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REFERENDUM VENETO. PADRE NICOLETTO: «PIÙ POLITICA E MENO FINANZA PER ARGINARE GLI EGOISMI LOCALI»

Tratto da: Adista Notizie n° 13 del 05/04/2014

37585. VERONA-ADISTA. Oltre 2 milioni di cittadini veneti avrebbero votato un fermo “sì” alla consultazione online (detta anche “referendum virtuale”) sull’indipendenza del Veneto, indetta dall’organizzazione apolitica Plebiscito.eu. Numeri – in verità poco verificabili – che hanno elettrizzato i promotori, soprattutto il loro leader, l’imprenditore Gianluca Busato, che ha subito decretato il decadimento «della sovranità italiana sul popolo e sul territorio veneto». Numeri che – sebbene irrilevanti dal punto di vista legale – hanno però costretto media e politica a puntare i riflettori sulla “questione veneta” e a porsi più di qualche domanda soprattutto in vista delle prossime elezioni europee, perché confermerebbero anche in Italia il radicamento di un diffuso malessere che trova soluzione in tendenze localiste. Sulla questione veneta, sul rapporto tra solidarietà-egoismo e integrazione-disintegrazione abbiamo intervistato lo stimmatino p. Silvano Nicoletto, del Monastero di Sezano (Verona), da anni impegnato sul territorio in progetti di accoglienza e di riflessione civile. (giampaolo petrucci)


Lo chiamano “referendum virtuale”. Secondo te cosa c’è di virtuale e cosa c’è invece di reale?

Io penso che il “virtuale” possa dispensare dalla responsabilità del riflettere. È possibile reagire d'istinto in base all'emotività. Pertanto, se i veneti si fossero trovati di fronte ad un voto “vero” le percentuali sarebbero state sicuramente più basse. Il voto vero è indice di partecipazione, quello virtuale esige solamente un clic in un angolo della tua casa. Credo però che esista una “realtà del virtuale” che nasce dal disgusto per i giochi di potere e per le parole vuote che riempiono gli apparati della politica nazionale.


Tu, per motivi pastorali e associativi, conosci bene il tuo “popolo veneto”. Credi esista davvero un malessere diffuso?

Mi sembra che la tensione Nord-Roma sia ormai obsoleta perché collegata in origine alla crisi di Tangentopoli da cui si ricavava una visione piuttosto manichea: Il Nord onesto e laborioso, Roma “magnona” e corrotta. Molti fatti recenti hanno dimostrato che la corruzione, il malaffare e le infiltrazioni della criminalità organizzata sono profondamente radicati nelle centrali del potere del Nord. Chi in questo momento sta al potere in Veneto non può pretendere di dare lezione ad altri. Penso piuttosto che il malessere dipenda dalla consapevolezza che la politica non è più all'altezza del suo ruolo, avendo abdicato a vantaggio del potere finanziario. Insomma, di fronte a tutto ciò la gente avverte una sensazione di impotenza e preferisce dar fiato all'isterismo della fantapolitica: vada pure per un referendum che nasce dal vecchio cinismo del "tanto peggio, tanto meglio".


Una volta si parlava di Padania, poi di Nord-Est. Ora si parla di Veneto. Forse l’identità nazionale c’entra poco, o perlomeno non è forte quanto il bisogno di autonomia economica, che spinge, quando la crisi morde, in una spirale progressiva di egoismi ed esclusioni...

Sono profondamente convinto che la questione dell'autonomia del Veneto, così come intesa dal referendum, non superi affatto il centralismo economico, burocratico, culturale, ecc. Il centro viene semplicemente spostato secondo criteri di potere, per cui, nel Veneto, Venezia sarà un centro che catalizzerà Padova e Treviso, ma che escluderà Verona. A sua volta la Verona di turno rivendicherà per sé la propria autonomia. Solo chi può accedere al potere sarà preso in considerazione e parteciperà alla progettualità politica localista (naturalmente a proprio vantaggio), mentre tutti gli altri andranno ad ingrossare le periferie. Queste autonomie localiste, mentre tendono da un lato ad affermare i poteri forti locali, fanno corrispondere, a questa forza centripeta, una dinamica sociale di carattere centrifugo che respinge i più poveri. Infatti, nelle nostre città venete, non solo gli immigrati vengono marginalizzati e respinti, ma anche i più poveri delle nostre città vengono sistematicamente prima occultati, poi allontanati ed infine criminalizzati. Ma a questo punto, ci si chiede: Per chi sono le città?


Cosa potrebbe motivare le spinte indipendentiste dei veneti? Semplice egoismo?

Non penso che i veneti siano più egoisti di altri. Forse ai tempi d'oro dell'economia del Nordest poteva manifestarsi qualche indisponibilità alla condivisione della ricchezza su scala nazionale. Del resto quell'economia aveva il suo punto di forza nella dimensione familiare. Questo significava tanta fatica, molti sacrifici, molto accumulo, poca scolarizzazione (“i soldi valgono più dello studio!”). Ignoranza e ricchezza, come si può immaginare, costituiscono una miscela assai pericolosa.


Cosa ha contribuito allora a determinare questa “distanza” tra i veneti e l’Italia?

Così come in Emilia Romagna il tessuto sociale era di tradizione comunista, in Veneto tutto era controllato dal potere democristiano. Non si registravano spinte separatiste come in altre regioni di confine. Nonostante la propaganda messa in atto successivamente dalla Lega, le categorie mentali, culturali e sociali sono del tutto aleatorie e non si può parlare una vera “identità veneta”. In altri termini, la “distanza” tra Veneto e Italia non è che un artificio di alcuni movimenti e della Lega Nord la quale, trovandosi col serbatoio vuoto di proposte politiche credibili – dopo gli scandali, le corruzioni, le infiltrazioni mafiose, i clientelismi e i moltissimi casi di parentopoli – ha tentato di scuotere gli ultimi brandelli d’elettorato cavalcando la situazione.

Guardando alle prossime elezioni: che fine ha fatto il “sogno europeo” dell’integrazione?

Così come sta accadendo in Francia e in altre parti d'Europa, l'insorgere dei nazionalismi di estrema destra, e il conseguente rifiuto del “sogno europeo”, non sono che l'esito perverso della sottomissione delle politiche nazionali ai poteri finanziari. Fintantoché l'Europa sarà percepita come “Europa finanziaria” e non come “Europa politica”, nazionalismi, euroscetticismi e referendum “alla veneta” saranno all’ordine del giorno. Occorre infatti destrutturare il mito della finanza affinché l'economia sia a servizio dei diritti, dei beni comuni non mercificabili, della cittadinanza. Insomma, è la Banca centrale europea che deve essere sottoposta alla politica, non il contrario.

Credi che la Chiesa cattolica abbia avuto delle responsabilità per non aver contrastato, nei decenni scorsi, queste tendenze?

È molto strano che la Chiesa cattolica, in particolare la Conferenza episcopale dell'era ruiniana, nel momento stesso in cui dominava sulle coscienze con i famigerati “principi non negoziabili”, sia stata silente se non addirittura connivente con movimenti e formazioni politiche di chiara tendenza antievangelica, razzista e di chiara derivazione nazista. Nonostante lo spirito profetico di papa Francesco, anche oggi le Conferenze episcopali regionali sono incapaci di discernimento per indicare un rinnovamento profondo. Il papa è cambiato, ma i vescovi sono ancora quelli di prima. Sarà necessario che passi questa generazione di "vescovi commissari" (abbiamo anni davanti a noi!) perché la Chiesa cattolica, soprattutto nel Triveneto, recuperi un po’ di slancio profetico. (g. p.)

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