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L’INCERTO FUTURO DEL SUDAN, TRA ACQUA E PETROLIO

Tratto da: Adista Notizie n° 8 del 05/02/2011

35972. JUBA-ADISTA. Saranno noti a breve, pare il 7 febbraio, i risultati del referendum celebrato dal 9 al 15 gennaio in Sudan per decidere sull’indipendenza del Sud, in maggioranza cristiano e animista – e retto da un governo relativamente autonomo – dal Nord del Paese, islamico, in cui vige la Shari’a e, dal 1989, governato dal golpista Omar el-Bashir, condannato dalla Corte Penale Internazionale per genocidio e crimini di guerra nel Darfur. Pur in assenza di dati ufficiali, è indubbio che abbiano vinto i secessionisti: l’affluenza alle urne è stata del 95% (di coloro che si erano registrati), da parte – e in nome – di un popolo che già nel 1983 si ribellò all’islamizzazione decretata dall’allora presidente Gaafar Nimeiry e che nel conflitto che ne è seguito ha pagato un prezzo altissimo di morti (1,9 milioni le vittime della guerra civile finita con l’accordo del 2005) e di profughi (4 milioni). La stessa celebrazione del referendum è stata un successo: non era scontata (v. Adista nn. 73 e 88/10), come non era scontata l’atmosfera di disciplina e relativa calma che l’ha accompagnata. E che non ci siano stati brogli, intanto fino ad oggi, è stato assicurato dagli osservatori internazionali, fra i quali il Gruppo ecumenico composto da rappresentanti delle associazioni africane delle Conferenze episcopali, della Conferenza delle Chiese di tutta l’Africa e del Consiglio ecumenico delle Chiese.

«Ma il referendum è stato una tappa», considera su Nigrizia (24/1) il superiore dei missionari comboniani p. Salvatore Pacifico, «ora comincia il lavoro perché si tratta di mettere in piedi una nazione e risolvere le questioni relative ad Abyei, Monti Nuba e Nilo Blu». Fra i problemi da affrontare in conseguenza della scissione ci sono, secondo la contabilità di p. Pacifico, quelli della «divisione degli introiti del petrolio, in buona parte prodotto dal Sud, ma venduto a Port Sudan», al Nord (che ha per capitale Khartoum), «la partecipazione ai beni e debiti della nazione, la possibilità di movimento, il riconoscimento di diritti acquisiti, la nazionalità, le tasse sui beni che attraversano il confine, la moneta…». Altrettanto complesse sono le diverse questioni relative alle zone citate, delle quali non sono ancora precisamente determinati i limiti geografici di appartenenza.

 

Un mare di petrolio, un mare d’acqua: un mare di problemi

La regione dell’Abyei, ricca di petrolio, era stata in effetti suddivisa lo scorso anno dal Tribunale Internazionale d’Arbitrato: la parte nord, disseminata di giacimenti, abitata dalle popolazioni nomadi arabe dei Missiriyah, è stata attribuita al Nord Sudan; la parte sud, caratterizzata da terra molto fertile abitata dalle popolazioni nere e stanziali dedite all’agricoltura dei Ngok Dinka, al Sudan del Sud. I Missiriyah hanno fatto opposizione: avrebbero voluto infatti partecipare al referendum dei sud-sudanesi (ma era impossibile, visto che il loro territorio è stato attribuito al Sudan del Nord) per impedire la secessione in quanto interessati ai fertili pascoli attribuiti ai Ngok Dinka. La ong Secondo Protocollo, impegnata in progetti di sviluppo nel Paese africano, sostiene però che «dietro ai Missiriyah c’è Khartoum» che mira anche ai giacimenti di petrolio compresi nella parte attribuita al Sud. Non essendo stata risolta prima del 9 gennaio la questione dei confini, la zona di Abyei è stata totalmente esclusa dal referendum, esclusione accettata in extremis dal Splm (Sudan People’s Liberation Movement) – scrive p. Pacifico – proprio per «salvare il referendum nel Sud».

Fortemente contesa  è anche la regione dei Monti Nuba, sulla quale non ci sono dubbi di appartenenza: è del Sudan del Nord. E anche qui petrolio come se piovesse. Ma sono i nubiani a non essere soddisfatti: chiedono uno statuto speciale per cinque anni, al termine del quale poter scegliere tramite referendum se associarsi al Nord o al Sud. Sebbene arabi e musulmani, essi non digeriscono l’applicazione della Shari’a e per questo nel conflitto civile iniziato nel 1983 si sono posti a fianco dei sudanesi del meridione. Per tutta risposta, denuncia Secondo Protocollo, Khartoum «arma e finanzia le popolazioni arabe dedite alla pastorizia», «scatenando una serie di conflitti etnici che negli ultimi anni sono costati centinaia di vittime».

E poi c’è la “guerra dell’acqua”: il Sudan è attraversato, tra gli altri fiumi, dal Nilo Bianco (che provenendo dall’Uganda passa per il Sud sudanese) e dal Nilo blu (a est, proveniente dall’Etiopia). L’Egitto, in base ad un accordo del 1929 che lo rende beneficiario di 55,5 miliardi di metri cubi di acqua, ha diritto di veto sulla costruzione di dighe e sbarramenti lungo tutto il corso del grande fiume. Ma l’Uganda e l’Etiopia, decise a non rispettare più un accordo per loro penalizzante, hanno iniziato a costruire impianti idroelettrici per sfruttare le potenzialità idroelettriche del ‘loro’ Nilo. Con esse si è schierato il Sud Sudan, interessato allo sfruttamento del Nilo Bianco, facendo andare su tutte le furie l’Egitto che perciò «si è schierato apertamente con il Sudan convincendo anche la Lega Araba a fare altrettanto. L’Egitto, in caso di nuovo conflitto tra Nord e Sud Sudan, potrebbe dunque diventare – è la previsione di Secondo Protocollo – un prezioso alleato militare di Karthoum». «Solo che un conflitto del genere – allerta la ong africana – coinvolgerebbe giocoforza anche Uganda e Etiopia, (…), trasformando una guerra locale in un conflitto regionale».

La complessità già evidente nel contesto sudanese rischia di diventare esplosiva se ad essa si aggiungono gli interessi della Cina (che già ha preso accordi con el-Bashir) e della Lega Araba sullo sfruttamento del petrolio e le alleanze strategiche fra governo di Juba e Israele contro Sudan-Libia per lo sfruttamento delle potenzialità agricole del Sud Sudan. E senza dimenticare l’irrisolto e feroce conflitto nel Darfur, anch’esso ricco di petrolio, che dal 2003 vede contrapposte la locale maggioranza nera della popolazione, composta da tribù sedentarie, e la minoranza nomade originaria della Penisola arabica, che costituisce maggioranza nel resto del Sudan. Quest’ultima è stata appoggiata dal governo centrale (a stragrande maggioranza araba), a sua volta accusato di tollerare le feroci scorribande dei Janjawid (letteralmente “demoni a cavallo”, reclutati fra gli Abbala). (eletta cucuzza)

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