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Un vescovo “di strada” per Palermo

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 2 del 18/01/2014

Il vescovo della mia diocesi, Palermo, card. Paolo Romeo, non è certo l’unico che per motivi d’età sarà sostituito nel corso del 2014 (ha compiuto 75 anni, l’età della pensione, il 20 febbraio 2013). Come avverrà la designazione del successore? È noto che i criteri con cui si scelgono i nuovi vescovi costituiscono una spia rivelatrice del progetto di Chiesa che ogni papa ha in mente. Ciò è stato vero sino a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI e non può non esserlo per Francesco.

Schematizzando brutalmente, l’attuale vescovo di Roma, pescato “dalla fine del mondo”, ha davanti tre strade.

La prima, che è la più comoda ma anche la più sterile, è lasciare intatti i meccanismi previsti dall’attuale Codice di diritto canonico e da una prassi consolidata da circa cinque secoli: che i vescovi scelgano per cooptazione i propri successori, limitando all’invio di qualche “lettera riservata” il coinvolgimento del parere di presbiteri e laici impegnati ecclesialmente. Ma questa auto-riproduzione del ceto episcopale non significa perpetuare un modello di pastore al quale Francesco non lesina pesanti e più che fondate critiche? Non significa privilegiare la fedeltà conformistica dei funzionari del sacro rispetto alla creatività pastorale di quei preti che hanno anteposto le esigenze del Vangelo a ogni calcolo di carriera? Non si rischia di premiare l’abilità diplomatica, l’accortezza di adeguarsi al vento che gira, la compatibilità con le autorità politiche in sella?

La seconda strada sarebbe la più radicale ma, proprio per questo, la più ardua da attuare dopo pochi mesi di pontificato: restituire al popolo di Dio il diritto di eleggersi i suoi pastori, così come è avvenuto per il primo millennio dell’era cristiana e oltre. Non per scimmiottare le democrazie moderne, ma per riscoprire il senso teologico del protagonismo popolare ecclesiale che delle democrazie politiche è stato prefigurazione e (sia pur appannato) prototipo. Una delle «cinque piaghe della Chiesa», secondo Antonio Rosmini, consisteva proprio nell’aver rinunziato alla prassi tradizionale secondo la quale «erano i desideri dei popoli a designare vescovi e sacerdoti; ed era troppo ragionevole che quelli che dovevano affidare le proprie anime (e quando dico le anime, dico tutto ciò che posso dire, parlando di popoli, nei quali è viva la fede) alle mani d’un altro uomo, sapessero che uomo egli fosse ed avessero confidenza in lui, nella sua santità e nella sua prudenza».

Che questa seconda pista non venga subito intrapresa potrebbe rispondere, oltre che a motivi di opportunità, anche a criteri di saggezza: proprio le esperienze della società civile ci insegnano che i meccanismi democratici sono preferibili ai metodi autoritari e verticistici solo quando la base ha avuto tempo e modo di maturare un minimo di consapevolezza e di responsabilità. Un popolo cattolico, da secoli trattato come “gregge”, sceglierebbe i suoi “pastori” con la stessa superficialità con cui sceglie i suoi rappresentanti politici. Deve dunque essere gradatamente rieducato a pensare con la propria testa e ad agire di conseguenza con effetti che sarebbero benefici tanto per la vita interna della Chiesa cattolica quanto per la vita sociale dei Paesi di antica tradizione cattolica.

Scartati sia il mantenimento dello status quo sia la rivoluzione nel senso letterale di ritorno alle originarie posizioni di partenza, resta a papa Francesco una terza strada: usare il potere assoluto che gli è stato consegnato dalla tradizione (relativamente recente) per nominare come vescovi quei preti che le comunità ecclesiali eleggerebbero se ne avessero la possibilità giuridica e la saggezza esperienziale. Quei preti che non da qualche mese, ma da decenni, sanno che il loro posto non è nei salotti buoni quanto nei quartieri difficili; non nelle curie, ma nelle periferie; non dove si decidono le promozioni gerarchiche, ma dove si incontrano gli emarginati. Quei preti che, a parole e soprattutto coi fatti, hanno detto «chi sono io per giudicare?» a ex-preti, ex-suore, divorziati, omosessuali, tossicodipendenti, carcerati, conviventi, intellettuali e artisti in ricerca… quando ciò significava essere guardati con sospetto dal proprio vescovo e dai monsignori rispettabili.

Uno di questi preti, don Pino Puglisi, è stato, a maggio del 2013, proclamato beato e martire di mafia (v. Adista Segni Nuovi n. 29/13 e Adista Notizie n. 22/13). Non sarebbe il caso che venissero valorizzati adesso, in vita, quei pochi confratelli che gli erano davvero vicini nell’impegno, quando la stragrande maggioranza del clero lo considerava un impiccione? O bisognerà attendere, anche per questi preti di strada ricchi solo di fede e di amore, che siano i mafiosi a notarne le qualità eccezionali (riservandosi di portarne in giro qualche costola per macabra devozione)?

* Docente di storia e filosofia nei licei, consulente filosofico. Fra i suoi ultimi libri, “Beato fra i mafiosi. Don Puglisi:storia, metodo, teologia” (con Francesco Palazzo e Rosaria Cascio), Di Girolamo, Trapani, 2013.

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