AUMENTA L’EXPORT DI ARMI ITALIANE: ISRAELE PRINCIPALE CLIENTE
Tratto da: Adista Notizie n° 28 del 27/07/2013
37254. ROMA-ADISTA. Aumenta l’export di armi italiane nel mondo, e Israele diventa il primo acquirente di armamenti made in Italy. È quanto si ricava dalla “Relazione annuale della Presidenza del Consiglio sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo delle esportazioni, importazioni e transito dei materiali di armamento” trasmessa dal presidente Enrico Letta al Parlamento lo scorso 16 giugno (e non ancora resa nota), con quasi tre mesi di ritardo rispetto a quanto previsto dalla legge 185/90 che fissa come termine il 31 marzo di ciascun anno.
Export in crescita
Nel corso del 2012 le autorizzazioni all’esportazione di armamenti rilasciate dal governo dei tecnici di Mario Monti hanno toccato la cifra di 2.725.556.508 euro (leggermente inferiore a quella dello scorso anno, ma siccome nelle confuse tabelle ministeriali alcuni importi sono stati inseriti in altri capitoli di spesa – in particolare quelli relativi all’Arabia Saudita conteggiati fra i “programmi intergovernativi” – la cifra va aumentata di circa 200 milioni, così da farle superare, seppure di poco, quella del 2011). E, soprattutto sono cresciute le effettive consegne di sistemi militari che nel 2012 hanno sfiorato anch’esse i 3 miliardi di euro (2.979.152.817 euro). Mentre gli introiti relativi ai programmi intergovernativi di riarmo ammontano a 1.238.843.207 euro. Nemmeno il governo Berlusconi era riuscito a fare così “bene”.
Affari d’oro con Israele
Israele è stato il miglior cliente dell’industria armiera italiana nel 2012, con acquisti per 472.910.250 euro; seguito a breve distanza dagli Stati Uniti, che hanno speso 419.158.202 euro. Più distanziati gli altri Paesi: Algeria (262.857.947 euro), Arabia Saudita (244.925.280 euro), Turkmenistan (215.821.893 euro), Emirati Arabi Uniti (149.490.989 euro), Belgio (123.658.464 euro), India (108.789.957 euro), Ciad (87.937.870 euro) e Regno Unito (dalla tabella riassuntiva presentata nella Relazione sembrerebbe che il principale acquirente sia la Gran Bretagna ma, in realtà, si è trattato di una interpretazione dei tecnici del ministero degli Esteri che hanno messo insieme sia le esportazioni reali autorizzate – 74 milioni di euro – sia la partecipazione ai programmi intergovernativi, così da far balzare il Regno Unito al primo posto). Seguono, in ordine sparso, la Turchia (43 milioni), il Pakistan (24 milioni), la Libia (20 milioni), l’Afghanistan (8 milioni).
“Clienti serpenti”
«Come si può notare, tra i primi dieci destinatari delle autorizzazioni all’esportazione solo tre (Usa, Belgio e Gran Bretagna) fanno parte delle tradizionali alleanze dell’Italia (Nato e Ue) mentre per la maggior parte si tratta di Paesi extra europei, di nazioni in guerra, rette da regimi dispotici o autoritari e da governi responsabili di reiterate violazioni dei diritti umani», rileva Giorgio Beretta, della Rete italiana per il disarmo, il quale in un dettagliato articolo pubblicato sul portale Unimondo ha realizzato un’analisi puntuale della Relazione che, nel momento in cui viene chiuso questo numero, non è ancora stata resa pubblica da Palazzo Chigi (ma Adista l’ha potuta comunque visionare). E infatti Israele risulta essere il principale acquirente di armamenti made in Italy: una novità assoluta nell’ultimo ventennio, da quando è entrata in vigore la legge 185/90 che regola l’export di armi italiane, che prefigura, nota Beretta, «rilevanti implicazioni sulla politica mediorientale del nostro Paese». Ma c’è anche l’Algeria (che, fra l’altro, risulta aver acquistato 14 elicotteri Agusta Westland AW139) e l’Arabia Saudita (2mila bombe, 100mila granate e un po’ di cacciabombardieri Eurofighter, catalogati appunto fra i “programmi intergovernativi”). Mentre non è dato sapere cosa l’Italia abbia venduto al Turkmenistan – definito dagli Usa uno «Stato autoritario», basta chiedere a Jennifer Lopez, pesantemente criticata per aver cantato alla festa di compleanno del presidente turkmeno Gurbanguly Berdymukhamedov, ricorda Beretta – dal momento che la tabella non è stata allegata alla Relazione.Le principali aziende esportatrici fanno quasi tutte riferimento alla galassia Finmeccanica: ai primi due posti ci sono Alenia Aermacchi (che ha incassato oltre 1 miliardo di euro) e Agusta Westland (490 milioni).
Banche (un po’ meno) armate
Fra le cosiddette “banche armate”, cioè quegli istituti di credito che svolgono un importante ruolo di intermediazione fra aziende armiere e Paesi acquirenti dal quale incassano notevoli compensi di intermediazioni, si trovano invece delle conferme ma anche delle novità. Scompare quasi del tutto, per citare solo un esempio, il gruppo Ubi, nel 2009 al vertice della classifica (v. Adista n. 41/10), nel 2010 e nel 2011 in forte calo (v. Adista n. 41/11) e ora praticamente assente, se si eccettuano i residui movimenti ancora effettuati dalle sue controllate Banco di Brescia (2 milioni) e Banco di San Giorgio (3 milioni): un successo anche della campagna “banche armate” – animata dalle riviste Nigrizia, Missione Oggi, Mosaico di pace e da Unimondo – che ha messo “sotto pressione” il gruppo Ubi.Per quanto riguarda le esportazioni, gli istituti che hanno movimentato il maggior numero di soldi per conto delle industrie italiane sono due banche estere: Bnp Paribas con quasi 942 milioni di euro – a cui però vanno aggiunti anche i 108 milioni di Banca Nazionale del Lavoro, facente parte dello stesso gruppo – e Deutsche Bank (poco meno di 743 milioni di euro), una delle banche con cui il Vaticano è in più stretti rapporti.
Segnale evidente che, perlomeno sugli istituti di credito italiani, la campagna di pressione alle banche armate, con le sue richieste di adottare specifiche direttive in materia di servizi all’industria militare e all’esportazione di armamenti e di limitare la partecipazione al finanziamento e all’offerta di servizi all’industria militare, sta ottenendo buoni risultati. Al terzo posto la prima banca italiana, Unicredit, che secondo la tabella allegata alla Relazione governativa ha un importo di quasi 541 milioni di euro, più del triplo rispetto allo scorso anno (quasi 180 milioni). Si tratta però di una cifra che Unicredit non conferma, dal momento che i dati interni in possesso del gruppo rilevano in realtà un importo simile a quello del 2011, per cui potrebbero essere stati impiegati diversi metodi di calcolo; in ogni caso, fanno sapere da Unicredit, quando la Relazione sarà pubblica verranno fatte le opportune verifiche e i dati saranno pubblicati anche sul sito dell’istituto di credito. Rispetto alle attività del gruppo nell’ambito della difesa, «Unicredit riconosce le preoccupazioni di azionisti, clienti ed organizzazioni non governative relativamente al finanziamento di un settore i cui profitti dipendono dalla presenza di conflitti armati e situazioni di instabilità. Comprendiamo tali preoccupazioni verso la produzione nonché l’uso di armi non convenzionali e controverse in varie parti del mondo, ed è per questo che abbiamo assunto una posizione intransigente per il finanziamento di tali attività.
Al contempo tuttavia siamo altrettanto consapevoli che alcuni tipi di armi sono necessarie al perseguimento di obiettivi legittimi, accettati dalla comunità internazionale, quali le missioni di pace e la difesa nazionale».Al quarto posto, piuttosto distanziata, Barclays Bank, con 232 milioni. Insieme, queste quattro banche, gestiscono oltre l’80% dell’intero volume di movimenti di esportazione. Per trovare un’altra “banca armata” italiana bisogna arrivare al quarto posto, dove c’è la Cassa di Risparmio di La Spezia, con 68 milioni. Poi, superata da Commerzbank (32 milioni) e Société Générale (17 milioni), il Banco di Sardegna, con quasi 15 milioni. Quindi due banche estere – Europe Arab Bank (13 milioni) e Banco di Bilbao (11 milioni) – e poi di nuovo alcune italiane: Banca Valsabbina (11 milioni), Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio (quasi 7 milioni) e Banca Carige (5 milioni).Il discorso cambia un po’ se si vanno da analizzare i «programmi intergovernativi», ovvero i progetti internazionali di riarmo. Unicredit è saldamente al primo posto, con 738 milioni di euro (nel 2011 la cifra era superiore agli 870 milioni); seguita da Deutsche Bank (poco meno di 316) e da Intesa San Paolo (126 milioni), che però, come si è visto, è uscita del tutto dalle operazioni di esportazione grazie all’adozione di nuove e più stringenti direttive. (luca kocci)
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