Paese, nella misura in cui essa, superando la logica di parte, è decisa a difendere il suo patrimonio razionale che si identifica intanto con la Costituzione e si specifica nella ricerca, particolarmente travagliata in questi ultimi anni, di una nuova forma di convivenza democratica. Ed è a questo punto che trova un senso il crimine di giovedì. Anche la follia infatti, ha una sua razionalità. Le centrali del terrorismo che io suppongo internazionali hanno messo sotto tiro l’Italia e in Italia gli uomini che in modo diverso portano avanti la trasformazione del Paese. (...) A dispetto di tutte le riserve politiche, anche legittime, da noi stanno confluendo, e forse saldandosi, due tradizioni popolari, rimaste emarginate dalla monarchia borghese post-cavouriana: quella dei movimenti cattolici e quella dei movimenti socialisti. La nostra Costituzione era nata da un provvisorio intreccio di queste tradizioni; oggi l’ideale unitario della Costituzione sta conquistando finalmente il suo corpo storico. Proprio in questi ultimi giorni gli uomini della Resistenza si trovano insieme e si riprendono in mano le istituzioni. Il quoziente di democrazia reale è, alla base del nostro popolo, più alto che in altri Paesi di lunga tradizione democratica. Da noi ad esempio, e lo abbiamo visto in questi giorni, anche la classe operaia è gelosa delle conquiste della democrazia antifascista. (...). Ebbene, uno degli artefici di questa crescita, se appena sappiamo spogliarci dello spirito di parte, è Aldo Moro. Egli ha due qualità che nei momenti decisivi lo hanno sempre stappato al suo troppo tedioso formalismo politico per metterlo sulla trincea delle scelte che preparano il futuro. Ha la capacità di guardare lontano, magari restando in silenzio, e di guardare lontano nella premura del bene comune, non della vittoria di parte. Non gli sfugge insomma la strategia reale che le cose col loro moto disegnano, ponendo le basi di un futuro diverso. In secondo luogo, Moro ha la capacità di cogliere, nel groviglio del presente, la linea razionale meglio rispondente alla strategia complessiva. (...) Ci attendono giorni terribili. Ma io ho l’impressione che se Moro potesse farci giungere un suo messaggio egli ci inviterebbe a seguire la ragione, e a mettere al primo posto il bene di tutti.

("Moro, il laico della ragione", Il giorno, 18/3/1978: da Adista nn. 1155-1156-1157 del 23-25 marzo 1978)

 

RANIERO LA VALLE: NON POSSIAMO LIBERARCI DI QUESTE LETTERE

 

6779) Roma-adista (...) È troppo sommario dire che in queste lettere non c’è più niente di lui. È difficile che "in questo momento supremo" si spezzi ogni corrispondenza tra una persona e il suo manifestarsi. Forse egli è impegnato nello sforzo di trasmetterci e di farci capire qualcosa. Il messaggio fondamentale, spogliato dalle espressioni che "non sono moralmente a lui ascrivibili", non è del resto così dissimile dalla sua costante prassi politica. Egli ha sempre concepito la politica come mediazione e come negoziato, non tanto per un gusto compromissorio, quanto perché compenetrato dalla percezione delle infinite sfumature e complessità della realtà, difficilmente imprigionabile in alternative secche e tassative; la stessa complessità dei suoi discorsi, rispecchiava la convinzione che "c’era sempre dell’altro", al di là di ogni argomento od analisi. Ora il discorso da complesso si è fatto semplice e sembra dire (chiamando per nome i suoi amici): abbiamo sempre negoziato e mediato su tutto, non vogliamo negoziare in una così eccezionale circostanza? Non credo che Moro ignori l’argomento che motiva il rifiuto a trattare, e cioè che non può lo Stato negoziare con un nemico così mostruoso e pericoloso. Ma qui forse vengono altre due indicazioni, nascoste nelle pieghe della lettera. La prima è che anche quello delle Brigate Rosse, per quanto orrendo, è "un fenomeno politico", e come tale va trattato; la seconda è che esse forse sono più deboli, più millantatrici, e dunque meno pericolose di quanto si creda. O forse, che se esse sono espressione di più potenti forze che sono alle loro spalle, non è attestandosi su una pura posizione di principio che le si sconfigge e scoraggia; se invece sono un fenomeno solo avventuroso e domestico, lasciare loro in mano Moro con tutto ciò che significa, senza tentare un’alternativa, è forse concedere loro troppo e troppo in fretta. (...) L’interesse comune è la salvaguardia e la difesa dello Stato democratico, che richiede un’opera ben più profonda e duratura di quella che si può esaurire nella decisione di un momento. Ma pur in questa decisione dobbiamo sapere che lo stato democratico non è altro da noi, ma siamo noi stessi nel nostro vivere collettivo, nella libertà e nella potenzialità di giustizia che vogliamo preservare, per oggi e per domani. Perciò non possiamo trincerarci dietro una "ragion di Stato" che ci deresponsabilizzi; e se crediamo che lo Stato esiga oggi un comportamento che può significare il sacrificio di una vita, dobbiamo sapere che a esigere questo sacrificio non è un’entità giuridica astratta fuori di noi, ma siamo tutti noi.

("Non possiamo liberarci di queste lettere", Paese Sera, 6/4/78: da Adista nn. 1172-1173-1174 del 13-15 aprile 1978)

 

LE RIFLESSIONI DI UNA COMUNITÀ DI BASE PALERMITANA SUL CASO MORO

 

6442) Palermo-adista

Il giudizio della comunità "Cuba-Calatafimi"

(...) bisogna anzitutto distinguere la violenza dal terrorismo. Quello delle BR è terrorismo e anche pretesa di erigersi a difensori di una classe operaia che non è stata consultata in materia. La violenza, invece, è qualcosa che presenta aspetti molteplici e differenti. È violenza la cattiva amministrazione del denaro pubblico, il permanere della legislazione fascista, il clientelismo, la manovra dell’inflazione, le leggi speciali. È violenza tutta la struttura di una società dominata dai mezzi di comunicazione di massa, ma è violenza anche forzare le ideologie in cui crediamo a livello personale per cercare di spiegare la violenza. La confusione tra violenza e terrorismo è una confusione voluta dallo stato che nei fatti si regge sulla violenza e pretende di costringere ad una scelta di campo - "o con lo stato o con le BR" - mettendo in un unico calderone - quello dello stato - tutti i partiti e tutte le responsabilità, che non sono solo responsabilità della Dc, ma anche di coloro che con essa hanno governato, e del Pci che, per starle dietro, ha abbandonato il suo ruolo di opposizione e di difesa delle classi proletarie. Bisogna ancora stare attenti a non confondere violenza e durezza, poiché non è violenza quella del Cristo che scaccia i mercanti dal tempio, né è violenza la durezza con cui la comunità si deve fare carico di promuovere la presa di coscienza del mondo esterno alla comunità stessa. Anzi, in questo contesto la comunità deve presentarsi come luogo privilegiato di lettura della realtà, allo scopo di meglio capirla per modificarla. E il dibattito su questo argomento deve continuare. Ma se questa società, questo stato, sono fondati sulla violenza; se i mezzi di comunicazione ci forniscono solo i miti di una felicità falsa; se gli stessi partiti della sinistra cadono in trappola al punto tale che non si può più porre fiducia in loro; se le rivendicazioni sindacali vengono rimarginate attraverso i meccanismi della crisi e dell’inflazione; se, insomma, tutto il mondo si presenta in condizioni disastrate, da che parte bisogna cominciare per cambiare la realtà? I membri più anziani della comunità hanno dato una risposta che può essere compresa pienamente solo da chi è vissuto nella terra del Gattopardo: bisogna cambiare gli uomini, e non soltanto le persone che siedono ai posti-chiave del potere, dei partiti, dell’amministrazione, ma cambiare la gente dentro, perché prenda coscienza, superi l’individualismo e il disinteresse, perché la finisca anche di essere fatalista e di dire che è sempre stato così, che da sempre e per sempre ci saranno i ricchi e i poveri. (...).

(da Adista n. 1195-1196-1197 del 11-13 maggio 1978)

 

 

 

 

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