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I BAMBINI IMPRIGIONATI DALL’ESERCITO ISRAELIANI

Tratto da: Adista Documenti n° 35 del 06/10/2012

Nel giugno 1967, subito dopo la fine delle ostilità, un comandante dell’esercito israeliano firmò un’ordinanza che imponeva la legge militare a tutti i palestinesi che vivevano nei territori appena occupati. All’epoca, quel provvedimento era considerato legale secondo il diritto internazionale in considerazione del fatto che si trattava di una misura temporanea e che le forze militari israeliane si sarebbero ritirate a breve. Quarantacinque anni dopo, in Cisgiordania, due milioni e mezzo di uomini, donne e bambini palestinesi continuano a vivere sotto la legge militare israeliana, in spregio ai più elementari principi di democrazia: situazione che non può più rivendicare alcun tipo di legittimità giuridica.

Tutto questo è abbastanza risaputo. Ciò che forse è meno noto è il modo in cui questo sistema giuridico militare viene utilizzato per controllare e dominare, generazione dopo generazione, i palestinesi che vivono sotto occupazione e per soffocare le legittime aspirazioni di un popolo che chiede autodeterminazione.

In effetti, l’importanza del sistema di detenzione militare ai fini del controllo della popolazione civile è forse illustrata al meglio dal fatto che, a partire dal giugno 1967, più di 730mila palestinesi sono stati incarcerati e processati dai tribunali militari israeliani. Fra di essi, hanno annualmente subito questa sorte anche fra i 500 e i 700 bambini.

Il viaggio verso la prigione di molti bambini palestinesi comincia in genere in un «punto di frizione». I punti di frizione includono: gli insediamenti israeliani costruiti in violazione del diritto internazionale e dislocati nelle vicinanze di villaggi palestinesi; le strade che collegano tali insediamenti e che vengono utilizzate dall’esercito israeliano e dai coloni; il Muro, costruito per lo più, lungo diversi chilometri, sul versante palestinese del confine del 1967. È in questi punti che si verificano frequentemente manifestazioni, arresti e lanci di pietre, dal momento che la popolazione dà sfogo alla propria frustrazione derivante dal prolungato regime di occupazione militare e dal totale disprezzo della legalità.

La risposta dell’esercito israeliano ai disordini che si verificano nei punti di frizione consiste nel garantire che nessun episodio di resistenza, a prescindere dalla sua gravità, rimanga impunito. L’idea che sostiene tale politica è quella secondo cui la popolazione civile palestinese deve mettersi in testa che qualsiasi forma di resistenza è in realtà vana, nella convinzione che questo sia il modo migliore per assicurare una vita calma e normale ai 500mila civili israeliani che vivono negli insediamenti illegali. Ma quali sono le scelte possibili a disposizione dell’esercito quando nei Territori occupati viene lanciata una pietra contro un veicolo e non risulta possibile identificare l’autore del gesto? Se un incidente di questo tipo rimane impunito, non verranno senz’altro lanciate altre pietre il giorno successivo, col rischio che ciò comporti in breve tempo il crollo dell’autorità militare? La soluzione a questo dilemma che è andata sviluppandosi negli ultimi quarantacinque anni è piuttosto semplice, ancorché illegale.

La prima fase della risposta è costituita dal supporre che la persona che ha tirato la pietra provenga dal villaggio palestinese più vicino. Il passo successivo consiste nel compilare una lista di giovani e di ragazzi di quel villaggio che sono stati già arrestati precedentemente, oppure i cui nomi sono stati fatti da altre persone durante un interrogatorio o anche da informatori. Alcuni giorni dopo, lista alla mano, un convoglio di mezzi militari lascia la propria base, in genere nel cuor della notte, e converge verso l’ignaro villaggio. Cominciano così gli arresti per rappresaglia. La descrizione che segue è basata su centinaia di testimonianze giurate fornite da diversi bambini nel corso degli ultimi cinque anni.

UN’ESPERIENZA DEVASTANTE

Nella maggior parte dei casi, il bambino viene svegliato dal rumore dei soldati che urlano e che ordinano ai suoi familiari di uscire di casa. In alcune occasioni, diversi bambini hanno raccontato di essere stati svegliati da un trambusto nella propria stanza da letto per poi trovarsi di fronte un gruppo di militari armati fino ai denti e con i fucili mitragliatori spianati. La maggior parte di questi bambini riferisce di essere stata «impaurita», o anche «terrorizzata», da esperienze di questo tipo. Ai familiari viene in genere ordinato di andarsene tutti in una stanza, oppure all’esterno dell’abitazione, quali che siano le condizioni atmosferiche. L’ufficiale responsabile dell’operazione confronta poi i vari documenti di identità dei membri della famiglia con la lista che gli è stata fornita da un superiore. Una volta che il bambino presente sulla lista è stato identificato, viene bendato e gli vengono legate, in maniera dolorosa e con un laccetto di plastica, le mani dietro la schiena. Questo avviene anche quando il bambino ha appena dodici anni. Raramente ai genitori e ai bambini viene detto, prima di scortarli all’esterno e di portarli via nel cuor della notte, perché li si sta arrestando o dove li si intenda portare. Chiunque cerchi di seguire il convoglio viene costretto a fare marcia indietro sotto la minaccia delle armi.

Una volta fuori dalla propria casa, i bambini vengono caricati su un veicolo militare rimasto ad attenderli e, almeno una volta su tre, costretti a sedersi, legati e bendati, sul pavimento di metallo, dove possono essere lasciati anche per ore. Molte vittime riferiscono di essere state insultate e/o aggredite fisicamente durante il trasferimento su questi mezzi militari. Il loro viaggio viene spesso inframezzato, nel corso di tutta la nottata, da diverse fermate in luoghi sconosciuti. Durante queste interruzioni, sono condotti fuori dal veicolo e, sempre legati e bendati, fatti sedere all’aperto, sulla nuda terra, anche nel periodo invernale. In questa fase, qualsiasi richiesta di poter andare al bagno o di bere un bicchiere d’acqua viene in genere accolta con uno schiaffo o con un insulto. In un momento imprecisato dopo l’alba, il bambino, che è ormai terrorizzato, indolenzito e provato dalla mancanza di sonno, arriva in una stazione di polizia situata all’interno di uno degli insediamenti. È a questo punto che inizia l’interrogatorio.

Al momento del suo arrivo al posto di polizia, il bambino è in genere condotto immediatamente nel luogo in cui verrà interrogato. Viene portato in una stanza e fatto sedere su una sedia. La benda viene rimossa, ma le mani, ormai gonfie, rimangono in genere legate dietro la schiena. Nonostante l’ordinamento militare preveda che il bambino debba vedere un avvocato, ciò di fatto non si verifica se non molto tempo dopo la fine dell’interrogatorio, e nessuno informa il bambino circa il suo diritto al silenzio. A differenza di un qualsiasi bambino israeliano, ivi compresi quelli che vivono negli insediamenti illegali, un bambino palestinese non ha diritto di essere accompagnato da un genitore, una forma di tutela pratica contro gli interrogatori che ricorrono a tecniche illegali. La persona che conduce l’interrogatorio comincia quindi col chiedere al bambino perché tiri le pietre agli israeliani, un’accusa che viene regolarmente negata dall’interrogato. A questo punto l’interrogante si avvicina al bambino, che ha ancora le mani legate, fin quasi a toccare il suo volto con il proprio, cominciando a gridare, generalmente un misto di minacce e di oscenità, per fiaccare la resistenza psicologica del minore. Nella maggior parte dei casi, il bambino corre anche il rischio di essere schiaffeggiato e di essere buttato giù dalla sedia. Talvolta il trattamento riservato all’interrogato è anche peggiore.

Su un campione di circa trecento testimonianze giurate raccolte nel corso degli ultimi quattro anni, i minori hanno riferito di essere stati sottoposti a violenza fisica nel 75% dei casi, minacciati nel 57% e insultati nel 54%. Il 12% degli interrogati ha anche detto di essere stato tenuto in isolamento, generalmente all’interno di celle piccole, sporche e prive di finestre, nelle quali la luce viene tenuta accesa ventiquattro ore su ventiquattro. Tale pratica continua ad aver luogo nonostante diverse agenzie delle Nazioni Unite ne abbiano richiesto la totale proibizione nel caso di minori. La richiesta è motivata dal fatto che, trattandosi di bambini, le conseguenze psicologiche di una simile pratica possono essere gravi e, in alcuni casi, catastrofiche.

Il risultato di tutto ciò è che i bambini finiscono in maggioranza per confessare, quale che sia l’accusa che viene loro rivolta. Incredibilmente, al 29% dei minori che vengono interrogati viene mostrata della documentazione, che talvolta sono anche costretti a firmare, redatta in ebraico, una lingua che non conoscono.

Nell’arco dei quattro giorni successivi al loro arresto, i bambini abbandonano i centri in cui sono stati interrogati per essere condotti di fronte al giudice di un tribunale militare. È qui che la maggior parte di loro incontra per la prima volta il proprio avvocato, vale a dire molto tempo dopo la fine dell’interrogatorio, quando hanno già firmato una confessione. L’avvocato consiglia quasi sempre al minore di dichiararsi colpevole, sia che il reato sia stato commesso, sia che non lo sia stato, dal momento che questo è il modo più veloce per uscire da un sistema che nega ai bambini il rilascio su cauzione nell’87% dei casi. In base ad alcune cifre pubblicate di recente dai tribunali militari, il tasso dei condannati ha raggiunto nel 2010 uno sconcertante 99,74%, percentuale all’interno della quale le condanne a pene detentive costituiscono a loro volta il 98%.

Dopo essere stato giudicato colpevole, un minore accusato di aver lanciato pietre può aspettarsi di rimanere in prigione in territorio israeliano per circa tre mesi, in violazione dell’articolo 76 della quarta convenzione di Ginevra, che ne proibirebbe il trasferimento all’esterno dei Territori occupati. Imprigionare bambini palestinesi all’interno di Israele non solo è illegale, ma rende anche difficili, e talvolta impossibili, le visite dei familiari. All’interno del carcere, solo alcuni minori ricevono un’istruzione, oltretutto di natura limitata per motivi di «sicurezza».

È questa la realtà quotidiana determinata dall’occupazione militare israeliana, che si protrae ormai da anni, e dalla costruzione di insediamenti illegali.

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