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Il peso delle conseguenze

Tratto da: Adista Documenti n° 28 del 27/07/2013

L’apertura ufficiale, il 28 giugno del 2005, della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II ha sollecitato tutti i cattolici, uomini e donne, che si sentono partecipi e responsabili della vita della loro Chiesa, ad inviare le loro testimonianze sulle opere del romano pontefice scomparso il 2 aprile precedente.

Come era stato correttamente annunziato, potevano essere inviate, all’ufficio competente del Vicariato di Roma, sia testimonianze a favore che testimonianze contrarie alla glorificazione di Karol Wojtyla, purché tutte fondate su dati obiettivi.

Valutando, in tutta scienza e coscienza, il pontificato di Giovanni Paolo II, un gruppo di cattolici (teologi, teologhe, storici), al quale mi sono unito, ritenne che le dichiarazioni pubbliche sul pontefice scomparso, e le iniziative suscitate per favorire la sua causa di beatificazione, fossero spesso caratterizzate da una valutazione superficiale ed acritica del suo operato. E perciò, nel rispetto di altri e differenti pareri, lo stesso gruppo, a dicembre 2005, pubblicò un Appello, confermato e firmato anche da altri esattamente un anno dopo e quindi inviato al Vicariato di Roma, nel quale metteva brevemente in luce quelli che, a parere dei sottoscrittori, erano dei pesanti limiti del pontificato.

È naturale che un pontificato durato quasi 27 anni sia carico di eventi, variamente valutabili. Se, in quell’Appello, erano sottolineati quelli, a giudizio dei firmatari, “negativi”, non si presumeva certo, con questo, di ignorare gli aspetti “positivi” del pontificato e, perciò, si ricordava in particolare l’impegno di Wojtyla contro la guerra, il suo generoso spendersi nell’attività di pastore, il tentativo di ammettere le colpe storiche dei figli e figlie della Chiesa nel passato.

Nello stesso spirito dell’Appello, e lasciandolo sullo sfondo, in questa deposizione, ora, come testimonianza personale, vorrei precisare le ragioni delle mie fondate riserve alla beatificazione di papa Wojtyla. 


IL CASO IOR-BANCO AMBROSIANO

Sul pontificato di Giovanni Paolo II incombe un’ombra che, a mio parere, mostra come quel pontefice violò le virtù della prudenza e della fortezza: mi riferisco a come egli gestì la vicenda dell’Istituto per le Opere di Religione (Ior) in connessione con il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Non è, questo, il luogo per esaminare in lungo e in largo la complessa vicenda; mi limito a rilevare che i giudici italiani erano giunti alla conclusione che mons. Paul Marcinkus, presidente dello Ior, aveva avuto gravissime responsabilità per il crack dell’Ambrosiano e che, dunque, dalla Città del Vaticano doveva essere estradato in Italia per essere arrestato e interrogato. Del resto, questa era anche la possibilità, per lui, di dimostrare limpidamente la sua innocenza e l’infondatezza delle accuse addebitategli.

La linea difensiva della Santa Sede, in tale vicenda, non fu quella di accertare se le accuse a Marcinkus fossero fondate, ma solamente quella di respingere, in quanto a suo parere contrastanti con i Patti Lateranensi, le richieste della magistratura italiana, perché queste avrebbero interferito in un ambito, e in uno Stato, in cui l’Italia non poteva entrare. In effetti, dopo una lunga schermaglia giuridica e diplomatica, la stessa Corte di Cassazione, nel luglio 1987, diede ragione alle tesi vaticane. Senza entrare in questioni giuridiche, la domanda da porsi è la seguente: Giovanni Paolo II favorì l’accertamento della verità sul caso Ior? La risposta, mi pare, è negativa; il papa decise, o lasciò che decidessero, di impedire, con pretesti giuridici, l’accertamento della verità. Infatti, ammesso e non concesso che i giudici italiani non avessero titolo a chiedere l’estradizione di Marcinkus, nessun processo pubblico si è tenuto nella Città del Vaticano per accertare i fatti. Wojtyla diede allora, e offre anche oggi, motivi fondati per dubitare dell’innocenza di Marcinkus e, anche, della trasparenza della gestione finanziaria della Santa Sede.

Pochi mesi dopo i fatti sopra citati (l’appello ai Patti Lateranensi per evitare l’estradizione di mons. Marcinkus), Wojtyla, il 26 novembre 1982, così affermava alla conclusione di una plenaria del Collegio cardinalizio che aveva discusso anche dello Ior: «Desidero poi ringraziarvi in modo particolare per l’attenzione che avete dato alla questione dell’Istituto per le Opere di Religione. Una riunione di 15 Cardinali, com’è noto, ha previamente studiato la cosa prima che il Collegio Cardinalizio si radunasse qui, in questi giorni. Si tratta di una questione delicata, complessa, che è stata soppesata in tutti i particolari: voi ne avete avuto una esposizione adeguata, e avete potuto rendervene conto per quei suggerimenti che siano necessari. La Santa Sede è disposta a compiere ancora tutti i passi che siano richiesti per un’intesa da entrambe le parti perché sia posta in luce l’intera verità. Anche in questo, essa vuole solo servire la causa dell’amore».

Mai parole tanto impegnative sono state altrettanto contraddette: infatti, pubblicamente, nulla ha fatto Wojtyla per accertare la verità. È vero: ha poi riformato lo Ior e allontanato Marcinkus, ma la verità sui rapporti tra il prelato e Calvi, e il crack dell’Ambrosiano, non è apertamente emersa. Dal punto di vista religioso, a me pare che, nel caso citato, Wojtyla sia venuto meno, in modo obiettivamente grave, alle virtù della prudenza e della fortezza: la prudenza che avrebbe dovuto imporgli, come capo della Chiesa cattolica romana, di salvaguardare il buon nome di tale Chiesa, e dunque di fare ogni cosa per accertare la verità; la fortezza, che avrebbe dovuto spingerlo ad opporsi alle prevedibili resistenze dell’apparato ecclesiastico della Curia romana restìa a indagare sullo scandalo con trasparenza e spirito evangelico.

LA BEATIFICAZIONE DI PIO IX

Quando, a fine 1999, fu annunciato che, di lì a pochi mesi (sarebbe effettivamente accaduto il 3 settembre del 2000), il papa avrebbe beatificato insieme Pio IX e Giovanni XXIII, da molte parti emersero fortissime perplessità. Non solo per l’“abbinamento” voluto da Wojtyla – dall’evidente significato di accontentare, da una parte, i “tradizionalisti” e, dall’altra, i “progressisti” – ma per un motivo ben preciso, legato alla vicenda di Edgardo Mortara.

Protetto da Pio IX, l’inquisitore di Bologna nel 1858 aveva fatto rapire alla famiglia Mortara – un’illustre famiglia ebraica – il piccolo Edgardo (Gad), battezzato nascostamente da una domestica. Era inevitabile, secondo Pio IX, che esso fosse sottratto con la forza alla famiglia di origine: «I diritti del Padre celeste vengono prima di quelli del padre terreno», sostenne sempre il pontefice per giustificare la sua decisione e procedere ad una educazione cristiana del fanciullo.

In questione non è la coscienza di Pio IX che fece le sue scelte – in un dato contesto storico e culturale – ritenendo di fare il meglio possibile. In questione è il fatto che un “beato”, molti anni o anche secoli dopo la sua morte, e dunque in un altro contesto storico, culturale ed ecclesiale, viene proposto a tutti i fedeli come esempio da imitare. 

Ora, all’alba del Duemila, e quattro decenni dopo il Concilio Vaticano II, all’interno della Chiesa cattolica romana si era enormemente accresciuta la sensibilità (pastorale e teologica) sul tema del rapporto Chiesa/popolo d’Israele. Perciò, elevare agli onori degli altari un papa che aveva fatto rapire un bambino ebreo battezzato era una provocazione. Infatti, la domanda non era, e non è, se Pio IX fosse in buona fede, ma quale significato assumesse nel nostro tempo proclamare beato un papa che agì con sensibilità opposta a quella attuale dei cattolici ed allo spirito del Concilio Vaticano II.

Dopo i gesti coraggiosi (basti citare la sua visita alla grande Sinagoga di Roma, del 1986, e al Muro del pianto di Gerusalemme, nel marzo del 2000) da lui compiuti verso il popolo ebraico, l’annunciata beatificazione di Pio IX appariva contraddittoria ed incomprensibile. Mi domando se, in questo caso, Wojtyla abbia osservato le virtù della prudenza e della temperanza (l’invito ad avere, nell’agire, il senso della misura).


I DIRITTI UMANI VIOLATI

Il pontificato di Giovanni Paolo II è costellato di decisioni sue, o di organi ufficiali della Curia romana (in particolare della Congregazione per la Dottrina della Fede), che in sostanza hanno in vario modo punito la libertà di ricerca teologica: teologi, teologhe, studiosi non “in linea” sono stati allontanati dalle loro cattedre, o impediti di proseguire le loro ricerche. Non voglio qui fare il lungo elenco dei castigati: mi permetto di rinviare alla lista, non esaustiva, compilata dall’agenzia Adista (numero 76 del 2003). Si noterà facilmente che molti dei teologi messi sotto processo o esonerati da importanti incarichi avanzavano delle ipotesi per un’etica sessuale più vicina alla condizione di vita delle persone e particolarmente delle famiglie. Un’etica, vorrei sottolineare, non di svendita del Vangelo, ma aperta ad un confronto positivo con la cultura moderna, e capace di distinguere responsabilmente, per valutare le “normative” sessuali proposte, tra ciò che è perenne volontà di Dio e ciò che è frutto di condizionamenti storici e culturali. In tale direzione, preziosa è stata l’opera di p. Bernhard Häring, un teologo moralista di vasta dottrina, di grande umanità, di cristallina audacia evangelica. Ebbene, sotto il pontificato di Wojtyla, una tale personalità è stata emarginata ed umiliata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.

Nella maggior parte dei casi le procedure adottate da Roma per punire gli indiziati non soddisfano lo standard che nei Paesi occidentali si esige perché un processo sia considerato giusto, e comunque i provvedimenti punitivi non hanno dato all’imputato il modo di difendersi adeguatamente. 

Questa situazione è particolarmente stridente in un papa che è andato pellegrino in tutto il mondo a proclamare le esigenze della giustizia e l’intangibilità dei diritti umani.

Aggiungo che, di norma, Wojtyla non volle mai ricevere pubblicamente in udienza i “dissenzienti” o compiere verso di essi un gesto di amicizia. Un tale atteggiamento era il corollario inevitabile dell’intransigente “difesa della verità”? Non necessariamente; e a smentire Giovanni Paolo II è stato lo stesso suo successore che, pochi mesi dopo la sua elezione, ricevette in udienza Hans Küng.

D’altra parte, la storia della Chiesa e delle Chiese dimostra che condanne affrettate hanno soffocato idee che, con il passare del tempo, si sono invece rivelate più giuste di quelle, un tempo, ufficiali. Anche per questo, mi pare, Wojtyla è stato assai imprudente nel voler troncare molti virgulti. In questo modo è stata repressa la teologia della liberazione, la teologia delle donne e la teologia conciliare.


L’EMERGENZA DELLA QUESTIONE FEMMINILE

Le crescenti e diffuse richieste di piena partecipazione della donna alla vita della Chiesa sono state da Wojtyla soffocate. Senza entrare qui nelle problematiche teologiche dei ministeri femminili o della donna-prete, si deve rilevare che il pontefice ha accuratamente evitato di permettere, in proposito, un ampio dibattito, ad esempio in un Sinodo dei vescovi ad hoc, o ascoltando pubblicamente un’ampia e variegata rappresentanza delle donne.

Pur avendo esaltato più volte il “genio femminile”, ed avendo dedicato alla “dignità della donna” una lettera apostolica (la Mulieris dignitatem), in realtà Wojtyla non ha ascoltato le richieste delle donne; le ha solo interpretate a modo suo per conservare lo status quo dell’istituzione ecclesiastica.

Avendo negato, a livello istituzionale, un reale dibattito sulla “questione donna”, Wojtyla si è assunto la responsabilità di impedire che varie posizioni emergessero, si confrontassero pubblicamente, si arricchissero nel reciproco ascolto e nella comune ricerca della volontà di Dio.


LA VICENDA DI OSCAR ROMERO

È in atto il tentativo – così a me sembra, leggendo i più recenti libri su mons. Oscar Romero scritti da persone “sensibili” ai desiderata della Curia romana – di descrivere come idilliaci i rapporti tra l’arcivescovo di San Salvador e il papa. Credo che tale descrizione non corrisponda alla realtà, e che, al contrario, essa sottenda il forte desiderio di proporre, sulla vicenda, un Wojtyla “comprensivo” che non è esistito.

Varie testimonianze, tutte basate su affermazioni di mons. Romero, concordano nel dire che il papa accolse con freddezza Romero quando (1979) lo ricevette in udienza in Vaticano. In proposito posso portare anche un’esperienza personale.

Nel febbraio 1989 ho incontrato a Managua una ex religiosa – María López Vigil – che lavorava presso il Centro ecumenico Valdivieso. Essa mi confermò di aver incontrato a Madrid mons. Romero di ritorno da Roma (siamo sempre nella primavera del 1979) e di averlo trovato “costernato” per la freddezza con cui il papa, durante l’udienza, aveva valutato l’ampia documentazione, da lui stesso fatta pervenire in Vaticano, circa la violazione dei diritti umani e della vita di quanti si erano opposti, anche fra i suoi diretti collaboratori, all’oppressione esercitata dal governo salvadoregno sulla popolazione. Oscar Romero avrebbe ricevuto dal papa una secca esortazione ad andare “più d’accordo” con il governo. A commento di quell’udienza – mi riferì ancora María López Vigil – Romero disse alla ex religiosa: «Non mi sono mai sentito così solo come a Roma».

Il “clima” di quella famosa udienza non appare nella sua drammaticità dal diario di Romero, che ad essa pure fa cenno. Ma trarre da tale silenzio una prova per smentire la successiva, e ben più realistica, “confessione” dell’arcivescovo mi sembrerebbe un’operazione apologetica per salvare Wojtyla. È evidente, infatti, che nella difficilissima situazione in cui si trovava, Romero “non poteva” condannarsi da solo, dicendo che il papa lo aveva rimproverato di “fare politica”. Tanto meno poteva dirlo dal pulpito della cattedrale del Salvador. E, tuttavia, perché la verità si sapesse, e quasi a futura memoria, agli amici più intimi raccontò quanto anch’io, tra altri, ho appreso poi da fonte diretta.

Al di là della vicenda dell’udienza, è un fatto che Wojtyla non fece gesti pubblici e inequivocabili per mostrare di essere dalla parte di Romero, e di sostenerlo. Ancora: se avesse voluto dire al mondo, con un gesto riconoscibile anche dai più umili, di essere dalla parte dell’arcivescovo, Wojtyla lo avrebbe pur potuto creare cardinale nel suo primo concistoro (giugno 1979).

La verità è che, in oltre 26 anni di pontificato – e, cioè, sia prima che dopo la caduta del muro di Berlino – Wojtyla ha mostrato, mi pare, un’incapacità radicale di cogliere la sensibilità di quei milioni di persone che vedevano in Romero un martire della giustizia, e la fondatezza pastorale ed evangelica di quei cristiani – religiose, preti, vescovi, laici, uomini e donne – che si ispiravano alla Teologia della Liberazione. Una teologia con la quale, agli inizi, lo stesso Romero riteneva di non essere in sintonia, e della quale poi finì per incarnarne in modo esemplare lo spirito.

Nessun vescovo dell’America Latina apertamente schierato con la Teologia della Liberazione è stato creato da Wojtyla cardinale: non che essi cercassero tale onore, ma, nell’attuale sistema ecclesiastico, sarebbe pur stato importante che il papa mostrasse apertamente la sua stima dando all’uno o all’altro la porpora. Non solo: Wojtyla ha portato nella Curia romana prelati latinoamericani apertamente ostili a Romero, accaniti avversari della Teologia della Liberazione e anche, talora, non troppo coperti amici di dittatori.

Se, in tutte queste vicende, Wojtyla si sia segnalato per la virtù della prudenza è tema che ritengo meriti approfondita riflessione. Molti dubbi, comunque, sono leciti. In particolare, non vi sono segni che egli si sia chinato per cercare di capire una “pastorale” e una “teologia” diverse dalle sue.


IL CONCUBINATO DEL CLERO

Non intendo esaminare qui tutta l’ampia problematica del celibato sacerdotale, cioè l’insieme delle ragioni storiche, bibliche, ecclesiali che oggi ne consigliano, o meno, il mantenimento nella Chiesa cattolica di rito latino. Voglio solo affrontare uno spicchio di tale realtà: il concubinato del clero. Con ciò non intendo affatto dire che tutto il clero sia oggi concubinario: assolutamente no! Tutti conosciamo preti lieti e fedeli al loro celibato e carichi di umanità. Ma certo, per una parte, sia pure limitata, del clero, il problema esiste.

Ricordo un episodio: quando, come “padre” conciliare, ero al Vaticano II, avevo come vicino di banco un vescovo dell’America Latina. Questi rimase molto male quando Paolo VI avocò a sé la questione della legge del celibato nella Chiesa latina, impedendo dunque al Concilio di discuterne liberamente. In tale situazione mi disse: «Caro padre abate, e adesso come faccio, dato che nella mia diocesi tutti i preti sono concubinari? Ero venuto in Concilio proprio per favorire l’abolizione della legge del celibato!».

Già incombente ai tempi di Paolo VI, la questione del celibato si è fatta ancor più grave sotto Giovanni Paolo II. A questo papa imputo come scelta assai temeraria quella di avere impedito, in proposito, un reale dibattito ai vari livelli della Chiesa.

Wojtyla ha talmente insistito sulla “saldatura” tra ministero presbiterale e celibato da occultare l’esperienza dei sacerdoti delle Chiese cattoliche orientali, spesso sposati. Ma, soprattutto, la sua esasperata difesa della legge in atto ha dimenticato un particolare decisivo, che un pastore saggio in alcun modo potrebbe ignorare: il problema dei figli dei preti e delle donne dei preti.

Obbligando i preti latini che, in relazioni clandestine, avessero avuto dei figli ad assumersi apertamente le loro responsabilità, e dunque a sposarsi per essere – coram populo – padri amorosi dei loro figli e sposi affettuosi di donne non più tenute nascoste, si compirebbe un gesto di giustizia. Ribadendo invece astrattamente la legge del celibato, di fatto si esimono questi presbiteri dall’assumersi le loro responsabilità e si permette loro di continuare a trattare le madri dei loro figli come persone senza diritti.

Sono migliaia e migliaia, nel mondo – dalla Germania al Brasile al Congo – i figli dei preti che non hanno diritto di avere una normale famiglia, essendo il loro padre “inesistente”. Una tale situazione lede molti diritti umani, e stringe il cuore. È impressionante che Wojtyla non abbia mai voluto affrontare pubblicamente questo “tabù”, preferendo le certezze dell’istituzione alle dolorose conseguenze derivanti dall’addentrarsi con realismo nelle problematiche concrete della vita, spesso assai complicate.

Tema differente, ma sempre legato al clero, è quello delle violenze sessuali di preti contro minori. La sgradevole impressione che si ha, in proposito, è che Wojtyla abbia affrontato questa piaga tremenda solo quando essa esplose negli Stati Uniti d’America, sul finire degli anni Novanta. 


LE DIMISSIONI DAL PONTIFICATO

Una delle conseguenze più corpose, perché più incidenti nella realtà, del Vaticano II è stata la norma, infine stabilita dal nuovo Codice di Diritto Canonico, che sollecita i vescovi che compiono 75 anni a presentare le loro dimissioni al papa, che valuterà caso per caso. 

Non so se si sia riflettuto sino in fondo sulla “teologia” che sottostà a tale norma: una volta, infatti, si diceva che il vescovo è lo “sposo” della sua Chiesa, cioè della sua diocesi, e perciò l’ama fino alla fine, cioè – in linea di principio – ne resta titolare fino alla morte. Perché mai, infatti, uno sposo non sarebbe più tale quando è avanti con gli anni?

Ad ogni modo, ammesso il principio non solo della legittimità, ma anche dell’opportunità delle dimissioni dei vescovi diocesani a 75 anni, non si comprende perché a tale normativa si sottragga il vescovo di Roma. Anche se non giuridicamente, ma di sicuro moralmente, egli dovrebbe essere il primo ad applicare una tale legge. Perché è il re il primo servo delle leggi di tutti.

Invece, quando Wojtyla compì i 75 anni, e ancor più quando, più tardi, andò aggravandosi in modo irreversibile la sua malattia, impedendogli un reale controllo della Curia romana, a chi direttamente o indirettamente gli suggeriva di rassegnare le dimissioni, egli rispondeva che «Cristo non si dimise dalla croce».

Vi è una contraddizione teologica grande nel ragionamento di Wojtyla: perché mai sarebbe normale che, a 75 anni, un vescovo (che magari sta ancora bene in salute) si dimetta dalla sua diocesi, e sarebbe inaudito invece che nella stessa situazione si dimettesse il vescovo di Roma?

A me pare che da tale ragionamento emerga un substrato che considera il papa un “super vescovo”, ma questo è del tutto contrario alla Lumen gentium. La mistica della sofferenza connessa con il papa che, in quanto tale, “non può” dimettersi senza tradire il Cristo sofferente confligge con la decisione giuridica e pastorale adombrata dal Vaticano II che chiede al vescovo “normale” di scendere dalla croce e lasciare in altre mani la diocesi.

Se la “resistenza” di Wojtyla fino alla fine è, per alcuni, un segno di particolare fedeltà al proprio dovere, a me suscita invece molte perplessità, e mi induce appunto a domandarmi dove, in tale dolorosa vicenda, lui abbia dimostrato in modo forte le virtù dell’umiltà e della prudenza.


L’UOMO WOJTYLA, PAPA WOJTYLA

Ho limitato le mie riflessioni all’operato di Karol Wojtyla dal 16 ottobre 1978 al 2 aprile 2005, e cioè al suo operato come pontefice. Nulla io so, direttamente, della sua vita precedente in Polonia, e su di essa nessun giudizio posso esprimere.

In rapporto alla beatificazione, credo che non si possa evitare questa domanda: è possibile, in un papa, distinguere la persona dal suo ruolo, le virtù private dalle decisioni pubbliche?

Su questa terra nessuno può giudicare la coscienza dell’altro; solo il Signore può farlo. Tuttavia, in questo processo canonico, è necessario domandarsi se la vita di Giovanni Paolo II – così come valutabile dall’esterno – sia stata una trasparente testimonianza di quello spirito evangelico e di quelle virtù teologali e cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) che debbono rifulgere in grado altissimo in un “candidato” alla gloria del Bernini.

Esaminando i pochi fatti sopra elencati, appare evidente come sia difficile, per non dire impossibile, distinguere tra le scelte dell’uomo Wojtyla e di Wojtyla papa. Ora, è vero che, qualora lo si proclamasse “beato”, si preciserebbe che ciò avverrebbe per aver accertato che egli visse le virtù in modo eroico, ma non si intenderebbe con questo “santificare” tutte le sue scelte come pontefice. In teoria, la distinzione corre; ed infatti – per rispondere in qualche modo alle critiche per la sua incredibile decisione – la propose lo stesso Wojtyla nel discorso in cui spiegò perché beatificava papa Mastai Ferretti. Nei fatti, però, essa è zoppa, come dimostrarono appunto le reazioni alla vicenda di Pio IX.

Perciò ritengo che nella beatificazione di un papa debba essere attentamente considerato il peso delle conseguenze – nella società civile e/o nella Chiesa cattolica romana – delle sue azioni od omissioni, quale che fosse la sua motivazione personale soggettiva per attuarle o per evitarle; e, in particolare, non dovrebbero essere ignorate, quasi non fossero anch’esse parte in causa, le sofferenze causate a molte persone da decisioni imprudenti o autoritarie, sia pure soggettivamente addotte in buona fede.

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