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NON TRAMONTA IL SOGNO DELLA PATRIA GRANDE. UN SUCCESSO IL VERTICE DELLA CELAC

Tratto da: Adista Notizie n° 5 del 08/02/2014

37497. L’AVANA-ADISTA. Che il processo di integrazione della Patria grande latinoamericana sognata da Simón Bolívar non abbia perso il suo slancio lo ha rivelato chiaramente il II Vertice della Celac, la Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici – dentro Cuba, fuori Canada e Stati Uniti – nata a Caracas nel 2011 con l’obiettivo di diventare, come affermava uno dei suoi più convinti artefici, il compianto presidente venezuelano Hugo Chávez (ripetutamente ricordato nel corso del vertice), «un blocco politico mondiale indipendente, non soggetto a potenza né a potere alcuno», e meno che mai a quella potenza che per un lungo, interminabile periodo ha davvero ricoperto «l’America di miserie in nome della libertà», secondo le profetiche parole pronunciate da Bolívar nel 1829.

È solo nel 2005, al Vertice delle Americhe di Mar del Plata, che avviene la svolta, quando Hugo Chávez, Lula e Néstor Kirchner affossano il famigerato progetto dell’Alca, l’Area di libero commercio delle Americhe. All’epoca, l’Alba (Alleanza bolivariana per le Americhe) aveva già mosso i suoi primi passi ed era stata appena costituita la Comunità Sudamericana delle Nazioni, poi denominatasi, nel 2008, Unasur, Unione delle Nazioni Sudamericane. Finché, nel dicembre del 2011, con la nascita della Celac, l’America indo-afro-latinoamericana ha davvero potuto iniziare una nuova fase della sua storia, tentando la via di un’integrazione regionale di carattere politico e non solo commerciale ed economico, diretta dagli Stati e non dai mercati e tesa a realizzare, come si leggeva nella Dichiarazione di Caracas, «le nostre legittime aspirazioni di inclusione sociale, crescita con equità e sviluppo sostenibile» (v. Adista n. 93/11).

Ma è al suo II Vertice, svoltosi nella capitale cubana dal 25 al 29 gennaio scorso, che la Celac ha mostrato di avere tutte le carte in regola per poter diventare, per le 33 nazioni a sud del Rio Bravo – in attesa che a queste si unisca, in un futuro non troppo lontano, la 34a, Porto Rico, oggi “Stato libero associato” agli Stati Uniti - quello strumento di integrazione, cooperazione e risoluzione pacifica dei conflitti che non ha di certo mai potuto fornire l’Organizzazione degli Stati Americani (non a caso ribattezzata in America Latina come “Ministero delle colonie Usa”), con la sua ininterrotta storia di legittimazione di invasioni militari e colpi di Stato. Aspettando, magari, che la Celac diventi anche uno strumento al servizio degli interessi popolari, oggi ancora sacrificati, in tutto o in parte, e con abissali differenze tra i diversi Paesi, praticamente in tutta la regione, dove il dilagare del modello estrattivista, centrato sulla produzione, sull’estrazione e sull’esportazione di materie prime senza valore aggiunto, consente alle grandi imprese di saccheggiare, devastare e contaminare ecosistemi e comunità, di attentare alla sicurezza dei lavoratori e alla salute pubblica, di criminalizzare le lotte sociali, di violare il diritto di autodeterminazione dei popoli indigeni, di condizionare pesantemente le stesse politiche governative.


L’America Latina al bivio

Malgrado il processo di integrazione non attraversi il suo miglior momento, come dimostra, tra molte altre cose, l’offensiva realizzata dagli Stati Uniti attraverso il cavallo di Troia dell’Alleanza del Pacifico – progetto con cui gli Usa hanno legato a sé Messico, Panama, Colombia, Perù e Cile – il Vertice dell’Avana è stato, a detta di tutti, un successo: dietro all’immancabile fumo della retorica, c’è stato infatti, anche l’arrosto dei contenuti, a cominciare dalla proclamazione, tutt’altro che irrilevante, dell’America Latina e dei Caraibi come Zona di Pace (a completamento di quel Trattato di Tlatelolco che, nel lontano 1969, su richiesta del Messico, stabilì la denuclearizzazione della regione), sulla base del principio della risoluzione pacifica delle controversie, attraverso il dialogo e i negoziati, e dunque scartando il ricorso alla forza o alla minaccia del suo impiego, e di quello del non intervento nelle questioni interne degli altri Paesi, come pure dell’impegno a favorire relazioni di amicizia e di cooperazione tra gli Stati della regione e con le altre nazioni, «indipendentemente dalle differenze esistenti tra i loro sistemi politici, economici e sociali e tra i loro livelli di sviluppo», a promuovere il disarmo nucleare e a «contribuire al disarmo generale e completo». Un proclama che tuttavia richiederebbe, per una sua applicazione integrale, la chiusura delle basi militari di Stati Uniti e Gran Bretagna, l’eliminazione dei loro sottomarini nucleari (la cui crescente presenza nelle Isole Malvinas è stata già denunciata dal governo argentino) e il ritiro della IV Flotta statunitense.

Se il consenso non è stato ancora raggiunto sul tema dell’ingresso di Porto Rico – per quanto sia stata salutata come un importante passo avanti la decisione di includere nella Dichiarazione dell’Avana un paragrafo relativo al caso dell’indipendenza dell’isola caraibica – unanime è stato invece il riconoscimento della sovranità argentina sulle isole Malvinas, così come unanime è stata la condanna all’embargo statunitense contro Cuba, il cui prestigio nella regione è uscito ulteriormente rafforzato dalla presidenza pro-tempore che l’isola ha brillantemente ricoperto nel 2013: assai più brillantemente, come nota Atilio Boron (Rebelión, 27/1), di quanto aveva saputo fare nel 2012 il Cile di Sebastián Piñera, il quale, per rassicurare gli Stati Uniti – decisamente scontenti di essere stati tagliati fuori e altrettanto decisamente impegnati a boicottare il processo – aveva voluto precisare che la Celac sarebbe stata soltanto un forum, non un’organizzazione.

Nel suo anno di presidenza, oltre a procedere, al contrario di quanto auspicato da Piñera, sulla via di una maggiore istituzionalizzazione dell’organismo, Cuba si è spesa, in particolare, sul versante della lotta contro la disuguaglianza, la povertà e la fame, benché, in tale campo, tanto rimanga ancora da fare, considerando che – come ha evidenziato Raúl Castro nel suo discorso – la povertà continua a interessare 164 milioni di persone (pari al 28% della popolazione), tra cui 70,5 milioni di bambini e adolescenti (sono 66 milioni, invece, le persone che vivono nella povertà estrema, pari all’11,3%). Un prestigio, quello di Cuba, riconosciuto in maniera esplicita anche dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, il quale, invitato al Vertice, ha dato grande risalto alla qualità del sistema di salute cubano e all’eccellenza dell’Elam – la Scuola latinoamericana di Medicina dell’Avana dove si formano, sulla base dei più alti valori etici e umani, studenti di ogni parte del Continente – come pure alla solidarietà offerta dai medici dell’isola in molte parte del mondo.

La responsabilità di guidare l’ancora giovane organizzazione spetta ora al nuovo quartetto di Paesi su cui ricade la direzione della Celac, della quale fanno parte, secondo l’accordo raggiunto a Caracas nel 2011, il Paese che esercita la presidenza – che per il 2014 è la Costa Rica –, quello che l’ha ricoperta l’anno precedente (cioè Cuba), quello che la ricoprirà l’anno successivo (l’Ecuador) e un Paese, a turno, della Comunità caraibica (Santa Lucía). Una sfida, quella legata al consolidamento della Celac, attorno a cui si gioca una parte non irrilevante del destino dell’America latina, dibattuta, come evidenzia Aram Aharonian (Rebelión, 24/1) «tra la decisione di ogni governo di firmare Trattati di libero commercio con Stati Uniti ed Europa e quella di privilegiare i processi di integrazione regionale». (claudia fanti) 

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