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DETENUTI IN ATTESA DI DIRITTI. UN LIBRO SUL MONDO CARCERARIO IN ITALIA

Tratto da: Adista Notizie n° 52 del 26/06/2010

35671. ROMA-ADISTA. “Non sono stato privato soltanto della mia libertà di movimento, ma anche della possibilità di potere, in qualche momento della giornata, stare da solo”. In carcere non esiste solitudine nemmeno per i bisogni più intimi. “Ho imparato a conoscere i rumori intestinali dei miei compagni di cella, i loro odori, ogni secrezione del loro corpo mi era nota. Il russare di uno di questi mi ha fatto quasi impazzire nelle interminabili ore di veglia notturna. Un trapano nel cervello. Eravamo condannati a vivere come siamesi legati gli uni agli altri dallo spazio angusto di una cella”. “Ho percorso nel carcere ogni girone, fino a toccare il fondo per diventare carburante umano di un sistema perverso”. “Ora sono un ex. Ex detenuto, disadattato, arrabbiato, sfiduciato dall’istituzione carceraria, che giudico più criminale dei delinquenti che ospita. Non sopporto più la vicinanza di qualcuno, non dormirò mai nella stessa stanza con un’altra persona. Ditemi pure che sono borghese, ma se voi foste stati in quell’incubo…”. È la prima di una serie di testimonianze raccolte nel volume Mondo recluso. Vivere in carcere in Italia oggi (Effatà editrice, pp. 208, euro 13,50), scritto da Davide Pelanda, insegnante, scrittore, caporedattore di Tempi di Fraternità, che racconta il pianeta carcere attraverso il punto di vista di chi – detenuto, guardia carceraria, cappellano, direttore di casa circondariale, magistrato – quel mondo lo conosce direttamente. Il libro, attraverso dati, analisi, documenti, denuncia in modo preciso i meccanismi di emarginazione e soppressione morale del condannato e cerca di demistificare quella densa cappa ideologica che da sempre impedisce a chi vive “fuori” di capire il dramma dei detenuti.

La sensazione che più emerge dalla lettura delle pagine è quella claustrofobica di celle minuscole, in cui un’umanità desolata di uomini e donne vive ammassata, costretta anche nei minimi movimenti, tormentata dal caldo estivo e dal freddo invernale, dimenticata ed ignorata anche nei propri più elementari diritti.

Il sistema carcerario italiano, racconta Pelanda, è al collasso. I 206 istituti di pena del nostro Paese hanno una capienza massima di 43mila posti, con un limite tollerabile di 60mila: mentre invece nelle nostre carceri abbiamo ben 64.859 detenuti. Il provvedimento di indulto varato nel 2006 dal governo Prodi non in questo senso ha prodotto alcun risultato (se non quello di far uscire Previti “alla detenzione dorata del suo mega appartamento di piazza Farnese a Roma”, come ha detto l’ex magistrato torinese Bruno Tinti). Per la maggior parte i detenuti sono giovani adulti, piccoli spacciatori, drogati, immigrati che hanno commesso piccoli reati. Il 52% di loro sono in custodia cautelare. Non hanno quindi subito una condanna definitiva. Una percentuale altissima, che non ha eguali in Europa.

Il nostro ordinamento carcerario, riformato nel 1975, afferma che “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Il periodo di detenzione dovrebbe servire quindi, scrive Pelanda, “per poter pensare e riflettere sul male che si è fatto, per trovare una sorta di strada per redimersi. La struttura carceraria dovrebbe anche, in qualche modo, accompagnare a rieducare e riabilitare il delinquente. Almeno queste erano alcune delle funzioni del carcere e della pena nelle intenzioni di chi le ha ideate. Buoni e lodevoli propositi che sempre hanno guidato le scelte dei nostri legislatori. Un ‘libro dei sogni’? Oggi così sembrerebbe”. Perché nella drammatica realtà carceraria italiana, scrive Pelanda, i detenuti, “ammassati come spazzatura in una discarica”, vivono una “condizione disumana, senza diritto, dove spesso la violenza la fa da padrona” e dove non solo il recupero del detenuto diventa praticamente impossibile, ma il contesto non fa che facilitare la recidiva. Siamo insomma passati “dalla detenzione penale alla detenzione sociale”.

Eppure, “Disinteressarsi a quanto avviene all’interno delle carceri - scrive la pastora e teologa battista Lidia Maggi nella prefazione - significa gettare la spugna sulle fondamenta della nostra giustizia”. Perché, sottolinea la pedagogista Vilma Demitri nella postfazione “proprio il sistema di amministrazione della giustizia esprime i valori profondi su cui si basa una società”, l’idea di futuro a cui essa tende”, gli obiettivi educativi che, consapevolmente o meno, intende perseguire. (valerio gigante)

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