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COME UNA RANA IN UNA PENTOLA SUL FUOCO. UMANITÀ CIECA E SORDA AI SEGNALI DI PERICOLO

Tratto da: Adista Documenti n° 56 del 03/07/2010

DOC-2276. ROMA-ADISTA. Non c’è immagine migliore per descrivere l’attuale situazione dell’umanità che quella della rana nella pentola d’acqua sul fuoco: una rana gettata in una pentola d’acqua bollente ne uscirà con un bel balzo in men che non si dica, ma la stessa rana immersa in un pentolone d’acqua che si riscalda a poco a poco passerà gradualmente dall’iniziale benessere a una sofferenza via via maggiore senza avere più la forza di reagire, fino a morire bollita. Che l’umanità abbia una capacità di cogliere i segnali di pericolo superiore a quella di una rana è tutto da vedere, e non depone certo a suo favore lo stato in cui versano i negoziati sul clima: dopo il drammatico fallimento della Conferenza di Copenhagen, un altro nulla di fatto si è consumato a Bonn, dove, dal 31 maggio all’11 giugno, si è svolto un nuovo round negoziale della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), in vista della 16ma Conferenza delle Parti (Cop 16) che si svolgerà il prossimo dicembre a Cancún.  Nulla si è deciso, infatti, sui tagli alle emissioni di gas a effetto serra da parte dei Paesi sviluppati, né sull’aumento massimo di temperatura consentito e neppure sui finanziamenti per la lotta al cambiamento climatico (secondo quanto denunciato da Yvo de Boer, segretario esecutivo della Unfccc, sarebbe finanziariamente scoperta persino l’organizzazione della COP 16 a Cancún). “Siamo molto preoccupati per l’influenza esercitata dagli Usa”, ha dichiarato Elena Gerebizza della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale: “Se i negoziati proseguiranno in questa direzione, non ci sarà nessun trattato ambientale vincolante, con il risultato che le vite di milioni di persone saranno in pericolo, specialmente in Africa”. Ne sembra convinto lo stesso Yvo de Boer (a cui ora succederà la diplomatica del Costa Rica Christiana Figueres): “Non vedo un processo che possa portare ad adeguati obiettivi di mitigazione per i prossimi dieci anni”, ha ammesso, lasciando dunque intendere come l'obiettivo di un nuovo accordo legalmente vincolante entro la fine del 2011, come da programmi originari, vada di fatto accantonato. E ciò malgrado, secondo l’International energy outlook 2010 redatto dall'Eia (Energy Information Agency, l’organismo che fa capo al ministero per l’energia statunitense), di questo passo le emissioni globali di anidride carbonica cresceranno del 43% entro il 2035.

Grande delusione è stata poi espressa dall’ambasciatore boliviano Pablo Solón riguardo al mancato inserimento, nel nuovo testo proposto come base per i negoziati, di tutte le principali conclusioni della Conferenza di Cochabamba sul clima, mentre è stato incluso ogni elemento del cosiddetto Accordo di Copenhagen, “per quanto non riconosciuto dalle Nazioni Unite”. “Non può esserci un processo negoziale equo, trasparente e inclusivo né si possono incontrare soluzioni reali alla crisi climatica se i testi del negoziato dell’Onu continuano a ignorare le voci dei popoli che i negoziatori dovrebbero rappresentare”. Voci che, da un lato all’altro della terra, chiedono sempre più insistentemente un “cambiamento di sistema, non di clima”, a partire da una rinnovata difesa dei beni comuni: aria, terra, boschi, acqua.

 

Una lotta a goccia a goccia

Se in Italia, in appena sei settimane, quasi novecentomila italiani hanno firmato in sostegno ai 3 referendum per la ripubblicizzazione dell'acqua, altrove la battaglia per l’acqua passa attraverso la lotta contro la costruzione di megadighe, progetti faraonici in cui, in Etiopia (dove il nostro governo vuole finanziare la diga Gibe III con 250 milioni di euro) come in Cile, è coinvolta anche l’Italia. Così, il 29 aprile scorso, il vescovo di Aysén, in Cile, mons. Luis Infanti De La Mora, già autore di una lunga lettera pastorale sull’acqua, “Dacci oggi la nostra acqua quotidiana” (v. Adista n. 70/08), ha partecipato all'assemblea degli azionisti Enel per dire no al progetto che prevede la costruzione di cinque grandi dighe sui fiumi Baker e Pascua, nell’ambiente incontaminato della Patagonia, e di una linea di trasmissione che taglia i territori Mapuche: progetto che Enel ha ereditato dalla società elettrica spagnola Endesa, acquistata nel 2009, insieme ai diritti di sfruttamento dell’acqua, che l’impresa spagnola aveva acquisito durante la dittatura di Pinochet (che, tra tutti gli altri crimini, aveva anche privatizzato i fiumi). Per iniziativa della Fondazione Culturale di Banca Etica, il vescovo ha preso parte all’assemblea degli azionisti in qualità di delegato dei Missionari Oblati di Maria Immacolata, che, come ha spiegato Ugo Biggeri, presidente della Fondazione, “fanno parte dell'Interfaith Center for Corporate Responsibility, una coalizione di 275 ordini religiosi, con sede a New York, che ogni anno presenta oltre duecento mozioni di carattere sociale e ambientale alle assemblee delle maggiori società statunitensi”.

Dal Cile al Brasile, dove la resistenza al modello dell’agro e idrobusiness passa, tra l’altro, attraverso le lotte contro la trasposizione del Rio São Francisco e contro megadighe come quella di Belo Monte, un altro vescovo, dom Luiz Flávio Cappio, è in prima linea nella lotta in difesa dell’acqua come bene comune. Una lotta di cui egli stesso ha parlato, il 6 maggio scorso, durante un seminario a Berna in occasione del quinto anniversario della “Dichiarazione Ecumenica dell’Acqua come diritto umano e bene pubblico”, firmata anche dalla Conferenza dei vescovi del Brasile. Riportiamo qui di seguito il suo intervento (tratto da Adital, 11/5) in una nostra traduzione dal portoghese, insieme al discorso pronunciato da mons. Infanti all’assemblea degli azionisti Enel. (claudia fanti)

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