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2003 - BUSH ORDINA LA GUERRA. BERLUSCONI OBBEDISCE

Tratto da: Adista Notizie n° 2728 del 05/04/2008

Medio Oriente in fibrillazione: per il muro che Sharon, con l’opposizione di quasi tutta la comunità internazionale, sta costruendo in Cisgiordania (e che sottrae ulteriore terra ai palestinesi); ma soprattutto perché, con il pretesto delle armi di distruzione di massa di cui il regime iracheno sarebbe in possesso, si prospetta una nuova guerra in Iraq. Le prove dell’esistenza delle armi, dicono gli ispettori dell'Onu inviati in Iraq, non ci sono. Ma è un dettaglio che ad Usa e Gran Bretagna (sostenuti della Spagna di Aznar) non interessa. Perché gli angloamericani i documenti per legittimare la guerra di fronte all’opinione pubblica internazionale se li fabbricano da sé (il 18 luglio, tra l’altro, viene trovato morto David Kelly, scienziato che aveva denunciato manomissioni dei dossier britannici sulle armi di Saddam Hussein). L’Italia, al solito, si accoda agli alleati atlantici. Il centrodestra dichiara di voler appoggiare la "lotta al terrorismo"; così (29 gennaio), il governo Berlusconi dà il via libera all'utilizzo delle basi Usa e Nato in territorio italiano per gli aerei che si preparano ad attaccare l'Iraq. Ma a sinistra, stavolta, qualcosa si muove: Ds, Rifondazione, Pdci e Verdi si mobilitano contro il conflitto. Lo fa il mondo cattolico, sulla scia della nettissima opposizione del papa al conflitto. Il 15 febbraio, si tengono manifestazioni per la pace in diverse capitali europee. A Roma scendono in piazza centinaia di migliaia di persone. Parte anche la campagna, promossa da missionari, associazioni cattoliche, ong, "Pace da tutti i balconi!": in tutta Italia, migliaia di bandiere della pace vengono esposte alle finestre per dire no alla guerra. Ma è tutto inutile. Il 20 marzo scade l'ultimatum di Bush che intimava a Saddam di lasciare l'Iraq. Alle 3:55 del mattino cominciano i bombardamenti su Baghdad e su altre città irachene, mentre le truppe statunitensi e britanniche invadono il Paese. Ha inizio la Seconda Guerra del Golfo. Stavolta (a differenza del ‘91) le truppe angloamericane portano la guerra fino in fondo e (9 aprile) entrano a Baghdad. Saddam fugge (ma sarà catturato il 14 dicembre). In Occidente si inneggia alla guerra lampo: in diretta mondiale, va in onda l’abbattimento della statua del rais. Cadono le statue, e con esse le inibizioni. Così, diversi esponenti di Curia, a partire da Ratzinger e Ruini, iniziano a stemperare i toni "senza se e senza ma" usati da Wojtyla prima dello scoppio del conflitto. Il 1° maggio, Bush proclama la fine dei combattimenti: "Nella guerra contro l'Iraq, gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno prevalso". Ma le cose stanno in maniera assai differente. E presto gli occupanti dovranno fare i conti con una accanita resistenza. In tale contesto, il 16 novembre, cadono in un attentato a Nassiriya 19 uomini del contingente italiano inviato in Iraq in "missione di pace". Ai funerali (19 novembre) Ruini - riferendosi ai terroristi - afferma: "Non fuggiremo davanti a loro, anzi, li fronteggeremo con tutto il coraggio"; "affidiamo [a Dio] (…) tutti gli italiani, militari e civili, che sono in Iraq e in altri Paesi per compiere una grande e nobile missione, e, con loro, questa nostra amata Patria, la pace nel mondo e il rispetto per la vita umana".

Se la guerra impegna molte delle energie del papa e della Curia, non manca alla gerarchia il tempo di occuparsi anche di altro. La Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica comunica (15 gennaio) ai Superiori e alle Superiore generali che la Cdf ha chiesto di escludere i transessuali dalla vita consacrata. Con un decreto della Cdf notificato il 13 marzo - emanato "dal sommo pontefice Giovanni Paolo II, con suprema ed inappellabile decisione senza alcuna possibilità di appello" - don Franco Barbero della Comunità di base di Pinerolo viene "dimesso dallo stato clericale". Il 24 febbraio, sotto la forte pressione della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica i benedettini inducono padre Cipriano Carini a dimettersi da abate del monastero di S. Giovanni Evangelista a Parma. La sua unica colpa, aver accolto alcune suore indiane dell'Ordine delle brigidine, fuggite dalla loro comunità a causa del trattamento cui erano sottoposte da parte della loro madre superiora, suor Tekla Famiglietti che, essendo influentissima in Vaticano, ottiene il siluramento di Carini. Con l'enciclica Ecclesia de Eucharistia (17 aprile), il papa riafferma la dottrina della "transustanziazione" formulata dal Concilio di Trento e vieta l’"intercomunione" con le Chiese nate dalla Riforma; ribadisce che i cattolici divorziati e risposati non possono accostarsi all'Eucaristia; lamenta gli "abusi" che, nel post-Concilio, si sono fatti in materia liturgica. Alla fine di luglio Ratzinger, nel documento "Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali", chiede ai parlamentari cattolici di impedire in ogni modo l'approvazione di leggi che ammettano una qualsiasi equiparazione tra matrimonio e unioni gay. Le comunità di Base piangono la morte di Ciro Castaldo.

La politica italiana langue, in balìa delle esternazioni e delle gaffe di Berlusconi (come quella all'europarlamento, il 2 luglio, quando apostrofa un deputato tedesco chiamandolo "kapò"), e di leggi contestatissime, come quella ad personam che garantisce l’impunità alle più alte cariche dello Stato (lodo Schifani), o quella che pone enormi limiti alla fecondazione assistita (legge 40), o quella che modifica in senso lassista la legge 185/90, che regola il commercio della armi. In questo contesto, il 2 maggio la Corte d’Appello di Palermo dichiara estinto per prescrizione il reato di associazione per delinquere di cui Andreotti è riconosciuto colpevole fino alla primavera del 1980. Il 30 ottobre Andreotti viene assolto dalla Cassazione per il delitto Pecorelli; questa volta "per non aver commesso il fatto"; il 15 giugno il referendum per estendere i benefici dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori non raggiunge il quorum. E a dicembre scoppia lo scandalo Parmalat.

 

8 MARZO IN TEMPI DI GUERRA - di Silvana Pisa

L'8 marzo, festa della donna, è la ricorrenza dell'incendio che colpì, ai primi del Novecento, le operaie americane rinchiuse dal padrone nella loro fabbrica. In Italia è una data celebrata dagli anni ‘50 in poi ed ha assunto sia un valore di rivendicazione di parità-emancipazione, sia, dagli anni Settanta in poi, di conquista di "spazi" di libertà femminile.

8 marzo a tema, quindi, a seconda delle priorità individuate (famosi negli anni ‘70 gli 8 marzo per l'autodeterminazione). Quest'anno s'impone con forza, dopo le strepitose manifestazioni per la pace che, nella giornata del 15 febbraio, hanno colmato in 110 milioni di persone le piazze del mondo, il tema del "no alla guerra". Tema non nuovo per il movimento della donna che su questo ha riflettuto partendo dalla prima guerra del Golfo fino al recente intervento italiano nel Kossovo. La domanda è sempre la stessa: esiste un diverso sentire delle donne rispetto alla guerra? Molte di noi pensano di sì; è un pensiero che parte da lontano: dall'avere a che fare con la possibilità di dare la vita e del conoscerne "corporalmente" il valore. Ma anche dall'essere "dissidenti" rispetto ad un ordine simbolico neutro-maschile. Guerra significa l'abolizione dei diritti fondamentali. E senza democrazia la presenza pubblica femminile regredisce. In guerra tutto viene subordinato all'obiettivo della vittoria: è l'esasperazione del fine che giustifica i mezzi. La crescita politica delle donne è avvenuta invece in un contesto in cui abbiamo sostenuto che il "metodo è contenuto".

La guerra è incompatibile col rispetto dei diritti umani e in quello che ne è il presupposto estetico costitutivo: l'uguale valore di ogni persona. Le donne che quotidianamente vivono la dialettica tra uguaglianza e differenza hanno imparato la pratica del conflitto nonviolento, di idee. Il preambolo della Carta delle Nazioni Unite enuncia tre valori universali: il valore della pace, la tutela internazionale dei diritti fondamentali, l'ugua-glianza degli uomini e dei popoli. Questo porta - dovrebbe portare - ad istituire il tabù della guerra. Fuori la guerra dalla storia: le donne - ma anche sempre più uomini - sono interessate a misurarsi con la negazione di questo nuovo senso comune "tra uccidere e morire c'è una terza via: vivere".

(da Adista n. 19/2003)

 

IL VATICANO COLPISCE ANCORA: CONDANNA SENZA APPELLO PER DON FRANCO BARBERO

 

31781. PINEROLO-ADISTA. Un caso forse unico per questo genere di provvedimenti ecclesiastici. Don Franco Barbero, prete a Pinerolo ed animatore dal 1978 di una comunità di base, è stato sospeso a divinis e ridotto allo stato laicale direttamente dal papa, su istanza della Congregazione per la Dottrina della Fede, senza alcuna possibilità di ricorrere contro questo provvedimento. Così, con un decreto datato 25 gennaio 2003 (giorno dedicato dalla liturgia cattolica alla conversione di S. Paolo e giornata conclusiva dell'ottavario di preghiera ecumenica per l'Unità dei Cristiani), e notificatogli il 13 marzo, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha deciso di chiudere definitivamente i conti con un sacerdote ritenuto troppo "scomodo", un prete che da oltre trent'anni, attraverso la sua missione pastorale e la sua vicinanza alle persone più emarginate, spesso anche dalla stessa Chiesa (si pensi agli omosessuali ed ai divorziati risposati), era divenuto un punto di riferimento importante per tanti cristiani ed un lucido testimone delle contraddizioni che attraversano il magistero cattolico. Ed è proprio per evitare di affrontare i temi scottanti al centro della riflessione teologica e pastorale di don Franco che la Congregazione ha respinto ogni sua richiesta di essere ascoltato, negandogli la possibilità di esporre le proprie tesi. Inoltre, per evitare che in alcun modo don Franco potesse ricorrere contro il provvedimento, il Sant'Uffizio ha fatto in modo che fosse il papa, autorità suprema della Chiesa cattolica, a decretare in modo definitivo la condanna.

Il caso di Barbero era in mano alla Congregazione per la Dottrina della Fede dallo scorso anno, da quando, con una procedura anche in quel caso assolutamente anomala, il vescovo di Pinerolo, mons. Pier Giorgio Debernardi, aveva fatto pubblicare, il 14 febbraio 2002, sul "Piccolo" e sull'"Avvenire", e poi integralmente dall'"Osservatore romano" il giorno 15, un comunicato in cui avvertiva la comunità cristiana del fatto che don Franco, con il suo comportamento, si fosse posto "di fatto" "fuori dalla comunità ecclesiale". Quella del Sant'Uffizio è una procedura di una durezza senza precedenti: se ne è reso probabilmente conto anche il vescovo di Pinerolo che, nel trasmetterla a don Franco accompagnandola con una lettera, si sforza di farla apparire un atto logico, giunto "non improvvisamente ed inaspettatamente"; nel corso della missiva Debernardi, rivolgendosi a Barbero, deve tuttavia riconoscere: il provvedimento pontificio "non diminuisce il riconoscimento della tua sollecitudine verso i poveri"; "l'affetto - dichiara il vescovo, che si firma 'tuo Pier Giorgio' - resta sempre lo stesso".

Nonostante questa attestazione di stima, rimane il fatto che, negli ultimi anni, mai il vescovo di Pinerolo aveva accettato di incontrare la comunità cristiana di base animata dove don Franco ha esercitato il suo ministero; mai aveva accettato un sereno confronto con le sue posizioni: lo aveva convocato in alcune occasioni solo per indurlo a rivedere le sue tesi. La comunità di Pinerolo, che si considera colpita dallo stesso provvedimento che colpisce il suo presbitero, parla di una "Chiesa gerarchica, maschilista e patriarcale", rimasta "uno dei pochi Stati assoluti che esercita il proprio potere senza sentire il parere dei suoi fedeli". (...)

(da Adista n. 23/2003)

 

L'"OSSERVATORE ROMANO": "L'ITALIA NON È IN GUERRA, MA OFFRE LE SUE BASI!".

 

31816. CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Solitamente i rilievi, di plauso o di critica, che l'"Osservatore Romano" riserva alla politica italiana si risolvono in poche righe, al massimo un paio di frasi, parole calibrate su toni discreti. Lo scorso 30 marzo, invece, la consueta rubrica sulla politica del nostro Paese era dedicata pressoché integralmente ad una serrata critica all'operato del governo italiano in merito all'invasione dell'Iraq. Nell'affrontare la questione dei parà americani, la concessione delle basi Usa, la dichiarazione dello stato di emergenza e altri temi che stanno dividendo maggioranza e opposizione, l'"Os-servatore" scrive: "Evidentemente le alchimie politico-diplo-matiche, pur sostenute dai trattati, non solo non riescono a dare forza alla posizione italiana a livello internazionale, ma appaiono sempre più incomprensibili per la gente comune: l'Italia non è in guerra, ma offre le sue basi, dalle quali tuttavia non possono partire uomini o mezzi impegnati in attacchi diretti all'Iraq; l'Italia non è in guerra, ma scattano i piani di emergenza". Poi arriva la stoccata: "La realtà è che per salvaguardare l'amicizia con gli Usa e la fedeltà all'Alleanza atlantica si è giunti ad un compromesso - quella 'neutralità benevola' di cui ha parlato il ministro Giovanardi - che appare però troppo debole alla verifica dei fatti. La vicenda dei paracadutisti di Ederle in questo senso appare emblematica".

Su quest'ultimo punto, in particolare, l'"Osservatore" riprende la provocazione di D'Alema, che chiede se su tale vicenda "il Governo 'ha mentito' quando ha assicurato al Parlamento che le basi militari Usa in Italia non sarebbero state a disposizione per azioni di guerra, e soprattutto se il Governo ha ancora una credibilità sul piano interno e su quello internazionale". La nota politica prosegue poi nell'esposizione bilanciata degli interventi di maggioranza e opposizione sulla guerra in Iraq, ma si chiude con le parole del presidente dell'esecutivo dell’Unione Europea, Romano Prodi, che nella sua visita ufficiale agli organi istituzionali italiani (in vista del semestre di presidenza Ue) ha risposto all'auspicio di Pera che il conflitto finisca presto con la frase: "Sarebbe stato meglio che questa guerra non fosse mai cominciata".

(da Adista n. 29/03)

 

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