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CONCILIO DOPO CONCILIO, IN VIAGGIO VERSO IL VATICANO III. UN LIBRO DI LUIGI SANDRI

Tratto da: Adista Notizie n° 36 del 19/10/2013

37337. ROMA-ADISTA. Di storie dei e sui Concili ce ne sono molte: alcune poderose, di migliaia di pagine, che tutti, in teoria, potrebbero leggere, ma che di fatto sono pascolo solo per specialisti; altre, assai più brevi, ma spesso pensate per chi abbia comunque una conoscenza abbastanza approfondita delle questioni di Chiesa; o, al rovescio, troppo semplificate. In tale contesto, Dal Gerusalemme I al Vaticano III. I Concili nella storia tra Vangelo e potere (Il Margine, Trento 2013, pagine 1.080, euro 30), di Luigi Sandri, si presenta in una sua inconfondibile originalità, perché l’opera, che racconta duemila anni di storia e, oltre al Vaticano II, analizza anche i successivi cinquant’anni e documenta le richieste di un nuovo Concilio, è pensata da un giornalista per la gente non necessariamente avvezza all’argomento. E apre alcune pagine di cui l’apologetica ecclesiastica non rende conto. Per saperne di più, abbiamo intervistato l’autore. (e. c.)

Perché ti sei deciso a scrivere un’opera così impegnativa?

Sono partito da un presupposto: non si può capire l’Occidente senza conoscere, almeno a grandi linee, nel bene e nel male, la storia delle Chiese; ma tutti sappiamo come, tanto nei cristiani (cattolici, in prticolare) che in altri credenti, e in agnostici o in “atei devoti”, vi sia, salvo eccezioni, una nescienza impressionante. Volendo contribuire, per quanto possibile, a migliorare questa situazione, ho pensato di scrivere una storia dei Concilii: la quale, naturalmente, non esaurisce la vicenda della Chiesa e delle Chiese, ma offre parametri decisivi per inquadrarla, e dunque per illuminare la vicenda complessa del Cristianesimo.

Parto dal Concilio archetipo di Gerusalemme, come molti oggi denominano la riunione “degli apostoli e degli anziani” convocata nella Città santa in un anno tra il 48 e il 51 dell’era volgare. Arrivo quindi, con Costantino, al primo Concilio “ecumenico”, convocato dall’imperatore e non dal papa, quello di Nicea del 325. In quel contesto affronto la questione del cosiddetto Editto di Milano e quindi del “costantinismo”, sottolineando aspetti inquietanti sottaciuti dall’apologetica corrente. Seguono poi tutti gli altri Concilii ecumenici celebrati in Oriente e, quindi, i Concilii celebrati nel secondo millennio in Occidente, iniziando dai Lateranensi e gli altri medievali, per arrivare al Tridentino, al Vaticano I e al II. Una cavalcata di duemila anni, attraverso ventuno Concilii “ecumenici” e/o “generali”.


E che cosa hai scoperto in questo viaggio?

Un sacco di cose! In sintesi, direi così: i Concilii non avvengono in una bolla, o sotto vuoto, estraniati dal loro tempo: la situazione sociale, culturale e geopolitica ha influito moltissimo sulle deliberazioni delle singole Assemblee. Un altro decisivo aspetto da sottolineare è che i primi sette Concilii – da Nicea I del 325 a Nicea II del 787 – e tutti svoltisi in Oriente, sono considerati “ecumenici” sia dagli ortodossi che dai latini; invece, quelli celebrati nel secondo millennio in Occidente, ritenuti infine “ecumenici” da Roma, per gli orientali sono solamente Concili “generali” della Chiesa latina. Ma, e così veniamo all’attualità, Benedetto XVI, i teologi e gli storici a lui vicini hanno contrastato con veemenza questa distinzione, per cui la tesi di chi, come Giuseppe Alberigo, riteneva “generali” i Concilii occidentali, e dunque anche il Vaticano II, è stata bollata a fuoco dall’inner circle ratzingeriano.

Ho poi “scoperto” (l’ho capito meglio) la pregnanza dell’“odio teologico” contro i musulmani disseminato per mezzo millennio dai cinque Concilii lateranensi, dai due di Lione, e da quello di Vienne. Ovviamente, bisogna collocare quelle vicende, e in esse le crociate, nel loro contesto storico, senza giudicarle con il senno di poi e con i  paradigmi culturali di oggi. È, tuttavia, un fatto che anche “allora” vi erano anime grandi che proponevano soluzioni pacifiche, respinte dal “potere sacro”: si pensi che il Concilio Lionese I (1245) condanna l’imperatore Federico II perché “dialogava” con i musulmani! 


Perché dedichi pagine scarne ad alcuni Concili medievali e centinaia invece al Vaticano II?

Mi è sembrato che, per il sentire attuale, le problematiche dei primi tre Concili lateranensi (1123, 1139, 1179) si potessero riassumere in poche pagine. Invece dedico più spazio al Lateranense IV (1215), soprattutto per come affronta il problema della violenza: concede l’indulgenza plenaria a chi “stermina gli eretici”! Nel contempo metto in evidenza il messaggio profetico di Francesco d’Assisi. Cerco, insomma, di rendere la complessità di quel periodo. Molto, poi, mi dilungo sull’Assemblea di Costanza, che nel 1415 definì il Concilio «superiore al papa»; sul Fiorentino, che nel 1439 riuscì a fare la pacificazione con gli ortodossi, fallita quasi subito; e, soprattutto, sul Tridentino, e dunque su Riforma e Controriforma, riportando le ragioni di Lutero e di Calvino e quelle dei papi del tempo. Spero di aver mostrato squarci di futuro, insieme a tremende contraddizioni. Per il Vaticano I adduco le argomentazioni dei favorevoli e dei contrari alla definizione del dogma dell’infallibilità pontificia, raccontando episodi che evidenziano la mentalità reazionaria di Pio IX.

Al Vaticano II dedico trecento pagine, un libro nel libro. Era necessario farlo, per raccontare quell’evento decisivo in modo adeguato. Perciò non mi limito ad affermare: “La Lumen gentium, la costituzione sulla Chiesa, proclama…”, ma ricostruisco il dibattito, citando decine di interventi dei “padri”, pro o contro una determinata tesi – ed esempio la collegialità episcopale – in modo che chi legge entri con me, per così dire, nell’aula conciliare, assista a confronti teologicamente drammatici e, infine, veda l’approdo finale dello schema, con luci e ombre. Evidenzio le consonanze, e le molte differenze, tra Giovanni XXIII e Paolo VI, e non taccio le scelte con le quali Montini autoritariamente impedì in Concilio un libero dibattito sui metodi contraccettivi e sul celibato del clero latino.


Ma tu prosegui oltre nella tua carrellata, e prospetti addirittura un Concilio Vaticano III…

A me è sembrato di non poter chiudere la mia piccola “rassegna” nel 1965, al termine del Vaticano II; ho ritenuto utile esaminare anche il post-Concilio. E così dedico un altro… libro nel libro agli ultimi cinquant’anni, analizzando come si siano mossi Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI su temi quali: la concreta attuazione della Chiesa come “popolo di Dio”, la collegialità, la libertà religiosa, l’ecumenismo, il dialogo con l’ebraismo e con l’islam, la riforma della Curia, i presbìteri, la sessualità, la pace. Sottolineo quelli che a me sembrano aspetti luminosi del pontificato di Wojtyla, come il suo impegno per la pace; ma, anche, il suo rifiuto, e quello di Ratzinger, con l’appoggio, in Italia, del cardinale Camillo Ruini, di attuare il Concilio in quegli aspetti che avrebbero portato ad una riforma della Chiesa. In particolare segnalo la tenace politica repressiva di quei due pontefici contro quante e quanti in America Latina sostenessero la teologia della liberazione; e contro le teologhe e i teologi “liberal” ovunque fossero. Dedico un capitolo a parte poi alla questione-donna, al perdurante maschilismo dei vertici della Chiesa cattolica e al sistematico sbarramento posto da Roma nel post-Concilio ad un libero dibattito sulla questione dei ministeri femminili.

Questa “cronaca” sfocia nella richiesta di un Vaticano III: ipotesi che vede spezzato il fronte “progressista”. Infatti, non solo i cattolici “conservatori” – questo è scontato – ma anche diversi “progressisti” sono contrari all’ipotesi di un nuovo Concilio, ritenendo, uno, che questa scelta danneggerebbe irreparabilmente il Vaticano II e, due, che nemmeno temi nuovissimi (in quanto cinquant’anni fa inesistenti nella realtà sociale o nella coscienza della Chiesa romana: come i problemi etici legati al fine-vita o l’ordinazione della donna) postulino un Vaticano III. Riporto le loro motivazioni, anche se mi sembrano contraddittorie. E, poi, elenco le ragioni, condividendole, di quei “progressisti” che sentono acutamente l’“urgenza” ecclesiale, a breve termine, di questa Assemblea, che sarebbe un “Vaticano III” se svolto in san Pietro, oppure – e meglio – un Manila I, Puebla I, Nairobi I, se celebrato nelle Filippine, in Messico o in Kenya. Un Concilio che sarebbe “nuovo” anche nella sua composizione: la partecipazione, accanto ai vescovi, di una robusta rappresentanza di presbìteri, di monaci e monache, di suore, di coniugi, di laici uomini e donne.

Documento come l’ipotesi di un Vaticano III non sia un’idea peregrina appena nata, o coltivata da sprovveduti. Forse i “progressisti” anti-nuovo Concilio ignorano il fiume carsico che da cinquant’anni culla questo sogno. E che dom Helder Camara – allora arcivescovo di Olinda e Recife che negli anni Sessanta/Settanta ha rappresentato una voce autorevolissima delle Chiese del sud del mondo – pur stando al Vaticano II, già auspicava a distanza ravvicinata un III della serie, per affrontare tematiche che egli vedeva incombenti ma tuttavia, allora, estranee ai pensieri dei “padri”. E quale era, per lui, uno dei temi del futuro Concilio? L’ordinazione della donna!


Ma che rapporto avrebbe, questo Vaticano III, con  l’ecumenismo? E, per venire all’oggi, con  papa Francesco?

Il “Vaticano III” sarebbe un Concilio “generale” della Chiesa cattolica romana: un luogo e tempo in cui fa ordine in se stessa, risolve alcuni annosi suoi problemi interni per partecipare, dopo (dopo!), ad un «Concilio autenticamente universale» di tutte le Chiese, così come auspicato da Konrad Raiser. Spiego poi, a proposito, quello che si pensa nell’Ortodossia e nelle Chiese legate alla Riforma.

Ma torniamo al Vaticano III. Nel gennaio 2013 il mio libro era ormai praticamente ultimato, quando in febbraio Benedetto XVI ha annunciato la sua clamorosa rinuncia. Alt: insieme all’editore, abbiamo fermato tutto, in attesa del Conclave e del nuovo papa. Ho quindi aggiunto un capitolo dedicato a queste vicende, dando conto poi delle prime scelte del neo-eletto Jorge Mario Bergoglio, soprattutto in fatto di povertà. Ho concluso il mio lavoro a fine aprile, ad Avignone: chi non immagina il perché, lo scoprirà leggendo il libro. Da subito ho pensato che le prospettive di rinnovamento evangelico, e anche di riforma dell’esercizio del ministero petrino, che Francesco, il nuovo vescovo di Roma, lascia intuire, non avrebbero potuto da sole, senza un Concilio, sciogliere il permafrost di settori-chiave dell’establishment ecclesiastico; un’ipotesi che mi si è rafforzata nei mesi successivi, e che considero conditio sine qua non per rendere irreversibile la scelta “francescana”. 


Con una visione d’insieme, si può dire che i cambiamenti, nella Chiesa romana, siano avvenuti ad opera dei Concilii. O invece essi sono partiti da movimenti dal basso?

Talora i Concilii hanno deliberato ritenendo – essi – che una certa normativa fosse la più opportuna, al loro tempo, per rafforzare la fede e la pratica cristiana. Ma, spesso, seppure senza dirlo, hanno infine reso “ufficiali” prassi che venivano dal basso, e che dapprima le gerarchie ecclesiastiche avevano fieramente avversato. Faccio un esempio: nei primi secoli la confessione sacramentale era ammessa “una sola volta” nella vita, e sarebbe stato considerato ereticale chi avesse ipotizzato che essa si potesse reiterare. Ma quando – VI e VII secolo – su iniziativa anche di papa Gregorio Magno si avviò alla grande l’evangelizzazione dell’Irlanda, il clero si rese conto che, dati i costumi “barbarici” di quelle genti, la confessione “unica” era del tutto insufficiente. E così nell’isola i missionari invitarono la gente a confessarsi spesso. Quando Roma seppe di questa prassi inaudita, sulle prime si oppose; ma, poi, ritenne che essa fosse opportuna; e la fece sua. E quello che un tempo era proibito divenne raccomandato: il Concilio Lateranense IV nel 1215 stabilì che tutti dovessero confessarsi “almeno una volta all’anno, a Pasqua”.

Venendo ai tempi più vicini a noi, importanti scelte del Vaticano II – il rinnovamento liturgico e quello biblico, ad esempio – non sono state “inventate” dai vescovi; al contrario, essi hanno assunto, e quindi ufficializzato, sensibilità ed esperienze pastorali che, nel primo Novecento, erano ormai assai radicate in varie oasi del “popolo di Dio”, anche se spesso mal sopportate dalla Curia romana. Ma, infine, la indubitabile fondatezza teologica e la ricchezza pastorale di quelle scelte si imposero.

Aggiungo che input decisivi su temi dirimenti – come la libertà religiosa – non sono nati all’interno della Chiesa cattolica, ma sono venuti soprattutto dall’esterno, dalla Modernità e dall’Illuminismo. E mentre il Vaticano I nel 1870 respinse questo “dono”, il II ha saputo, grazie a Dio, accoglierlo. 


Per concludere: ma ti sembra “popolare” un libro di 1.080 pagine?

Bella obiezione! Mi sono trovato tra Scilla e Cariddi: o sintetizzare troppo (ma allora bastava rinviare a Internet!) o essere molto elaborato e difficile (ma allora… addio popolo). Infine, da giornalista curioso di storia, ho cercato accuratamente di verificare i fatti che, talora, sembrano trame da film, per raccontarli all’“uomo della strada”. Per documentarmi, mi sono mosso tra opere scientifiche, migliaia di pagine di libri di teologia e di storia, e… agenzie di attualità religiosa come Adista! L’ampiezza del mio volume è dovuta soprattutto alle citazioni dei testi essenziali dei Concilii; ma, la suddivisione in 43 capitoli e, al loro interno, in titoletti, rende scorrevole, mi pare, la lettura. Vari indici – dei nomi, dei luoghi, dei temi – facilitano la consultazione; inoltre, un’ampia bibliografia e molte note segnalano opere e fonti, di vario orientamento, per approfondire singoli argomenti.

Scritto prima degli ultimi singolarissimi eventi accaduti attorno alla cattedra di Pietro, il libro si trova ad uscire nel contesto ecclesiale da quelli innescato e, chissà, potrebbe anche servire ad inquadrare storicamente e teologicamente continuità/discontinuità nel ministero del nuovo vescovo di Roma, Francesco, con le sue folgoranti intuizioni, le sue scelte a volte clamorose, e le sue emergenti contraddizioni. Sarò riuscito nell’impresa? Non sta a me dirlo. Comunque, se facessi perdere tempo alla gente con un testo mal riuscito, vi assicuro che non ho fatto apposta. E, in caso, accetto un’ammenda: concilio!

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