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Inadeguatezze e ambiguità del Questionario

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 46 del 28/12/2013

Chiccodisenape, un progetto ecclesiale nato nel 2007, ha apprezzato la decisione di procedere a un confronto aperto su questo tema cruciale per i credenti, perché ascoltare tutti è una qualità di Chiesa sinodale, indipendentemente dai risultati. Segnala, tuttavia, che il questionario dà l’idea di essere rivolto ai soli credenti praticanti, privandosi dei punti di vista di coloro che vivono esperienze più variegate. Chiccodisenape ha deciso di rispondere solamente alle domande che sono state oggetto della discussione all’interno della propria assemblea, inviando una prima sintesi – di cui si parla in questo articolo – alla Diocesi di Torino e preparando una riflessione più ampia da spedire alla segreteria del Sinodo.


Una antropologia inadeguata

Cominciamo dalla fine. Alla domanda se ci sono altre sfide e proposte urgenti riguardo ai temi trattati nel questionario (domanda 38), rispondiamo che l’antropologia sottesa alla formulazione delle domande sembra ancorata a modelli passati e inadatta a cogliere le istanze cruciali della contemporaneità. Sentiamo mancante una riflessione sulle donne di oggi in grado di accogliere i frutti dell’emancipazione del ‘900, che pure era stata salutata come uno dei segni dei tempi da Giovanni XXIII nella Pacem in terris.

Non solo la Chiesa non si è ancora fatta carico di una riflessione approfondita che sappia cogliere le istanze femminili di una partecipazione alla vita ecclesiale significativa senza ridurle a «forme di femminismo ostile», ma ancor più non ha portato un cambiamento di mentalità rispetto al ruolo delle donne nei confronti della famiglia, continuando a sostenere un immaginario tradizionale sempre più lontano dalla realtà. Allo stesso tempo, non è presente una riflessione sugli uomini contemporanei in grado di farsi carico del cambiamento nella società contemporanea dei ruoli di riferimento tradizionale.

Infine, in nessun punto del questionario ci si sofferma sul tema dell’affettività come esperienza dell’amore. In questo modo si perdono aspetti cruciali come la spiritualità vissuta dalla coppia; le dimensioni di ordine teologico, psicologico, antropologico che intervengono nella costruzione della famiglia; la donazione reciproca e la fedeltà come cardini del matrimonio. Appare, inoltre, una percezione della sessualità vincolata alle sole necessità procreative, senza cogliere, su questo argomento, la riflessione scientifica e quanto le coppie cristiane testimoniano (anche nelle varie forme associate). Per quanto giustificabile da una certa angolazione pastorale, non possiamo non osservare che l’approccio proposto fa emergere una maggiore attenzione alla regolazione dottrinale e canonica piuttosto che al vissuto umano e cristiano, autentico e travagliato delle persone che formano le famiglie.

Legge naturale, concetto ambiguo

Il tema della “legge naturale” in relazione al matrimonio (domande 5-7) è cruciale. L’idea di legge naturale può aver avuto un grande significato come istanza critica del diritto positivo e di salvaguardia di ciò che è indisponibile. Tuttavia è necessario che si chiarisca che cosa si intende per “legge naturale”: o la si intende in termini scientifici e allora serve una dimostrazione empirica (e quindi difficilmente il matrimonio potrebbe rientrarvi), o si deve pensare che si vuole parlare dell’originario disegno di Dio sull’uomo e sulla famiglia (e sappiamo che si tratta di un argomento largamente discusso a partire dai testi biblici di riferimento).

Se la Chiesa può individuare in un modello di matrimonio la forma più adeguata e conforme al disegno originario, questo non la autorizza a presentarlo come naturale, soprattutto per le ambiguità filosofiche e teologiche a cui questo concetto si presta. Ne consegue che non è del tutto appropriato vedere nella legge naturale il principio di regolazione del matrimonio, che è piuttosto un fatto culturale che si evolve nel corso nella storia. Si rischierebbe, inoltre, di dare più valore a un istituto che alla persona.


Uscire dalla dicotomia «sacramenti o niente»

Un secondo blocco di domande (15-17) riguarda le situazioni matrimoniali difficili come la convivenza ad experimentum, le unioni libere di fatto, i separati e i divorziati risposati. La sensazione è che queste situazioni e condizioni siano molto diffuse, ma è difficile poter ricavare dati statistici significativi partendo dalle esperienze dei singoli. Si tratta di individuare o, ancor più, favorire ricerche statistiche scientifiche che possano permettere di conoscere la situazione.

È evidente la tendenza di ampia parte delle nuove generazioni a non dare valore alle forme istituzionali, sia religiose che civili. Si attribuisce questo stato di cose alla condizione di precarietà in cui vivono e che rende difficile fare progetti a lungo termine (e tanto meno per l’intera vita), alla fragilità dei rapporti interpersonali, a una cultura che rifiuta scelte definitive, ma anche al debole richiamo che l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha ormai verso gran parte delle persone. Eppure non siamo sicuri che queste altre forme di unione, anche quando non sono consolidate da una promessa di fedeltà così radicale, ma in cui comunque si sperimenta in modo autentico l’amore, non possano avere la possibilità di una qualche accoglienza nella Chiesa.

Il matrimonio cristiano, oggi inizio di una vita comune di coppia, potrebbe essere pensato come approdo responsabile e cosciente di cammini diversi (perché diverse sono le persone, la loro formazione, la loro storia, i contesti sociali), anche con una prassi pastorale in grado di uscire dalla dicotomia “o sacramenti o niente”. Infine, pensiamo che possa essere molto importante allearsi con il mondo civile per riconoscere il valore del matrimonio tout court, vedendo nel matrimonio civile un passo importante e magari preparatorio per il matrimonio religioso. La Chiesa dovrebbe comunque interessarsi alle persone che hanno percorsi diversi da quelli regolari e sperimentare pratiche di accoglienza e di accompagnamento spirituale. Se la Chiesa deve continuare a sostenere fortemente l’indissolubilità del matrimonio, non si può ignorare che in alcune situazioni la separazione non solo è inevitabile, ma anche necessaria, anche per il bene degli eventuali figli. Bisognerà immaginare percorsi di accompagnamento che aiutino a confrontarsi con l’esperienza che si vive (oltre che con il dolore esistenziale che la persona prova), in vista di una partecipazione piena ai sacramenti.

Annullamento, ma non basta

Lo snellimento della prassi canonica in ordine al riconoscimento della dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale (domanda 21) è necessario per far sì che più persone possano conoscere questa procedura e accedervi agevolmente. Ma è più urgente interrogarsi se l’annullamento sia il solo istituto a cui il credente praticante può ricorrere oppure se si possono trovare altre forme, come ad esempio quelle accettate nella Chiesa del primo millennio e che sono ancora in uso nelle Chiese orientali.

È opportuno reintrodurre il “principio di economia” che permette il recupero di persone che hanno avuto difficoltà matrimoniali. È altresì opportuno riprendere l’esame e l’approfondimento di alcune proposte di iter di reintegrazione, come quello della conferenza episcopale tedesca. Questa soluzione sarebbe feconda anche in una prospettiva ecumenica nei confronti delle Chiese con cui condividiamo la sacramentalità del matrimonio.


Una improbabile differenza

Un gruppo di domande sono relative alla paternità responsabile e alla contraccezione (domande 31-34). Pensiamo che l’Humanae vitae sia conosciuta, ma non accolta pienamente. L’aspetto che riteniamo più importante è la centralità data alla paternità e alla maternità responsabili, vale a dire la capacità dei credenti di fare scelte morali a partire dalla coscienza e dall’analisi del contesto in cui vivono. Questo richiede l’espressione dell’apertura generosa alla vita, ma, al contempo, la capacità di cogliere quando è necessario fare scelte differenti e ricorrere a pratiche contraccettive. Da questo punto di vista, riteniamo che non vi sia differenza sostanziale tra i presunti metodi naturali e gli altri strumenti di contraccezione (che sono ben diversi dalle pratiche abortive), sia da un punto di vista morale sia da un punto di vista pratico. Continuare a sostenere questa improbabile differenza rischia di allontanare dalla vita sacramentale, e non solo, coloro i quali hanno compiuto un’autentica e responsabile scelta morale.

* http://chiccodisenape.wordpress.com; l’articolo è stato redatto da Antonello Ronca

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