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Firenze 2 Quale comunione nella Chiesa?

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 22 del 13/03/2010

Davanti a “quella prostituta casta che è la Chiesa, il problema si chiama Dio. Dio che ha scelto le cose inferme di questo mondo… Davanti alle debolezze dei vertici ecclesiastici e di noi tutti, l’atteggiamento è quello di ritornare tutti al mistero di Dio”. Così don Pino Ruggieri a Firenze ha posto con forza il problema di Dio, il Dio che ci si rivela nel Vangelo delle Beatitudini. Merito non piccolo di questa impostazione è tra l’altro quello di porre ciascuno, il cui orecchio sia attento, di fronte all’interrogativo su quali siano le proprie, personali, scelte di fondo.

Se si fa riferimento a Dio, punto dirimente diventa la sua misericordia illimitata: la comunità matteana può ben escludere qualcuno dalla comunione: “...Se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano” (Mt 18,17), ma “il comandamento del perdono illimitato e la parabola del servo spietato, che avendo avuto rimesso il proprio debito dal padrone, poi è incapace di rimettere un debito più piccolo ai propri colleghi” (Mt 18,21-35), mostrano che la misericordia di Dio è più ampia di quella della Chiesa.

Tutto chiaro, tutto risolto, dunque? Forse no. Proviamo a fare un esempio, un esempio qualsiasi,  potrei citare qualunque altro caso di tensione tra norma ecclesiastica e misericordia: una coppia di divorziati risposati che chiede di partecipare ai sacramenti si trova a confrontarsi non con la misericordia di Dio, ma con una prassi ecclesiale, che è spesso storicamente determinata in un certo modo. Tra la misericordia del Dio che accoglie tutti e la storia concreta del corpo ecclesiale permane uno iato.

Il singolo, semplice credente o sacerdote, può ben mostrare – e qui si apre la strada mai compiuta della personale conversione al Vangelo – nel proprio agire concreto l’amore di Dio, ma essere accolti da un fratello, da un sacerdote, da Dio o dalla Chiesa come corpo, non è la stessa cosa. Il discorso su Dio, da solo, mi sembra non risolvere questo tipo di problemi. Il discorso su Dio è fondamentale, è necessario, ma non sufficiente: separarlo da quello sulla Chiesa è di fatto impossibile, perché la gente scopre Dio precisamente attraverso la Chiesa, scopre quel Dio che la Chiesa annuncia nei propri comportamenti concreti, la testimonianza di vita dei singoli, ma anche i comportamenti normativi dell’istituzione.

E quale sembra essere, oggi, il punto più dolente di questi comportamenti normativi? Possiamo prendere a prestito un’espressione dalla relazione di Italo De Sandre a Firenze, a proposito della coerenza necessaria tra stile della trasmissione e contenuto trasmesso: “Una comunità ispirata al cristianesimo dovrebbe vivere in modo inscindibile proposta della Parola e relazioni interpersonali basate sull’attenzione e l’ascolto reciproci”.

Se ci si ferma a pensarci un attimo, credo non si possa non vedere che questa attenzione e ascolto reciproci non sono altro che il riflesso, a livello di comportamento sociale, di un dato teologico, qualcosa cioè che dovrebbe essere considerato in qualche modo una conseguenza naturale – se abbiamo fede – dell’amore gratuito di Dio per noi.

Però se si rimprovera alla Chiesa istituzionale – a mio parere giustamente – appunto una scarsa attenzione all’ascolto delle ragioni degli altri, credo sia contraddittorio ripagarla della stessa moneta, e precludersi ad esempio ad un dialogo con i vescovi. La tentazione di costituirsi come ‘corpo separato’ (e fa poca differenza se come Chiesa di base o come Chiesa di vertice) mi sembra sbagliata: proprio pochi versetti dopo aver normato la possibilità di escludere qualcuno dalla comunione ecclesiale, Matteo promette “se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio ve la concederà” (Mt 18,19). Permanenza nella comunione e promessa qui dipendono l’una dall’altra. Parlare di una Chiesa di base distinta da una Chiesa di vertice postula un dialogo limitato da steccati. A me interessa essere in comunione e in dialogo (o in disaccordo, se necessario) con tutta la Chiesa, con la Chiesa senza aggettivi.

Credo occorrerebbe riflettere su quali siano le condizioni per un dialogo autentico nella Chiesa. Spesso mi pare che manchi la fede necessaria a riconoscere che una disparità di opinioni adeguatamente motivata è una risorsa, e non un danno, per la stessa unità della comunità ecclesiale, perché esaminare le opinioni diverse è un passaggio ineludibile per quel discernimento che conduce all’ascolto dell’unico Spirito (“Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono”, 1Ts 5,19) e per quella unità della Chiesa che si differenzia dalla uniformità.

Il vescovo Giuseppe Casale, lo scorso anno, in una lettera a proposito del caso Englaro, sottolineava che la voce della Chiesa deve essere polifonica, non può essere una monodia. E don Ruggieri, nell’intervento pubblicato anche su Adista (n. 18/10) lamenta  “una certa immaturità nell’esperienza della comunione in tutti: nei vescovi e in coloro che li contestano”. Credo che l’argomento forte dal quale farci interrogare nel prossimo convegno potrebbe essere proprio questo: cosa significa essere in comunione nella Chiesa, quali sono le condizioni e i limiti di quella comunione che è la Chiesa. E se poi un vescovo accettasse di venire ad ascoltare, ma anche a farsi ascoltare, al convegno stesso, questo potrebbe essere per noi e per lui l’inizio di una comunione più autentica.

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