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IL MERCATO È IN CRISI, MA I SUOI ADORATORI NON SE NE SONO ACCORTI. UN LIBRO SVELA L’IMBROGLIO DEL “LIBERISMO DI SINISTRA”

Tratto da: Adista Notizie n° 37 del 08/05/2010

35579. ROMA-ADISTA. “Il liberismo è in crisi, ma non è morto. E i suoi tardi epigoni rischiano di lasciare un pessimo ricordo”. A due anni di distanza dal saggio di Francesco Giavazzi e Alberto Alesina, Il liberismo è di sinistra, nel pieno della crisi economico-finanziaria che sta squassando il globo, esce in libreria un pamphlet che cerca di fare giustizia di tutti i luoghi comuni del pensiero dominante, che hanno ormai da anni fatto breccia (e strage) anche nel campo progressista. Liberista sarà lei! (Codice edizioni, pp. 131, euro 14: il libro può essere richiesto, senza spese di spedizione aggiuntive, anche ad Adista, tel. 06/6868692; fax 06/6865898; e‑mail: abbonamenti@adista.it; oppure acquistato online sul sito www.adistaonline.it), è un saggio che sin dal titolo intende rinnegare il falso mito che il libero mercato porti benessere materiale e coesione sociale. E che quindi sia l’orizzonte auspicabile al quale debba aspirare una sinistra “moderna”.

A scriverlo, un redattore di Adista, Emilio Carnevali (giornalista anche di MicroMega), insieme a Pierfranco Pellizzetti, docente di Politiche Globali all’Università di Genova, saggista, collaboratore di diverse testate, tra cui MicroMega, Critica liberale e Il Fatto Quotidiano. L'azione del singolo, nella ricerca individualistica del proprio benessere e del proprio tornaconto, sarebbe la molla che anima lo sviluppo umano e che può garantire la prosperità economica della società, il benessere di tutti. E che in nessun modo lo Stato dovrebbe regolamentare. Questa la dottrina classica liberista. Questo il senso comune divenuto pensiero dominante. Un concetto nato ormai più di due secoli fa con la celebre formula del laissez faire, laissez passer (lasciate fare, lasciate passare). E duro a morire, nonostante nella sua forma “pura”, come dimostrano gli autori nel loro saggio, il liberismo non è mai esistito. Il liberismo, spiegano gli autori, è infatti “un pensiero assai poco innocente fin dall’inizio. Perché è tendenza generale degli interessi materiali, iscritta nel loro codice genetico, quella di ammantarsi nelle parole del disinteresse per promuoversi con maggiore efficacia”. Appoggi politici, appalti pilotati, sovvenzioni statali, leggi e provvedimenti ad hoc: il capitalismo, specie quello nostrano, si è sempre servito del pubblico e dello Stato, quando esso gli è stato utile per ripararsi da un libera concorrenza diventata troppo “libera”, e quindi minacciosa per i propri interessi. E anche oggi, i liberisti che reclamano il “ritorno al pubblico”, lo fanno spesso nel senso del famoso motto di Ernesto Rossi, “socializzare le perdite, privatizzare i guadagni”, per proteggere cioè, attraverso un “capitalismo assistenziale” fatto di incentivi, cassa integrazione, pre-pensionamenti, contributi a fondo perduto, sgravi fiscali, una borghesia parassitaria, incapace di competere nel vero senso del termine. Paradossalmente, mentre i rapporti reali continuano a raccontare questa macroscopica contraddizione tra parole e fatti, tra intenzioni e prassi, la demonizzazione di tutto ciò che è collettivo/statale “ha irrimediabilmente contagiato anche le formazioni socialiste e/o progressiste”; a dispetto anche di analisi rigorose, “che non accreditano affatto la tesi della maggiore efficienza dell’impresa privata, almeno in linea di principio”. Senza contare, come ricorda il libro citando il Nobel per l'Economia Joseph Stiglitz, che alcune “imprese sono pubbliche perché lavorano in perdita; non operano in perdita perché sono pubbliche”. Ma questo, a sinistra, non è stato capito. Anzi: “Lo sconcertante cinismo con cui i dirigenti della sinistra italiana (e quanto resta di quello che un tempo era stato il più grande Partito Comunista dell’Occidente) buttavano alle ortiche inservibili anticaglie marxiste, gettandosi a corpo morto e da un giorno all’altro nel ruggente mood neoliberista (abbracciato con fondamentalistica assenza di spirito critico, tipica di tutti i neofiti), potrebbe accreditare giudizi estremi: la tesi ricorrente di un esaurimento delle ragioni che la distinguono dalla destra”. Perché, spiegano Carnevali e Pellizzetti, ormai il nostro panorama politico è attraversato fondamentalmente da tre categorie di persone: “Ci sono quelli che stanno a destra, ma si sentono in colpa stando a destra (soprattutto nell’impresentabile destra italiana); quelli che da sinistra sono passati a destra; quelli che da sinistra non hanno il coraggio di passare a destra, ma dicono che la sinistra per essere veramente tale dovrebbe immedesimarsi nella destra. Questi ultimi sono soliti definirsi con un appellativo tipico della cultura politica moderna: ‘riformisti’”.

Un esempio perfetto di questo schema ce lo siamo trovati nel 2008, nel corso di una campagna elettorale “piuttosto surreale: un gaio candidato del centrosinistra (l’ex comunista mai stato comunista Walter Veltroni), che parlava di un ‘nuovo miracolo italiano’, cui si contrapponeva un ministro dell’economia in pectore per il centrodestra”, Giulio Tremonti, che si produceva in “apocalittici affreschi” contro il mercatismo, colossale errore in cui per l’inventore della finanza creativa sarebbe incorsa pure la sinistra. “Ma quanto è credibile questo Tremonti che ci fa la morale? Il problema è che in un’epoca dove domina lo scontro tra appartenenze difensive e coalizioni progettuali, là dove la sinistra non offre il benché minimo straccio di un progetto, si finisce per regalare a questo tipo di banditori ‘antimercatisti’ una sterminata prateria di consensi”. A volte il dubbio arriva a sfiorare il fronte progressista, racconta il libro, ma in modo assai poco credibile: “Romano Prodi ci ha recentemente fornito un’impietosa analisi retrospettiva” dell’ultimo quindicennio, “individuando nel fallimento della stagione dell’‘Ulivo mondiale’ la ragione dell’attuale crisi dei partiti riformisti europei”. “Nella prassi di governo – ha detto Prodi (il Messaggero, 14/8/2009) - Tony Blair e i governi che ad esso si sono ispirati”, ha scritto l’ex presidente del Consiglio, “si limitavano a imitare le precedenti politiche dei conservatori inseguendone i contenuti ed accontentandosi di un nuovo linguaggio. Sul dominio assoluto dei mercati, sul peggioramento nella distribuzione dei redditi, sulle politiche europee, sul grande problema della pace e della guerra, sui diritti dei cittadini e sulle politiche fiscali le decisioni non si discostavano spesso da quelle precedenti”. “Come se Prodi non fosse stato fra i principali protagonisti di quella stagione... ma come si dice, meglio tardi che mai”, chiosano, amaramente, Carnevali e Pellizzetti. Ma al di là di estemporanee dichiarazioni, sono i fatti confermare che i liberisti-riformisti, la lezione sembrano proprio non averla imparata. Non si spiegherebbe altrimenti, scrivono i due autori del pamphlet, “l’entusiasmo con cui essi hanno accolto la ‘liberalizzazione’ dei servizi idrici promossa dal governo Berlusconi con il decreto Ronchi, convertito in legge il 19 novembre 2009”. Eppure i liberisti “cui è così caro il concetto di concorrenza, dovrebbero sapere che ha poco senso parlare di ‘liberalizzazione’ per un servizio che è tecnicamente un ‘monopolio naturale’: non possiamo certo raddoppiare le tubature per far scegliere al cittadino-consumatore da quale rubinetto attingere l’acqua...”.

Unico antidoto a questa deriva, “un ritorno al politico (dal suo lato sinistro)” inteso come “l’indispensabile antemurale contro i nuovi domini dell’interesse economico svincolato da ogni controllo”. Perché la trasformazione, prima di farla, “occorre pensarla”. E pensarla collettivamente. La progettualità strategica del cambiamento deve quindi necessariamente attuarsi nell’ottica di un confronto pubblico democratico che deve avere come primo obiettivo “quello di opporsi ad ogni pensiero sulla società che pretenderebbe di organizzare la vita degli umani ponendo l’ineguaglianza e l’esclusione a proprio fondamento”. (valerio gigante)

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