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«HASTA SIEMPRE, COMANDANTE». IL VENEZUELA PIANGE IL PRESIDENTE HUGO CHÁVEZ

Tratto da: Adista Notizie n° 10 del 16/03/2013

37081. CARACAS-ADISTA. «Quelli che muoiono per la vita, non si possono chiamare morti», cantava il compositore e poeta venezuelano Alí Primera. Ed è con questa certezza che il popolo del Venezuela, un’immensa marea umana colorata di rosso, ha accompagnato e bagnato di lacrime il corteo funebre del presidente Hugo Chávez. Non c’è dubbio che la morte del leader bolivariano rappresenti – come ha sottolineato il vicepresidente (e ora presidente ad interim) Nicolás Maduro – una «tragedia storica» per il Venezuela e anche per la Patria Grande latinoamericana: amato come nessun altro – dai poveri e dagli emarginati, che lo hanno sentito come «uno di famiglia» –, odiato come nessun altro – dalle oligarchie locali e internazionali –, Chávez ha scritto una pagina radicalmente nuova della storia del suo Paese, sconfiggendo ad uno ad uno tutti i suoi avversari e finendo per arrendersi, all’età di 58 anni, solo al cancro (contro cui ha lottato per due anni e quattro interventi chirurgici, l’ultimo dei quali subìto l’11 dicembre all’Avana). Nell’ultimo dei suoi 1.824 tweet, aveva scritto, il 18 febbraio scorso: «Continuo ad aggrapparmi a Cristo e ad affidarmi a medici e infermiere. Hasta la victoria siempre! Vivremo e vinceremo!».
Enorme, in tutto il mondo, il rilievo dato alla notizia. Se il governo statunitense (accusato da Maduro addirittura di aver provocato in qualche modo la malattia del presidente, oltre che di mirare alla destabilizzazione della società venezuelana) ha tirato sicuramente un sospiro di sollievo, non altrettanto hanno fatto i governi – e ancor di più i popoli – dell’America Latina: con lui si spegne «una luce per la rivoluzione latinoamericana», hanno ricordato i capi di Stato del subcontinente (giunti tutti nella capitale, tranne il golpista paraguayano Federico Franco, per partecipare ai funerali di Stato del presidente). E a piangerlo è una lista impressionante di movimenti popolari latinoamericani e non solo (di «perdita irreparabile» parlano ad esempio Via Campesina e il Movimento dei Senza Terra del Brasile) e di personalità illustri di tutto il mondo.
Non poteva essere altrimenti: come ha sottolineato Atilio Borón (Rebelión, 6/13), Chávez è stato «il protagonista principale della sconfitta del più ambizioso progetto imperialista per l’America Latina: l’Alca», a cui egli ha opposto il progetto alternativo dell’Alba (l’Alleanza bolivariana per le Americhe), una proposta di integrazione destinata a mantenere vivo il sogno di Bolívar e Martí di un’America unita e solidale. E se «basterebbe questo a collocarlo nella galleria dei grandi patrioti della Nostra America», «egli ha fatto molto di più», «riformattando l’agenda dei governi, dei partiti e dei movimenti sociali della regione con un interminabile torrente di iniziative e proposte di integrazione», da Telesur a Petrocaribe e al Banco del Sur, fino alla Celac (Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici). Come evidenzia del resto Juan Carlos Monedero, docente di Scienze Politiche all’Universidad Complutense di Madrid (Público, 6/3), Chávez «sapeva che un popolo non può salvarsi da solo. Che bisognava salvare tutto il Continente. Non è quello che l’Europa chiede a Merkel? Ma Merkel non è Chávez».

Nel segno di Bolivar
Hugo Chávez nasce a Sabaneta, nello Stato di Barinas, il 28 luglio del 1954, secondo di sei figli di una coppia di maestri rurali, i quali, a causa delle ristrettezze economiche, avevano dovuto affidarlo alla nonna paterna. All’età di 17 anni si arruola nell'Accademia Venezuelana di Arti Militari e inizia la sua carriera nelle Forze Armate, raggiungendo il grado di colonnello. Sostenitore convinto del pensiero e dell’opera del Libertador Simón Bolívar, Chávez guida nel 1992 la ribellione contro il corrotto presidente Carlos Andrés Pérez. Ma senza successo: arrestato e imprigionato, riacquista la libertà nel 1994 grazie a un’amnistia, ma deve abbandonare le Forze Armate. Dal carcere esce con le idee chiare e la volontà altrettanto chiara di trasformare un Paese: fonda il Movimiento V República e si presenta alle elezioni presidenziali del 1998, con un programma centrato sul riscatto del pensiero bolivariano, il recupero della sovranità popolare e nazionale, il sostegno alle fasce povere e la convocazione di un’Assemblea Costituente per la rifondazione dello Stato venezuelano. Decide di dargli fiducia il 56,2% degli elettori. Una fiducia che si dimostrerà ben riposta.
Dopo il suo insediamento alla guida del Paese, gli eventi si susseguono a un ritmo vertiginoso: prima il referendum per l’Assemblea costituente, poi l’elaborazione della nuova Carta costituzionale, approvata dai venezuelani con il 71% dei voti, quindi la convocazione delle prime elezioni della neonata Repubblica Bolivariana del Venezuela, vinte da Chávez con il 59,8%  dei suffragi. In appena due anni, gli investimenti in campo sociale passano dal 29 al 37% della spesa pubblica, con l'aumento del 100% dei fondi destinati all'educazione e del 108% di quelli destinati alla salute. Ma subito aleggia in Venezuela lo spettro del golpe cileno: nel dicembre del 2001 la Federazione delle Camere del commercio (Fedecamaras) proclama lo sciopero generale, con l’obiettivo di ottenere la deroga di provvedimenti come la Legge sulla terra, che permette di confiscare e ridistribuire terreni privati al di sopra di una certa dimensione e giudicati improduttivi, o la Legge sugli idrocarburi, che segna un'inversione di tendenza rispetto a 20 anni di liberalizzazione e privatizzazione nel settore petrolifero. 
Il colpo di Stato arriva sul serio, l’11 aprile del 2002. A scatenarlo è il ricambio dei vertici dell'azienda petrolifera di Stato deciso da Chávez, con il conseguente sciopero generale indefinito promosso dagli antichavisti con la benedizione (e partecipazione) degli Stati Uniti. Ma per latifondisti, industriali, ceti medi e alti, esponenti della gerarchia ecclesiastica, oltre che per gli inquilini della Casa Bianca, la festa dura poco: grazie alla massiccia mobilitazione del popolo venezuelano, il presidente viene reintegrato nel giro di appena 48 ore. Ad uscire malconci dalla vicenda, oltre naturalmente al presidente della Confindustria venezuelana, il golpista Pedro Carmona, sono i vertici della Chiesa cattolica, a cominciare da mons. Baltazar Enrique Porras, dall’allora arcivescovo di Valencia Jorge Urosa Savino e soprattutto dal card. Ignacio Velasco, il quale si era spinto a chiedere «in nome di Dio» al presidente, tenuto prigioniero nell’isola della Orchila, di firmare la rinuncia alla presidenza perché «tutto era già compiuto». «Il popolo – racconterà Chávez – stava combattendo nelle strade, i militari patrioti si univano ad esso, la dittatura perseguitava e assassinava, il Venezuela era prossimo a una guerra civile e quel cardinale mentiva consapevolmente, dicendomi che tutto era calmo, che il popolo era tranquillo, che io dovevo fare “un ultimo gesto” firmando la rinuncia e che “Dio mi avrebbe colmato di benedizioni”. Fu allora che gli dissi: “Ahi, cardinale, se Cristo ti vedesse”». Ma il conflitto tra governo e gerarchia cattolica accompagnerà l’intera vicenda presidenziale di Chávez: da allora, nessuna accusa verrà risparmiata al leader venezuelano, a fronte di un silenzio assordante da parte della gerarchia sulle conquiste sociali della rivoluzione bolivariana. E una frattura realmente grave si consuma all'interno della Chiesa cattolica tra i vertici ecclesiastici e la Chiesa di base, decisa ad accompagnare il popolo semplice e povero divenuto protagonista della sua storia.

Con il popolo, contro l’oligarchia
Fallito il golpe, un nuovo attacco contro Chávez viene, tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003, dallo sciopero – in realtà golpe mascherato da sciopero – portato avanti per 62 giorni dall'opposizione con l’obiettivo di paralizzare l'industria petrolifera nazionale (la Pdvsa), sulla pelle dei malati e delle donne incinte che non possono raggiungere l’ospedale per mancanza di benzina (nessuna parola di condanna giunge dai vescovi). Dopo aver quasi messo in ginocchio il Paese, gli antichavisti devono tuttavia arrendersi: le attività petrolifere, dopo i licenziamenti e le sostituzioni di manager e tecnici negli impianti, tornano lentamente alla normalità. Ma i danni del blocco (attuato dalla dirigenza, non dai lavoratori) provocano una caduta drastica delle entrate fiscali del Paese nel primo trimestre del 2003.
È proprio a partire dal 2003, tuttavia, che nascono le “missioni”, i programmi sociali del governo negli ambiti dell’educazione (con progetti che vanno dall’alfabetizzazione di adulti e adolescenti fino a programmi diretti ai giovani che vogliono andare all’università), della salute (con l’introduzione del sistema cubano del medico di famiglia, grazie a cui oltre 20mila lavoratori della salute abitano e convivono con il popolo nei luoghi più poveri, ma anche con progetti come la Missione Miracolo, per risolvere i problemi alla vista, o la Missione Sorriso, per far fronte ai problemi dentali), dell’alimentazione (garantendo l'accesso ai beni alimentari al prezzo di costo, attraverso una rete locale di negozi non appartenenti allo Stato), della politica abitativa e, più in generale, in tutti i campi legati al miglioramento delle condizioni di vita delle fasce povere ed emarginate (come, ad esempio la Missione Musica, rivolta a garantire ai bambini e ai giovani più poveri l’accesso all’educazione musicale, anche come strumento di prevenzione della violenza).
L’opposizione prova a giocare una nuova carta, sperando di sbarazzarsi del presidente nel referendum di revoca previsto dalla Costituzione bolivariana nei confronti di qualunque carica elettiva, dunque anche quella del presidente della Repubblica, una volta raggiunta la metà del mandato (nessun'altra democrazia occidentale consacra il diritto dei cittadini a revocare anticipatamente il mandato del presidente). Ma anche questa volta deve arrendersi: il 15 agosto del 2004, Chávez riporta una limpida e netta vittoria (58.3% contro 41.7). Coloro che erano invisibili, commenta Eduardo Galeano, «non sono disposti a ritornare a Nadalandia, che è il paese in cui abitano los nadies», quelli che non contano niente.
Non sapendo più che pesci prendere, nel dicembre del 2005, l'opposizione venezuelana, manovrata abilmente da Washington, decide di disertare le elezioni parlamentari, ritirando i propri candidati: di fronte a una sconfitta certa, i partiti di opposizione preferiscono boicottare il processo elettorale, lasciando che Chávez si presenti da solo e avvalorando così, in sede internazionale, l'idea di un deficit democratico nel Paese.

Otto anni di vittorie e una sconfitta
Nessuna sorpresa viene dalle elezioni presidenziali del 2006, quando a far notizia, più che la vittoria di Chávez, è il riconoscimento della sconfitta da parte dell'opposizione: talmente grande la differenza tra il vincitore e il candidato delle destre Manuel Rosales, governatore dello Stato di Zulia ed ex golpista (61% contro 38%), da impedire all'opposizione anche il ricorso alla protesta contro presunte frodi. All’indomani delle elezioni, il presidente annuncia un progetto di riforma costituzionale, sottolineando la volontà di avanzare verso la «costruzione della patria socialista». Un progetto che – discusso e approvato dall’Assemblea nazionale dopo più di due mesi di discussioni e oltre 20mila assemblee nei diversi villaggi e nelle diverse piazze dei quartieri e delle città – viene sottoposto a referendum il 2 dicembre del 2007.
Delle profonde modifiche introdotte dal progetto di riforma – la riduzione dell’orario di lavoro da 48 a 36 ore settimanali, la soppressione dell’autonomia della Banca Centrale, la definizione di nuovi strumenti di partecipazione del popolo, lo sviluppo dell’agroecologia come base strategica dello sviluppo rurale, la creazione di nuove forme di proprietà, con la rivendicazione di un diritto alla proprietà privata sociale contro un diritto alla proprietà privata capitalista – è soprattutto una, però, a catturare l’attenzione internazionale: quella relativa alla “rielezione indefinita”, con l’abrogazione del limite al numero di mandati presidenziali (che passano inoltre da sei a sette anni). Se c’è chi evoca lo spettro di una dittatura, sono in molti a difendere la misura voluta da Chávez. Come il presidente brasiliano Lula, che definisce “divertente” il fatto che Margareth Thatcher sia stata tante volte eletta primo ministro o che Helmut Kohl sia rimasto tanti anni al potere e «nessuno si sia mai chiesto se la proposta di vari mandati consecutivi fosse cattiva».
Contestato aspramente dalle élite, il progetto di riforma costituzionale riceve una durissima bocciatura anche dalla Conferenza episcopale, che giunge a definirlo «moralmente inaccettabile alla luce della Dottrina Sociale della Chiesa», lanciando l’allarme sulla presunta soppressione della libertà, «che non corregge le ingiustizie ma ne aggiunge altre, asfissianti e insopportabili», ed esprimendo una condanna del modello di Stato marxista-leninista, per quanto in nessuna parte del progetto si trovi anche solo una semplice menzione di Marx o Lenin.
Più di una critica al progetto di riforma giunge, tuttavia, anche dal campo amico, rispetto non solo alla poca chiarezza relativa al progetto di costruzione del socialismo del XXI secolo, ma anche all’inopportunità dell’eliminazione dei limiti per la rielezione presidenziale, in quanto ostacolo alla creazione di una cultura autenticamente democratica. A tutti Chávez risponde: «Se il popolo dirà no, sarà no, io farò sempre quello che decide il popolo». E il popolo, per la prima e unica volta, dice no: rispetto alle elezioni del 2006, mancano all’appello 3 milioni di voti, un calo di consensi che molti riconducono ai limiti del processo rivoluzionario, a cominciare dal peso di una struttura statale burocratica, corrotta e inefficiente. A smentire ancora una volta quanti lo accusano di tendenze dittatoriali, Chávez riconosce serenamente la sconfitta. Sconfitta, oltretutto, di strettissima misura, 50,7% contro 49,3%: percentuali che, se fossero risultate invertite, avrebbero di sicuro fatto gridare la destra alle frodi e al colpo di Stato.
Ma Chávez ottiene ugualmente il suo obiettivo: al referendum del 15 febbraio del 2009, infatti, il 54% dei venezuelani dice sì all’emendamento costituzionale che permette a presidente, deputati, governatori e sindaci di ricandidarsi indefinitivamente. E che dunque consente a Chávez di ripresentarsi anche alle elezioni presidenziali del 2012, «a meno che – dice – Dio non disponga altrimenti».

Chávez, ancora e ancora
Un campanello d’allarme suona però, e forte, alle elezioni venezuelane per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale, nel settembre del 2010, quando il Partido Socialista Unido de Venezuela (Psuv) conquista appena 98 seggi, contro i 65 dell’opposizione. L’amara vittoria impone una rapida e profonda revisione dell’azione di governo, anche a fronte della crisi economica attraversata dal Paese, in gran parte dovuta al crollo del prezzo del petrolio, da cui il Venezuela è ancora fortemente dipendente (per il 90% del totale delle esportazioni). E a cui si aggiunge una siccità senza precedenti, con conseguenti problemi nella somministrazione di energia e gravi paralisi nell’attività industriale, oltre a un’errata politica di supervalutazione del bolivar, la moneta locale, che determina una riduzione delle esportazioni e l’aumento del tasso di inflazione.
Si arriva infine alle elezioni presidenziali dell’ottobre scorso, definite dal dirigente del Movimento dei Senza Terra del Brasile João Pedro Stedile come «elezioni continentali», essendo in gioco non solo la continuità del progetto bolivariano, ma il destino dell’intera Patria Grande. La stampa internazionale (a cominciare da quella italiana) parla di «elezioni al cardiopalma», con i due contendenti separati appena da una manciata di voti: uno, Henrique Capriles Radonsky, il candidato dell’oligarchia, descritto come giovane e arrembante, l’altro, Hugo Chávez, presentato come malato e sul viale del tramonto politico. Ma le cose non vanno così: la vittoria è netta (55,15% contro 44,25%), con il numero dei voti pro-Chávez che sfonda per la prima volta il muro degli otto milioni, contro i poco meno 6 milioni e mezzo dell’opposizione. «Hai arato il terreno, lo hai seminato, lo hai irrigato e ora ti godi il raccolto», è la frase che gli rivolge la presidente argentina Cristina Kirchner. Due mesi dopo, l’annuncio della ricaduta del presidente, costretto a operarsi per la quarta volta, a cui il popolo risponde consegnando al Psuv, alle elezioni regionali dello scorso 16 dicembre, una schiacciante vittoria.
 
La conquista della dignità
Un caudillo allergico alla democrazia (quando non, semplicemente, un dittatore, come è stato ancora in questi giorni descritto): così i media “ufficiali” (e quelli italiani non fanno sicuramente eccezione) hanno generalmente definito il presidente Chávez, offrendone spesso e volentieri una grottesca caricatura. E ponendo l’enfasi su una presunta mancanza di libertà di espressione, malgrado in Venezuela l’80% della stampa scritta sia nelle mani dell’opposizione, la quale controlla anche 61 canali televisivi su 111, con un audience che supera il 61%.
«La bella rivoluzione», come l’ha chiamata il leader bolivariano, è stata dunque in gran parte una rivoluzione sottaciuta. Ma ai margini dell'informazione ufficiale, nell'ampio arcipelago dei mezzi di comunicazione alternativa, quella rivoluzione è stata raccontata ampiamente, e in maniera assai diversa. Per quanto il progetto di costruzione del socialismo del XXI secolo sia rimasto essenzialmente a livello di intenzioni e il Venezuela resti a tutti gli effetti un Paese capitalista; per quanto neppure Chávez sia riuscito a intaccare il modello estrattivista dilagante in tutta l’America Latina; per quanto gli errori commessi (e spesso riconosciuti) non siano pochi e i problemi restino seri (l’inefficienza dell’apparato burocratico, la corruzione dilagante, la violenza…); una sorta di rivoluzione, nondimeno, c’è stata. Al di là di un investimento nelle politiche sociali pari al 43,2% del bilancio statale, di una netta riduzione della percentuale di poveri (passata, tra il 2001 e il 2010, dal 48,6% al 27,8%) e di molti altri dati incoraggianti (basti ricordare come il Paese presenti il miglior coefficiente Gini – l’indice che misura il tasso di disuguaglianza – dell’America Latina e come, secondo i risultati di un sondaggio Gallup, il Venezuela risulti al quinto posto, insieme alla Finlandia, nella classifica dei Paesi considerati più felici dai propri abitanti), il risultato in assoluto più importante è stato quello della conquista di una nuova consapevolezza da parte del popolo povero, la coscienza della propria insopprimibile dignità. È su questo che, già nel 2007, poneva l’accento, in un’intervista rilasciata ad Adista, il gesuita p. Numa Molina: «Ho visto una donna di un quartiere povero, con un bambino in braccio, avvicinarsi al direttore di un qualche dipartimento statale e chiedergli conto di una petizione che lei, insieme a un gruppo di donne del quartiere, aveva presentato senza ottenere risposta. Il direttore le ha spiegato che la responsabilità non era sua, ma del tale ufficio. “Ma è proprio perché lei è il direttore che deve rispondere”, ha ribattuto lei. E poiché lui cominciava ad alterarsi, la donna ha sfilato dalla tasca la Costituzione, che in Venezuela è diffusa in un formato minuscolo, tascabile. E ha detto che lui aveva il dovere di rispondere, perché questo diceva la Costituzione all’art. tale, e ha cominciato a leggerlo. A quel punto il direttore ha cambiato completamente atteggiamento: le ha dato appuntamento per il giorno dopo e le ha lasciato il numero del cellulare. È così che il popolo venezuelano ha imparato a difendere i propri diritti». (claudia fanti)

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