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Amici come prima

- Argentina: nel 1978 il dittatore Videla confessò ai vertici della Conferenza episcopale la questione dei desaparecidos. Cronaca di un «cordiale» incontro

Tratto da: Adista Contesti n° 20 del 26/05/2012

Tratto dal quotidiano argentino Página/12 (6 maggio 2012). Titolo originale: Preguntas  sin respuesta

La politica di sparizioni forzate che l’ex dittatore Jorge Videla ha ammesso in diverse interviste e davanti alla giustizia, nel 1978 fu riconosciuta anche davanti alla Commissione Esecutiva della Chiesa cattolica. Videla disse che gli sarebbe piaciuto condividere le informazioni in suo possesso ma che poiché riguardavano il fatto che i detenuti desaparecidos erano stati uccisi sarebbero piovute domande su chi aveva ucciso chi, quando, dove, in che circostanze e che fine avessero fatto i resti. A distanza di 34 anni la risposta a queste domande rimane sospesa.

In un colloquio con il giornalista Ceferino Reato, il quale afferma che non ha importanza «prendere posizione a favore o contro l’intervistato», Videla dice che la sparizione di persone non fu dovuta a eccessi o errori ma a una decisione della piramide militare di cui era il vertice. Ma dà anche a intendere che l’impossibilità di dare conto dei desaparecidos risponde al fatto che l’informazione non era centralizzata, che ogni capo di zona sapeva solo cosa succedeva nella sua giurisdizione e che molti di costoro sono morti. «I registri avrebbero spalancato le porte a un dibattito che avrebbe condotto alla domanda finale: dove sono i resti mortali di ogni desaparecido? Non avevamo risposte a queste domande, così che il problema, dilatandosi, si aggravava giorno dopo giorno, persistendo fino ad oggi».

Nel suo incontro con la Chiesa cattolica Videla parlò però con più franchezza, come si fa con gli amici: disse che «il governo non può rispondere sinceramente, per le conseguenze sulle persone», un eufemismo con cui si riferiva a quanti si occupavano dello sporco compito di uccidere chi era stato sequestrato e torturato e si facevano carico della sparizione dei corpi. Scegliendo questa politica, che Videla descrisse come comoda perché evitava spiegazioni, la Giunta Militare gettò l’ombra del sospetto sulla totalità dei dirigenti delle Forze Armate e di Sicurezza, cosa che ha cominciato a emergere recentemente con la riapertura dei processi, in cui vengono alla luce del sole le responsabilità che la Giunta ha nascosto. Fino ad oggi sono state pronunciate 253 condanne e venti assoluzioni, il che mostra che in democrazia nessuno è condannato ex ante e che tutti possono esercitare il proprio diritto alla difesa.

Nel documento segreto su questo colloquio, che l’episcopato conserva nel suo archivio, l’affermazione di Videla sulla tutela di coloro che portarono a compimento i suoi ordini criminali è aggiunta a mano dal cardinale Raúl Primatesta, che presiedeva la Conferenza episcopale e che fu accompagnato alla riunione dai suoi due vicepresidenti, Vicente Zazpe e Juan Aramburu.

Nell’aprile scorso la giudice Martina Forns, titolare del tribunale federale n. 2 di San Martín, ha interrogato Videla in modo esaustivo, su invito dell’avvocato Pablo Llonto, che rappresenta Blanca Santucho, sorella del capo dell’Esercito rivoluzionario del Popolo (Erp) ucciso nel luglio del 1976 da un plotone dell’esercito e i cui resti non sono mai stati restituiti alla famiglia.

Si può prevedere che una mossa possibile sia la richiesta alla Chiesa di accedere ai documenti che possiede sull’argomento. Tra questi ci sono le spiegazioni di Videla catalogate con il numero 10.949, il che dà un’idea del volume delle informazioni che l’episcopato tiene segreto. Il documento è conservato nella cartella 24-II dell’Archivio della Conferenza episcopale. La Chiesa scelse di censurare il contenuto della conversazione nella quale Videla le rivelò che tutti i desaparecidos erano stati uccisi. A seguire, la storia di questo incontro pubblico dal contenuto segreto.

Lettera al cardinale

Il 10 aprile del 1978, il quotidiano Clarín titolava a pagina 3 “Il presidente della Nazione pranzerà oggi con i vertici dell’episcopato”. Emilio Fermín Mignone, la cui figlia Mónica Candelaria era stata sequestrata nel maggio del 1976, riempì tre dense pagine e le inviò con un messaggero alla sede della Conferenza episcopale. Anche questa lettera è conservata nell’archivio segreto che l’Episcopato ha nella sua sede di calle Suipacha, nella cartella intitolata “Persone detenute e desaparecidas, 1976-1983”. Mignone scriveva che, a due anni e mezzo dal golpe, era indubitabile che le sparizioni forzate costituissero «un sistema e non abusi isolati». Il fondatore del Cels (Centro de Estudios Legales y Sociales) descriveva questo sistema: il sequestro, la tortura e l’assassinio, «aggravato dal rifiuto di consegnare i corpi ai parenti, dalla loro eliminazione tramite cremazione o gettandoli in mare o nei fiumi o seppellendoli in fosse comuni».

Si realizzava così, in nome della «salvezza della “civiltà cristiana”, la salvaguardia della Chiesa cattolica», ponendo come «valore supremo, al di sopra di qualsiasi altro principio, inclusi i più sacri, la cosiddetta “sicurezza collettiva”». Aggiungeva Mignone che «niente di duraturo può fondarsi sulla menzogna». Insisteva sulla necessità che il governo informasse «sulla sorte di ogni “desaparecido”, la gran parte dei quali - lo sappiamo tutti e lo sanno anche i vescovi - sono stati arrestati da organismi delle Forze Armate o di Sicurezza. E questo, cardinale, è quanto la sollecitiamo a chiedere, pretendere, ottenere questa mattina dal presidente della Repubblica».

La disperazione e l’odio

Mignone diceva che la disperazione e l’odio stavano vincendo molti cuori. Informava anche Primatesta che a marzo Emilio Massera gli aveva detto che la Marina voleva che fossero diffuse notizie sulla sorte di ogni desaparecido e detenuto non dichiarato ma che l’Esercito si opponeva a questa richiesta. «Ci ha chiesto di sollecitare lei, il nunzio, mons. Tortolo, affinché insistiate in questo senso con il Presidente e il comandante in capo dell’Esercito».

Mignone non ignorava le tensioni interne alla Giunta militare e non sentiva alcuna simpatia per nessuno dei suoi componenti. Cercava però di sfruttare queste contraddizioni per aprire una breccia nel muro di silenzio che si ergeva sul destino di sua figlia e di migliaia come lei.

Avvertì anche Primatesta che la tattica del silenzio, cui l’Episcopato dava il suo contributo per le sue ragioni, non era ammissibile. «Il popolo di Dio ha bisogno di partecipare e di essere informato. Abbiamo bisogno di sapere cosa dice l’Episcopato al governo nelle sue comunicazioni che altrimenti non sono di nessuna utilità».

Un dialogo franco

Il giorno seguente, Zazpe informò Mignone che la Commissione Esecutiva aveva comunicato a Videla «tutto ciò che diceva la sua lettera». Disse che erano stati «tremendamente sinceri» e che non avevano «fatto ricorso a un linguaggio approssimativo» ma lo avvertiva, come se si fosse trattato di una questione accessoria, che c’era «una divergenza sulla sua lettera» circa l’opportunità di dare o meno pubblicità a questo colloquio. «In questa occasione abbiamo deciso di non rendere noti i contenuti».

In occasione dell’Assemblea plenaria, Primatesta disse che i vescovi avevano chiesto a Videla dei casi segnalati nella lettera di Mignone, dei prigionieri che apparentemente venivano messi in libertà e che in realtà erano stati assassinati; disse che si interessarono dei sacerdoti desaparecidos, come Pablo Gazzarri, Carlos Bustos e Mauricio Silva, e di altri detenuti dei quali chiesero la liberazione e/o l’invio all’estero.

Ma lo svolgimento completo della riunione è contenuto solo in una minuta preparata per informare il Vaticano che non fu mai pubblicata.

Primatesta, Zazpe e Aramburu la scrissero nella sede della Conferenza episcopale al termine del pranzo, prima di dimenticare i dettagli. Il governo negava che ci fossero prigionieri politici perché tutti i detenuti erano «delinquenti sovversivi o comuni», inclusi i sacerdoti arrestati.

Le sparizioni erano opera del terrorismo che mirava a screditare il governo, il quale condivideva le inquietudini dei vescovi. I tre apprezzarono che Videla avesse riconosciuto l’esistenza di eccessi nella repressione ma dissero che non erano  a conoscenza di punizioni inflitte ai responsabili (altra riflessione di Mignone). In un clima che Aramburu descrisse come cordiale, Primatesta lamentò che Videla non poteva prendere «tutte le misure che voleva», discolpandolo così dei fatti che gli si addebitavano.

Lagnandosi, Videla disse che non era facile ammettere che i desaparecidos erano morti, perché questo avrebbe dato luogo a una serie di domande circa il posto in cui si trovavano i corpi e su chi fosse il responsabile di queste morti. Primatesta fece riferimento a una delle ultime sparizioni avvenute durante la Pasqua, a San Justo, «con un procedimento molto simile a quello utilizzato nel sequestro delle due religiose francesi» (Léonie Duquet e Alice Domon sequestrate e uccise nel dicembre 1977, ndt). La minuta redatta al termine del pranzo ricostruisce la replica testuale di Videla a questa sollecitazione: «Il presidente rispose che apparentemente la cosa più ovvia sarebbe stata dire che erano già morti, si trattava di oltrepassare una linea divisoria y éstos han desaparecido y no están. Ma anche se sembrava la cosa più ovvia, ne sarebbe scaturita una serie di domande su dove fossero sepolti i corpi: in una fossa comune? In questo caso: chi li ha messi nella fossa? Domande cui l’autorità del governo non può rispondere sinceramente per le conseguenze sulle persone». Vale a dire i sequestratori e gli assassini.

Primatesta insistette sulla necessità di trovare una soluzione, perché prevedeva che il metodo delle sparizioni avrebbe prodotto «cattivi effetti», data «l’amarezza che lascia in molte famiglie». Videla assentì. Anche lui lo pensava ma non trovava una soluzione. Questo colloquio di straordinaria franchezza mostra la conoscenza condivisa sui fatti e la fiducia con la quale si analizzavano tattiche di risposta alle denunce che ambo le parti avvertivano come una minaccia.

Primatesta parlò anche «del fatto che alcune Forze Armate volevano la pubblicazione delle liste dei detenuti, per esempio l’ammiraglio Massera». In realtà Mignone gli aveva scritto che la lista dei detenuti in sé non aveva alcun valore, perché i familiari già sapevano, e che ciò che Massera voleva era una lista dei detenuti-desaparecidos. Videla si strinse nelle spalle. Anche se presiedeva la giunta e il governo, disse, non deteneva tutto il potere e c’erano forze che non controllava. Gli atteggiamenti del clero avevano sottili sfumature. Zazpe domandò: «Che diciamo alla gente? Perché c’è un fondo di verità?». Secondo l’allora arcivescovo di Santa Fe, Videla «lo ammise». Aramburu spiegò che «il problema è cosa rispondere per far sì che la gente non continui a parlarne», il che sembra una fedele interpretazione del proposito di Massera. I capi dell’Esercito e della Marina scaricavano le proprie responsabilità l’uno sull’altro, e la Chiesa li seguiva nel gioco.

Secondo Aramburu, quando Videla ripetè che «non trovava una soluzione, una risposta soddisfacente, gli suggerì, perlomeno, di dire che non erano nelle condizioni di informare, di dire che c’erano dei desaparecidos, al di là delle persone i cui nomi avevano reso noti.

Primatesta spiegò che la «Chiesa vuole capire, cooperare, è cosciente dello stato caotico in cui versa il Paese» e che soppesa ogni parola perché sa molto bene «il danno che può fare al governo con riferimento al bene comune, se non si fa la dovuta attenzione».

Così come disse Videla al primo giornalista che lo intervistò, lo spagnolo Ricardo Angoso: «La mia relazione con la Chiesa cattolica fu eccellente, molto cordiale, sincera e aperta», perché questa «fu prudente», non creò problemi né seguì la «tendenza sinistrorsa e terzomondista». Condannava «alcuni eccessi», ma «senza rompere le relazioni». Con Primatesta, «siamo ancora amici». Anche sul conflitto interno, che Videla chiama guerra, «avevamo vedute comuni».

Zazpe morì nel 1984, Aramburu nel 2004 e Primatesta nel 2006. Ma i documenti su questo colloquio tra amici è ancora nell’archivio segreto dell’episcopato.

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